di Ennio Abate
1.
Parto da un sunto dei molteplici temi delle sei sezioni di «Destini capitali», che è la prima raccolta poetica di Cristina Corradi, filosofa di formazione e già nota per una notevole «Storia del marxismi in Italia» (Manifestolibri 2005):
In Storia narrativa un noi brechtiano[1] polemizza con postmoderno e ipermoderno,[2] sbeffeggia la bugia della fine dell’ideologia[3] ed evoca contro l’attuale «demenza digtale»[4] antenati comunisti come Bordiga[5] o frammenti di storia del Novecento (la Russia del ’17, l’alleanza antifascista).
Forza lavoro testuale presenta in veloci schizzi le figure del nuovo proletariato: i lavoratori della conoscenza separati dagli altri «presunti ignoranti»,[6] i «flessibili»,[7] gli «stagisti»[8], gli obbligati alle nuove professioni: editor, influencer, navigator, blogger, ecc.[9], che annaspano nella «marea dell’oggettività»[10] e magari scrivono per distinguersi dalla massa,[11] ormai immemori di quel Marx sfinitosi nello studio della «merda economica»;[12] passa poi ad un canto funebre sulla fine della cultura dell’impegno,[13] la separazione delle avanguardie artistiche e operaie che s’erano incontrate agli inizi del Novecento,[14] la scissione tra bellezza e verità.[15]
Destini capitali ironizza sulla superbia di un capitalismo «uno e trino/ fondiario produttivo monetario»,[16] che ancora si ritiene «il migliore dei sistemi»;[17] ripercorre la lotta di classe che voleva il superamento della contraddizione tra capitale e lavoro;[18] e immagina una possibile «alleanza fra Gea e Prometeo»[19] che ponga termine alla «concorrenza tra i lavoratori»,[20] alla irrazionale creazione di «denaro a mezzo denaro»,[21] allo sfruttamento del «lavoro vivo» da parte del «bulimico vampiro»[22]capitalista, contrastato ieri dai luddisti che «facevano a pezzi» il «macchinario» e oggi dagli «haker» che «infettano software».[23] Questa sezione è la più ricca di invettive: contro «la circolazione capitale», che è «un modo per predare/differenze di valore»,[24] la sua «centralizzazione»,[25] il suo «dispotismo totalitario»,[26] la «rendita»[27], la «tirannide finanziaria».[28] Ma anche di esortazioni: a far crescere l’«odio durevole per il capitale»,[29] a non accontentarsi di «scegliere tra venti dentifrici/ votare tra venti simboli, saltare tra venti canali»[30] e a contrastare «la forma merce che dilaga»,[31] mentre assistiamo impotenti all’avvizzirsi delle «relazioni»,[32] alla sottomissione di industria e agricoltura al «nuovo ordine mondiale»,[33] all’impoverimento della piccola borghesia [34] e al dilagare di un «arrogante servilismo».[35]
In Miseria personale è messa in scena lo smarrimento di un io individuale, che di fronte a qualcuno che «chiede soldi» non sa «bene cosa fare» e distribuisce «qualche spicciolo»,[36] si rammarica per l’epoca che gli «è toccata in sorte – «un’epoca in cui si vive/di scrittura, non si discute/ per agire» – ,[37] vorrebbe cucire «l’astrologia/con il marxismo» per «ritrovare un filo»[38] e resistere a un «terrore di paura»,[39]mentre si aggira, deprivato di «coscienza storica» tra «macerie culturali».[40] Oltre all’autoironia,[41] troviamo qui una critica ad una «madre tollerante e indifferente»[42], l’esigenza di confrontarsi con alcuni scrittori e politici vissuti come maestri[43] e il riconoscimento che il proprio «scrivere prosaico/ di critica economico-sociale» è costretto in una «versificazione inceppata /da condizioni extratestuali».[44]
Astri e politica inizia con un dialogo-omaggio a Fortini, che è la parafrasi di una sua poesia del 1958, «Il comunismo»,[45] ma subito dopo entra in colluttazione con la meschina realtà politica italiana, dove è sempre più vaga la differenza tra destra e sinistra,[46] i riti elettorali e i trasformismi si ripetono stancamente,[47] gli epigoni comunisti si sentono «orfani di partito»,[48] il marxismo non è più né «scienza positiva» né «cassa d’attrezzi» né «fascio di luce che erompe/ nei tempi cruciali della lotta».[49] E tuttavia vengono ribaditi i compiti minimi di una militanza comunista: scegliere la «parte sociale» con cui stare[50] e non «delegare/ ai competenti tecnici esperti/ la decisione politica».[51] Il «comunismo» – un «astro esploso come la poesia»[52] – viene salvato e conservato nella mente come «ricordo/ di un tempo migliore»[53] di «cooperazione senza primati»[54] assieme alle figure di «poeti e critici del capitale» quali «Pasolini Sanguineti Fortini»,[55] che ancora aiutano a «ridefinirci»[56] e a cogliere i «nessi invisibili» tra «poesia e critica dell’economia».[57]
La Canzone della pena capitale (in cerca di rapper), che conclude il libro ed è un breve testo di sole due pagine in versi liberi, riassume in forma scanzonata-disperata la critica anticapitalistica agli attuali rapporti sociali – il vero cardine della raccolta.
2.
I testi di Cristina Corradi possono essere letti (o io così li ho letti) come un diario intellettuale di una militante marxista. Si presentano come scarni appunti di lettura o di meditazione e sembrano soprattutto avvertenze a se stessa e a un immaginario “noi” poetante e militante. Il loro tono unitario sta nella volontà di un dire saldamente oggettivo, impersonale, che s’attenua un poco nella sezione «Miseria personale», dove compaiono un tu e un io, un accenno (disciplinatissimo) di liricità e una intenzione dubbiosa e dialogante al posto dell’assertività che domina l’intero libro.
3.
È indubbio il legame tra «Destini capitali» e gli studi marxisti dell’autrice. Il lessico e i concetti fondamentali della critica marxista dell’economia politica (Stato, capitale, mercato, forza lavoro, rendita, produzione), abbandonati o del tutto insoliti nella poesia d’oggi, qui rispuntano e distinguono nettamente «Destini capitali» dalle poesie spesso piattamente liricizzanti in circolazione. E però questi concetti e temi appartengono a una stagione culturale e politica durata fino agli anni Settanta del Novecento ma ora dimenticata e condannata. Non possono più, secondo me, entrare in poesia con la forza di un discorso disteso e sintatticamente articolato ma solo in forma di frantumi e di richiami ellittici e quasi bruschi. Non mi pare, perciò, come ha scritto uno dei primi recensori di «Destini capitali», Roberto Finelli, che siamo di fronte a una «critica del capitale messa in versi».[58] La critica c’è, persiste ma affaticata, perché, appunto, deve fare i conti con la sconfitta; e questo tipo di poesia militante o civile è in urto frontale (ed impari) con la prevalente sensibilità narcisistica ostile al pensiero critico.
4.
La mia lettura di «Destini capitali» è partita da due domande: come reagirà a questi versi un ipotetico lettore comune; diciamo pure, provocatoriamente, un “cretino”[59] nell’accezione fortiniana degli anni ’60 aggiornata all’oggi, digiuno cioè di concetti marxisti e che ha della poesia un’immagine generica o romantica? E la sua reazione può far capire qualcosa in più di questa raccolta?[60] Risponderei così: questo lettore s’aggirerà spiazzato e diffidente tra questi versi; faticherà a capire perché Cristina Corradi, sulla scorta di Fortini e di Brecht,[61] ha voluto evitare ogni liricità[62] per puntare dritto sulla critica del pensiero postmoderno; e storcerà la bocca di fronte a versi di non facile “comunicabilità” (e non intendo certo quella dei mass media). Interrogato, confesserebbe che trova questa raccolta faticosa, troppo intellettuale, anche perché rinuncia fin troppo alle immagini.[63] E farà notare pure che, dopo un po’, i testi non lo sorprendono più, perché sono variazioni sul tema fisso della critica al capitale. Soltanto in pochi testi vedrà un legame – in realtà un cortocircuito – tra i pensieri marxisti dell’autrice e le esperienze quotidiane che lui ha più a portata di mano e di mente o nelle quali è ingabbiato.[64] E poiché le mie prime reazioni sono state abbastanza simili a quelle di questo ipotetico lettore – (che sia una mia maschera?) -,[65] preciso che ho trovato troppo forte lo scarto tra la voce assertiva e il mugugno tormentoso e a volte smarrito che mi è parso di cogliere in un brontolio più sotterraneo proveniente da questi versi.[66] E preciso pure un’altra cosa: credo di avere in comune con Cristina Corradi, che ha quasi l’età della mia prima figlia, la volontà di difendere i «destini generali» e di proteggere le «nostre verità», ma a me pare necessario mettere più in luce la tensione tra la Corradi teorica marxista e la Corradi che, sempre da marxista, affronta la via della poesia. Tanto più che sia a me che a lei è chiaro che questa difesa di un lascito prezioso ma rovinato non può più avvenire nelle forme di Brecht e Fortini. Cosa che Corradi ha ben presente, se scrive: «Se ami Fortini non scrivere/ mimando lessico metrica e tropi/fatti risvegliare dal suo odio» (pag. 130). Bisogna, dunaque, che l’attrito tra filosofia e poesia, che a me pare il punto più interessante di questa sua ricerca, venga in piena luce e in tutta la sua drammaticità.
5.
Detto senza giri di parole, il meglio di questi versi sta quando accolgono i morsi amari della crisi in atto non attraverso la voce impostata, che si rivolge alla cerchia dei militanti marxisti, ma quando se ne stacca e diventa più sommessa e strozzata, perché si cala – isolata, incerta e mettendo tra parentesi schemi e schermi teorici – nella miseria insondata di un presente, che pare lontanissimo dall’immagine di una storia ormai conclusa, di solito ricordata dai suoi epigoni in una sua veste fin troppo gloriosa. (Ma, fortinianamente, non se ne dovrebbe diffidare?). E questo affondo accade nella sezione «Miseria personale». Qui non c’è più soltanto fredda constatazione oggettiva, i testi hanno più versi e si articolano in strofe, emerge un soggetto dolente e in crisi drammatica, che rompe in parte con l’impersonalità dei precedenti componimenti; e che mi pare lo stesso che compare negli otto disegni della stessa autrice: volti, corpi di amanti, figure femminili in un grigiore lattiginoso. Si apre uno squarcio che però si rinchiude, perché presto Corradi torna ad una impersonalità militante (perché gli interlocutori presupposti a cui si rivolge restano i militanti). [67].
Sono, perciò, convinto che quando Cristina Corradi sfugge alla mera costatazione di un mutamento che nega quel “Passato Glorioso”, la sua filosofia si avvicini e si allei con la sua ricerca poetica. Non riduco certo le sue affermazioni marxiste a intellettualismi o ideologismi, ma è evidente che in «Destini capitali» prevale ancora un faticoso monologo e talvolta si cede a una impotente rimostranza contro gli ex compagni avviatisi per le strade liberiste. Parafrasando il Villon di «Mais où sont les neiges d’antan?»,[68] mi chiederei: Ma dov’è più quella mitica età dell’oro del ’17 o della Resistenza o del ’68-’69? Come non accorgersi che l’assenza di destinatari reali – gli operai per Brecht, le minoranze pensanti per Fortini – per una poesia che si voglia «civile» aumenta il rischio di farsi concettosa o di confinarsi in un discorso di parte orgoglioso ma inerte.[69] No, non basterà più il dialogo con un ristretto pubblico di lettori, quelli che hanno masticato concetti o gergo marxisti in esperienze rimaste comunque minoritarie. Che vengono ripetute in riti che non si “sentono più”. O, nei casi migliori, vengono riprese in modi addomesticati, smussati, levigati in poche aule universitarie. Non possiamo restare, separati dal mondo in subbuglio, a ribadire in un seminario infinito sui testi dei nostri maestri la giustezza delle «nostre verità». E in un mondo sempre più ostile. Bisogna che lo squarcio, di cui ho detto, si allarghi e il dramma si acutizzi e chiarisca. Dobbiamo aprirci un’altra via. Che non è certo quella della liricità pura o del «pensiero debole»; ed è forse più vicina proprio a un certo Brecht del dubbio e al Fortini del «Composita solvantur», evitando così le loro immagini presentate come classiche ma inerti.
6.
Do dunque grande importanza a questo dramma[70] che si svela anche nelle scelte stilistiche di Cristina Corradi. Ad esempio, nell’uso ironico, cantilenante, martellante, beffardo della rima.[71] Oppure nei toni oscillanti tra il timido e lo sprezzante, specie nelle numerose e laconiche battute che spesso chiudono i testi. O nell’abbondanza quasi ossessiva dell’anafora, che conduce la composizione verso una registrazione rassegnata della realtà ostile. O ancora nell’elencazione infastidita,[72] nell’aggettivazione esasperata[73] e nel fare il verso al lessico dominante.[74] Certo, le rime facili e svogliate mostrano una volontà quasi tardo-avanguardistica di svincolarsi dalla cultura poetica tradizionale sentita ancora come un cappio (mentre non lo è …). Ma sono adeguate a contrastare in poesia il Moloch capitalistico? Colta la fredda fenomenologia delle sue forme, davvero la parodia o il verso alla cultura dominante bastano? A volte pare che Cristina Corradi dialoghi per disperazione coi concetti, gli dà sarcasticamente del tu.[75] Altre volte allude un po’ vagamente alla tematica politica dei decenni che hanno visto la fine dei movimenti e il rinsecchirsi in sette dei partitini comunisti residui. Scivolando verso le passioni più viscerali di Pasolini o verso il tardivo elogio dell’odio di classe del Sanguineti orfano del PCI. [76] Anche in queste scelte si mostra con più crudezza lo scarto mai risolto tra dottrina marxista ed esperienza individuale e collettiva, il nodo, il muro. A questo punto sta la nostra nuttata…
Cristina Corradi, Destini capitali, Edizioni Ensemble, 2020: https://www.edizioniensemble.it/prodotto/destini-capitali/
Note
[1] «Viviamo in tempi confusi non bui», pag. 9.
[2] Pag. 11.
[3] Pag. 12.
[4] Pag. 31.
[5] Pag. 19.
[6] Pag. 35.
[7] Pag. 36.
[8] Pag. 37.
[9] Pag. 38.
[10] Pag. 40.
[11] Pag. 42.
[12] Pag. 46.
[13] Pag. 47.
[14] Pag. 57.
[15] Pag. 60.
[16] Pag. 69.
[17] Pag. 67.
[18] Pag. 73.
[19] pag. 75.
[20] Pag. 75.
[21] Pag. 76.
[22] Pag. 77.
[23] Pag. 78.
[24] Pag. 84.
[25] Pag. 85.
[26] Pag. 89.
[27] Pag. 86.
[28] Pag. 90.
[29] Pag. 91.
[30] Pag. 95.
[31] Pag. 93.
[32] Pag. 98.
[33] Pag. 100.
[34] Pag. 102.
[35] Pag. 103.
[36] Pag. 109.
[37] Pag. 110.
[38] Pag. 107.
[39] Pag. 108.
[40] Pag. 113.
[41] «Anni fa non potevo morire/ dovevo terminare /un libro sul marxismo», pag. 126.
[42] Pag. 129.
[43] «Dei maestri non rimpiangiamo», pag. 130.
[44] Pag. 131.
[45] Pag. 135.
[46] Pag.138.
[47] Pag. 139.
[48] Pag. 154.
[49] Pag. 155.
[50] Pag. 145.
[51] Pag. 146.
[52] Pag. 165.
[53] Pag. 147.
[54] Pag. 151.
[55] Pag. 160.
[56] Pag. 162.
[57] Pag. 163.
[58] Mi pare che Finelli proietti sulla raccolta di Cristina Corradi una sua lettura esclusivamente filosofica. Certo, come egli scrive, «l’argomento principe di cui fa poesia Cristina Corradi è la perversione e l’estenuazione della cultura in generale, di tutta la cultura». Non mi pare, però, che ci troviamo di fronte a una mera illustrazione di concetti marxisti. La poesia aggiunge altro o dice altro di quel che afferma, anche se in questo caso con le parole del marxismo. Non è semplice esposizione di concetti in «una modalità comunicativa più accessibile e cogente, rispetto alle trame teoretiche del suo primo libro, a motivo dell’immediatezza e plasticità espressiva intrinseca alla versificazione.». Come un lettore di Dante sbaglierebbe a vedere nella Commedia solo la filosofia tomistica o uno di Leopardi solo il pensiero di Schopenauer, in questi versi non c’è solo o soprattutto «una riproposizione della “dialettica” come strumento, ancora oggi prezioso, di critica e di emancipazione sociale». Sì, Cristina Corradi si tiene «saldamente ferma al suo marxismo critico, come chiave interpretativa irrinunciabile del presente», ma svela un dramma del pensiero che è il senso per me più interessante di questa sua ricerca e mi fa dubitare che si possa parlare in tutta tranquillità di «poesia civile».
[59] Di cui nel 1967 fece la difesa proprio Franco Fortini, maestro riconosciuto della stessa Cristina Corradi (Cfr. http://www.bibliotecaginobianco.it/flip/QPC/06/2900/#20)
[60] Ho voluto così pormi all’esterno di una cerchia ristretta di studiosi o di militanti marxisti a cui mi pare che Corradi si rivolga. E distanziarmi polemicamente dall’ottica di un certo Fortini, quello del «Non parlo a tutti», enfatizzato da alcuni suoi giovani studiosi. (Pensi al libro di Daniele Balicco, che ha ripreso nel titolo proprio questo detto fortiniano).
[61] Al quale si rivolge con un troppo reverenziale: «spetta a noi chiederti indulgenza» (Cfr. «Viviamo in tempi confusi non bui», pag. 9).
[62] A mio parere senza riuscirci. Ad esempio, i disegni interni e di copertina dell’autrice mostrano un lato dolente ed espressionistico del suo sentire e si distaccano da qualsiasi classicità (marmorea o civile che si voglia).
[63] Non è detto che in poesia l’iconoclastia sia una cosa sempre buona. E neppure che non si possano scegliere immagini non per rendersi gradevoli o sedurre il lettore ma indurlo a pensare e a ragionare in rottura con la comunicazione massmediale o la società dello spettacolo. Nelle stesse poesie di Fortini o di Brecht non mancano.
[64] Cfr. in particolare «Per strada qualcuno chiede soldi», pag. 109.
[65] Un atteggiamento che ha ben espresso in questi giorni Bensayag in un’intervista su «il manifesto»: «Si tratta allora di pensare e di farlo nel disastro della sinistra, nella distruzione di quel momento così importante, soprattutto in Italia, che sono stati gli anni Settanta. È in questo mondo modificato da diverse tirannie, compresa quella algoritmica o della sorveglianza permanente che attacca pesantemente la nostra intimità rendendoci trasparenti e dunque non umani, dove possono esistere vie di libertà e solidarietà. È una sfida per proteggere la vita, la tentazione della nostalgia è molto grande.» (https://ilmanifesto.it/miguel-benasayag-nel-nido-dei-legami/)
[66] È per questo che non mi convince la lettura di Finelli. Io e il lettore comune non ci lasciamo sfuggire il dramma sottaciuto o alluso – guarda un po’ – proprio con l’inserimento delle 8 immagini apparentemente esterne al diario intellettuale di «Destini capitali». Bisogna disseppellire e interrogare la tensione tra la teorica e la poetessa. Anche contro la propensione della stessa autrice a privilegiare i toni perentori e secchi della teoria e dell’oggettività.
[67] Nell’ultima sezione, dove si trova «Sempre sei stato comunista», una parafrasi quasi autodidattica di una poesia di Fortini, «Il comunismo (1958), abbiamo ancora un tentativo di dialogo; ma a me pare che si rinchiuda presto in una litania di anafore. Sono 11 strofe introdotte da un martellante «Sempre sei stato comunista». Così non solo scompare lei, la voce poetante ma la parafrasi rischia l’agiografia. Ne viene fuori un Fortini quasi santo eretico e buono però solo per un culto catacombale. Troppa ammirazione quasi infantile verso una figura paterna.
[68] «Dove sono le nevi di un tempo?».
[69] Questo monologo da militante in crisi lo trovo a tratti simpatico. Una che conosce Marx, alla cui lezione neppure io ho rinunciato, fa bene a ricordare e persino a sbandierare certi suoi concetti sotto il muso di quei molti che l’assaggiarono in fretta e presto lo vomitarono o l’hanno poi smozzicato in piccoli dogmi o in talismani ideologici consolatori. E Corradi sa che «biasimare i vincitori/ è debole soddisfazione» («E questo scrivere prosaico», pag. 131).
[70] Per averlo vissuto proprio negli anni Settanta. Cfr. il mio «La pòlis che non c’è».
[71] Cfr. «Abbiamo creduto alla bugia», pag. 12.
[72] Es. alle pagine 30, 38, 42, 120.
[73] Es. pagg. 87, 104.
[74] Es. «Scrivi che ti passa», pag. 42.
[75] Cfr. «Postmoderno ipermoderno», pag. 11.
[76] Credo che per ragioni generazionali Corradi smussi troppo le distanze tra i tre poeti marxisti che lei presenta quasi Lari del comunismo. A differenza di Pasolini e Sanguineti, Fortini indicava la via dell’«uscire di pianto in ragione».
Presentazione interessante. Non so se il succo si possa riassumere con questa frase: “si mostra con [più] crudezza lo scarto mai risolto tra dottrina marxista ed esperienza individuale e collettiva, il nodo, il muro.” Forse è giusto, comunque, storicizzare lo scarto: trascurando i lunghi percorsi di stati comunisti e di esperimenti in altri continenti, rifarsi almeno agli anni ’70 del novecento qui in europa e Italia, e alla implosione dei gruppi marxisti, mi pare verificatasi prima ancora che il neoliberismo attaccasse le conquiste del lavoro.
Quindi lo scarto tra la dottrina marxista e l’esperienza individuale e collettiva, il nodo, il muro, lo riferiamo a cinquanta anni fa, di cui c’è memoria vivente e non solo scritta.
L’analisi di Abate si concentra sul patrimonio di concetti di analisi e di scritture letterarie di cui oggi può disporre chi voglia rendere viva la “dottrina marxista”. E renderla viva in modo creativo, così che l’esperienza personale e collettiva possa darne testimonianza. Al proposito Abate registra un rischio di poesia concettosa rispetto ai “frantumi e [di] richiami ellittici e quasi bruschi” che potrebbero dare conto dello smarrimento per una sconfitta.
Ma, appunto, tutto questo resta chiuso nel cerchio magico del rapporto tra dottrina marxista e esperienza individuale e collettiva. Come se non si potesse fare poesia (e letteratura, e pittura e musica e atti performativi…) a partire dallo sguardo spassionato a quello che abbiamo davanti ora, e di cui sappiamo per certo il sottostante di sfruttamento, di oppressione, di confusione ideologica. Come dire che il marxismo ci è dentro, è assimilato, è vero.
La dottrina andrà (dagli studiosi dedicati) raffinata, precisata… e tradotta in elisir, non contrapposta membro a membro. Non tutti possono possederne la lettera. Ma sicuramente tutti ne facciamo dura esperienza. (Tutti-quasi: per alcuni l’esperienza fruttifica, sono i paradossi della realtà, e della filosofia che la osserva.)
Complimenti ad entrambi per la pubblicazione su “L’ospite ingrato”.