Traduzione di Franco Tagliafierro e Elisa Sanchez-Casas
UNA NOTTE CON PRÉVERT Il vino muore e il sorriso sbiadito ritorna e gira e gira e le stelle versi dell’universo come gocce di pioggia ignea si inteneriscono e la sua memoria arde e il calice con Prévert nudo tra le moltitudini insieme alla sua sorellina di fiori e vittoria e le sfilate del generale De Gaulle scontri di assassini forzuti ordinati addestrati uniformati e verde sogno senza stelle allora quando l’essere vuole gli ombrelli delle nubi e l’intero universo essere il suo letto attraente di vuoto e di nerezza e l’ombra dell’amore che non si sveglia e gira e gira e il vino muore e il sorriso torna vanitoso spasmodico e le serpi circondano la sua nostalgia l’aurora prossima di occhi incarcerati come bestie di coltelli e luce e morte unite venerate in sangue ed escrementi amore bavoso come la rabbia di vomiti e crimini e il cuore sveglio sganciato pendente dalla molla cerebrale sanguinolento e il vino muore e il sorriso torna e gira e gira… (Un inferno di salvezz(a)zione, 1982) Una noche con Prévert El vino muere y la sonrisa desvanecida torna y gira y gira y las estrellas versos del universo como gotas de lluvia ígnea de enternecen y su memoria arde y la copa con Prévert desnudo entre las multitudes junto a su hermanita de flores y victoria y los desfiles del general De Gaulle impactos de asesinos enteros ordenados formados uniformados y verde sueño sin estrellas entonces cuando quiere el ser los paraguas de las nubes y el universo todo ser su lecho de vacío y de negrura atractivo y la sombra del amor que no despierta y gira y gira y el vino muere y la sonrisa torna envanecida espasmódica y las sierpes rodean su nostalgia la aurora próxima de ojos encarcelados como bestias de cuchillos y luz y muerte juntas veneradas en sangre y excrementos amor baboso como la rabia de vómitos y crímenes y el corazón despierto descolgado suspendido del muelle cerebral sanguinolento y el vino muere y la sonrisa torna y gira y gira… (Un infierno de salva(c)ción, 1982) LA MOLDAVA E LA VECCHIAIA Il suo riso si prolunga lungo il fiume come una torcia umida di cigni bianchi dallo sguardo scuro. Tutte le stelle stanno sulle sue labbra e la sua pelle, come un diamante, lacera l’arazzo nero della notte. Cammina mostrando nei suoi capelli tutta la paura dell’età; la possiede perché la bellezza appartiene solo ai condannati, ma ignora che in essa si trova il palpito della sua sparizione e che quando verrà il giorno comincerà a versare tutto il suo sangue nella polvere, denso, una grande pozzanghera purpurea che impregnerà i suoi capelli. (Corpo dell’età, 1985) El Vltava y la vejez Su risa se prolonga por el río como una antorcha húmeda de cisnes blancos de mirada oscura. Todas las estrellas están en sus labios y su piel, como un diamante, rasga el tapiz negro de la noche. Camina mostrando en su cabello todo el miedo de la edad; la posee porque la belleza pertenece sólo a los condenados, pero ignora que en ella se encuentra el pálpito de su desaparición y que cuando llegue el día comenzará a verter toda su sangre en el polvo, densa, un gran charco púrpura que empapará su pelo. (Cuerpo de la edad, 1985) Il TORO DELLE MAREMME Il marinaio era morto sulla terra; lo uccise un toro delle maremme. Quel toro in foia rabbiosa scaricò la sua iattura sul marinaio mentre tesseva le reti delle nasse in cui tanti calamari catturava. Forse la morte è più dolce in mare: il mare non trafigge; inghiotte e asfissia come in un sogno salato, ma non tinge il suo letto con il dramma vischioso del sangue. Forse pensa a quello il marinaio mentre, con il ventre squarciato, prende coscienza della propria morte. Il suo corpo, dinanzi alla tempesta destinata forse alla sua vita, giace agonizzante sulla spiaggia chiedendo alle onde un ultimo sforzo mentre sente avvicinarsi un tintinnio - non più il campanaccio - e il suono sordo di alcune voci: Miserere mei Deus, secundum magnam misericordiam tuam... Et secundum multitudinem miserationum tuarum, dele iniquitatem meam. (Ho rotto il mare, 1987, 1993) El toro de las marismas El marinero había muerto en tierra; lo mató un toro de las marismas. Aquel toro ido de celo descargó su desdicha en el marinero cuando tejía las redes de los grifoles donde tantos calamares capturaba. La muerte es acaso más dulce en el mar: el mar no ensarta; engulle y asfixia como en un sueño salado, pero no tiñe su lecho con el drama espeso de la sangre. Quizá piensa en ello el marinero cuando, con el vientre rasgado, toma conciencia de su muerte. Su cuerpo, frente al temporal tal vez a su vida destinado, yace agónico en la playa reclamando un último esfuerzo a las olas mientras oye acercarse un tintineo —ya no esquila— y el rumor oscuro de unas voces: Miserere mei Deus, secundum magnam misericordiam tuam… Et secundum multitudinem miserationum tuarum, de iniquitatem meam. (He roto el mar, 1987, 1993) SECOND LOST PARADISE Tornare, tornare sempre… al primo bacio, sebbene sia verità che le sue labbra rivelano la prima evidenza della morte. (Ademenos, 2008) Second Lost Paradise Regresar, regresar siempre... al primer beso, aunque sea cierto que sus labios signan la primera evidencia de la muerte. (Ademenos, 2008) NELLA PIETRA Così come la pietra serba il tempo, così come le è concesso in ogni scheggia di donare l’acqua che possiede, così, nello stesso modo, mi ha baciato la pietra, con la sua stessa forma, identicamente liquida. (Labbra, 2013) En la piedra Así como la piedra guarda el tiempo, así como le es dado en cada esquirla donar el agua que atesora, así, del mismo modo, me ha besado la piedra, con su misma forma, idénticamente líquida. (Labios, 2013) IL DOLORE DELLA LUCE Il suo nome è inscritto nell’ombra come un marchio che rinuncia alla luce, invisibile e nonostante ciò potente, latente come il dolore che ogni giorno, ogni giorno, per puro caso schiviamo. Un altro giorno, alla fine, ti arrenderai al suo bagliore imbattibile, ai brillii della sua daga, alla ferita finale del suo taglio, e rimarrai lì, incredulo, credendo di essere un sogno fugace che non è se non la stessa rigidità del tuo nome da quel momento disegnato contro un fulgore immobile. Ed entrambi già saranno un tutt’uno per sempre, aggiogati alla memoria di coloro che lasci e che se ne andranno più lenti (però se ne andranno) cedendo al vuoto un altro vuoto, un’altra stupita cavità per il lampo, per un altro oblio. (Luce, più luce, 2018) El dolor de la luz En la sombra está su nombre inscrito como un estigma que a la luz renuncia, invisible y no obstante poderoso, latente como el dolor que cada día, cada día, por simple azar burlamos. Otro día, al fin, te rendirás a su esplendor imbatible, a los brillos de su daga, a la final herida de su filo, y permanecerás ahí, incrédulo, creyendo ser un sueño fugaz lo que no es sino la propia rigidez de tu nombre desde ese momento perfilado contra un fulgor inmóvil. Y ambos serán ya uno para siempre, uncidos a la memoria de aquellos que dejas y se irán más despacio (pero se irán) cediendo al vacío otro vacío, otra asombrada oquedad para el relámpago, para otro olvido. (Luz, más luz, 2018)
Manuel Martinez Forega (1952, Molina de Aragon, prov. di Guadalajara). Ha studiato Diritto, Filologia Hispanica e Filologia Romanza presso l’università di Saragozza, città in cui risiede. È stato ricercatore invitato presso la Československá akademie věd di Praga. È autore di svariati libri di poesia tra cui si segnalano He roto el mar, 1987 (Premio del Consejo Superior de Investigaciones Científicas), e 333 días, 2005 (Premio Internacional Miguel Labordeta). Ha realizzato una estesa attività nell’ambito della critica letteraria e artistica. Ha tradotto numerosi classici, prevalentemente francesi e cechi, e ha conseguito nel 2002 il Premio internazionale “Roland Barthes” per la traduzione. È stato tradotto in rumeno, ceco, macedonio, russo, bulgaro, inglese e francese.
Non posso che plaudire alle ottime traduzioni in italiano di Franco Tagliafierro e di Elisa Sanchez-Casas, a cui in Italia credo che abbiano per primi dato un piccolo contributo, ma necessario, alla conoscenza della poesia del poeta aragonese Manuel Martinez Forega.
Queste poesie qui presentate coprono un arco di tempo di quasi 40 anni, dal 1982 con i versi di “Una notte con Prévert” fino ai profondi versi quasi di commiato irreversibili de “Il dolore della luce”, del 2018.
Antonio Sagredo e Manuel M. Forega si sono incontrati e conosciuti a Praga, 1982 0 1983 e la loro amicizia che dura e perdura senza limiti di tempo è divenuta più che un legame dovuto alla Poesia di entrambi, ma necessità spirituale in nome di una tendenza che li unisce. Affermò più volte il poeta russo Vladimir Majakovskij che se un poeta non ha la “tendenza” alla Poesia, non è un poeta, perché la Poesia deve sovrastarlo e non dargli tregua. Come dire a un attore che la sua parte non finisce al terzo atto di una dramma o di una commedia, ma continua già da prima di una messa in scena e continua, dopo il palcoscenico, per tutto il tempo fino alla rappresentazione del giorno dopo, e così via fino alla durata della vita!
Già dai primi versi della poesia “Una notte con Prévert si intravedono alcune delle linee guida, come quella di non cedere a una quotidianità crudele e spietata che la esistenza impone e che la difesa non può che essere soltanto un ritornello che si ripete incessante: passata la notte etilica si ritorna alla ragione con un sorriso comunque esso sia, ma sorriso che ti rimette in moto. La scelta del poeta francese è ben precisa e circonstanziata, ma tutti i poeti devono accodarsi per bere quel vino da cui sorge un sorriso.
La seconda poesia mi commuove perché mi tocca da vicino e mi fa ricordare quelle mie notti praghesi cominciate già dall’inverno del 1973, molto tempo prima dell’incontro con il poeta spagnolo, non una coincidenza ma una predestinazione se la ispanità era già in me presente fin dalla fine della mia adolescenza – il Salento, terra dove sono nato ha presenze notevolissime : dalle biblioteche all’architettura – confermata dal salentino Vittorio Bodini, uno dei maggiori traduttori dei poeti spagnoli.
La Moldava (Vltava in lingua ceca) è un fiume tragico che ogni sera e ogni notte ti tormenta coi riflessi delle stelle e bisogna chiedere di questa tortura ai grandi poeti praghesi: a Holan che viveva sull’isola di Kampa circondata dalle acque nere; a Nezval che nel suo splendido poema l’ “Edison” fa risuonare sulle onde il grido dei suicidi; a Halas con il suo verso tagliente e secco più di una lama per decollare; al cantore di Praga per eccellenza, Seifert, il cui Nobel fu un riconoscimento tardivo ma meritatissimo a tutta la compagine dei poeti e scrittori cechi del XX° secolo.
Poi seguono gli altri versi a distanza di 20 anni che sembrano riannodare vecchi fili, e al suono dei ricordi, ti baciano come fosse il primo bacio, e infine gli splendidi versi illuminati dal “dolore della luce”, che specie il primo verso mi fa ricordare il celebre “il mio nome è scritto sull’acqua” di cui si tinge la fine dell’esistenza di ognuno di noi, ma che il poeta già conosce per predestinazione.
A.S.
Tutta la mia gratitudine a Franco, Elisa e Antonio per la loro attenzione, per la loro gentilezza e sensibilità.
Poesis vivax!
Mi è piaciuta soprattutto l’ultima – una fenomenologia della morte, per quel che si può osservare osservata, per quel che non si può immaginata e affidata alle immagini.
C’è un’esattezza direi scientifica nel paragonare la morte al dolore che giornalmente schiviamo per caso – come schiviamo per caso la morte. E poi un giorno, per caso, non li schivi più, e la reazione è incredulo stupore.
Di lì in poi quello che siamo è irrigidito in un nome, nulla più si aggiunge, anzi a poco a poco in quelli che si allontanano (più lenti, ma si allontanano), anche il nome cederà all’ennesima cavità di vuoto.
Grazie della bella traduzione.
Contraddizioni. Come il marinaio mente e mani impegnate tra nasse e calamari -bordo dell’acqua che colma il respiro- viene infilzato lacerato dissanguato dal toro maremmano che si è spinto fino al confine della terra, così la pietra è identicamente acqua in ogni scheggia/stilla, e il caldo e vivo bacio è quella acqua-di-pietra. E la morte è la contraddizione massima: credendo sia un “sueño fugaz” proprio “la propia rigidez de tu nombre”, avendo cioè sottovalutato il peso che ha la vita e che proprio il nome sorregge. O almeno così voglio interpretare quel passaggio.