Diari, crisi e fallimento

di Davide Morelli

Vorrei prendere in rassegna alcuni diari di scrittori e fare una considerazione a largo raggio. Ho scelto dei diari perché per me sono al contempo sguardi di dentro, testimonianza e memento mori.

“Il mestiere di vivere”

I più conoscono Pavese per essere stato l’autore di romanzi come “La luna e i falò”, “Il compagno”, “La bella estate”. Meno conosciute invece le sue riflessioni sulla vita, sulla poesia, sulla letteratura, presenti in questo suo diario, costituito da annotazioni che vanno dal 1935 al 1950. Nemmeno i colleghi dell’Einaudi si immaginavano la sua disperazione, il suo feroce senso di solitudine. Questi aspetti li conobbero con la pubblicazione postuma di questo diario, dopo il suo suicidio nel 1950 a Torino in una camera d’albergo. Solo allora ebbero modo di leggere attentamente nelle pieghe più scure del suo animo e comprendere la sua paura di vivere, il suo terrore per il sesso e per le donne. Italo Calvino, che era uno degli amici, non aveva mai presentito nulla a riguardo. Quest’opera è permeata da un pessimismo di fondo, da una sfiducia continua verso gli altri. L’uomo Pavese non coltivava la speranza e questo si legge a chiare lettere. Forse la speranza la perse definitivamente dopo essersi innamorato, senza essere corrisposto, dell’attrice americana Costance Dowling. Però l’intellettuale – come ha intuito felicemente Sergio Solmi – si ribellava all’uomo e con questo diario si difendeva dall’idea del suicidio. Infatti, pochi giorni prima di uccidersi scriveva sul suo diario: “Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”. Questa è l’ultima frase di Pavese ed è una grande testimonianza del valore terapeutico della scrittura. Leggendo questo diario, si possono trovare considerazioni illuminanti sulla letteratura. Ne riporto alcune. Il 10 novembre 1938 annota: “La letteratura è una difesa contro le offese della vita”. Il 22 marzo 1947 scrive a riguardo dei grandi temi della letteratura moderna: “Hemingway ha la morte violenta, Levi il confino, Conrad la perplessità dei mari del Sud, Joyce lo stereoscopio delle parole-sensazione, Proust l’inafferrabilità degli istanti, Kafka la cifra dell’assurdo, Mann il ripetersi mitico dei fatti”. Allo stesso tempo si possono trovare riflessioni cariche di delusione, massime pervase da un sentimento di estraneità nei confronti della vita. Il 17 novembre del 1937 scrive: “È incredibile che la donna adorata venga a dire che i suoi giorni sono vuoti e tormentosi ma che di noi non vuole saperne”. Il 21 novembre dello stesso anno troviamo: “No, non sono pazzi questa gente che si diverte, che gode, che viaggia, che fotte, che combatte, tanto è vero che vorremmo farlo anche noi”.

“Il diario degli errori”

Nel “Diario degli errori” ci troviamo di fronte ad una raccolta di scritti, che vanno dal 1950 ai primi anni settanta. Flaiano dipinge quell’Italia con pennellate colorate di ironia e pessimismo. Per capire di più dello scrittore bisogna ricordare che i rapporti con Fellini non erano sempre idilliaci e che l’unica sua figlia, Luisa, soffriva di problemi mentali, dovuti ad una grave encefalite. Apparentemente il tema predominante di questi scritti è il viaggio. Ma questo può andare bene solo a chi vuole restare in superficie. In realtà Flaiano lo scrive subito, all’inizio del libro, che la noia e la malinconia ci perseguitano, ovunque andiamo. Ce lo dice subito che è meglio non viaggiare. I viaggi sono solo un pretesto per pensare ai paradossi dell’Italia.  Flaiano elimina le mezze bugie e ci presenta mezze verità intaccate di scetticismo. Nei suoi scritti riflette totalmente l’essenza della sua personalità. È polemico, sarcastico, a tratti cinico, sempre disincantato. È un individualista, al di fuori di ogni logica di partito. È avverso al conformismo e all’impegno politico, in cui intravede sempre scaltro opportunismo. Intendiamoci: ha un orientamento politico, è antifascista ed anticomunista allo stesso tempo. Però non   si schiera. Le sue annotazioni, i suoi divertenti calembour mettono alla gogna i malcostumi diffusi dell’epoca, svelano la pochezza dei falsi miti e delle false coscienze. L’Italia è un paese in cui prevale l’idealismo. I politici non parlano chiaro. Gli intellettuali scrivono spesso libri poco comprensibili per chi non ha un bagaglio umanistico. Le leggi possono essere decifrate solo dagli avvocati. E Flaiano riassume questo atteggiamento culturale scrivendo che in Italia non esiste la verità perché la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Non c’è speranza. Non c’è via di fuga. Non c’è ancora di salvezza. Flaiano non salva nessuno, neanche se stesso. Il suo pessimismo a mio avviso è sintomatico di una sua crisi interiore. Ma ecco un suo pensiero di questo “Diario degli errori”: “Italia, paese di porci e di mascalzoni. Il paese delle mistificazioni alimentari, della fede utilitaria (l’attesa del miracolo a tutti i livelli), della mancanza di senso civico (le città distrutte, la speculazione edilizia portata al limite), della protesta teppistica……”. Infine, Flaiano ci ricorda che “vivere è una serie ininterrotta di errori, ognuno dei quali sostiene il precedente e si appoggia sul seguente. Finiti gli errori, finisce tutto”.

“L’età del Jazz”

Avevo letto la raccolta di saggi di Cioran, intitolata “Esercizi di ammirazione”, ed ero rimasto favorevolmente colpito dal commento che il filosofo aveva fatto su “The crack up” (in italiano “Il crollo”) di Fitzgerald. All’improvviso una sera in una libreria mi imbatto in un Oscar Mondadori, intitolato “L’età del Jazz”. Mi metto a sfogliarlo e lo compro subito. Questo libro raccoglie annotazioni di diario, lettere, taccuini e quel che mi interessava più di tutto: “La trilogia del fallimento”, tre saggi brevi, in cui il grande scrittore descrive la sua condizione esistenziale e svela i suoi fallimenti. Fitzgerald aveva subito bruciato le tappe, raggiungendo il successo con “Di qua dal Paradiso” e con “Il grande Gatsby”. Negli anni ’20 con la moglie Zelda era nel vortice della mondanità di New York. Stanchi della vita frenetica di New York, andarono a vivere sette anni in Costa Azzurra. Tuttavia, non approdarono alla serenità. Fitzgerald diventò alcolizzato; alla moglie Zelda venne diagnosticata la schizofrenia.  La parola Jazz è stata sinonimo di tre cose in quegli anni: sessualità, danza e musica. Erano gli anni del proibizionismo. Le ragazze si tagliavano i capelli ed andavano a bere alcol nei locali clandestini insieme ai ragazzi. Ma alla fine Fitzgerald scopre che è stato tutto vano, che niente è restato di quegli anni. Le illusioni sono crollate. Il grande sogno è stato perduto per sempre. Questi li definisce i colpi che vengono dall’esterno. Ma esistono – come lo scrittore sa – anche i colpi che vengono dall’interno; ed è questo lato Freud, che personalmente ritengo interessante. Alla base di tutto c’è un blocco psicologico, una sensazione di scacco matto esistenziale. Ho avuto l’impressione netta che tante conoscenze e tante amicizie con personaggi importanti, ricchi e colti non l’abbiano arricchito interiormente ma svuotato. Fitzgerald ritorna in sé. Scrive della propria inettitudine, del proprio torpore, della propria apatia. Con la mondanità aveva cercato di costruirsi invano un’ampia rete sociale, ma alla fine si accorge della perdita della sua identità. Si rende conto di non aver mai fatto scelte autentiche. Con questi scritti riconosce il fallimento e descrive addirittura che il proprio mondo interiore si è decostruito. Tutto inizia con l’insonnia. Ma la notte insonne diventa successivamente metafora della sua condizione esistenziale perché – secondo lo scrittore – nella notte dell’anima sono sempre le tre del mattino. L’autore chiarisce a se stesso ed al pubblico la sua crisi, paragonando la sua esistenza ad un piatto incrinato. Racconta di essersi ritirato dal mondo per due anni allo scopo di catturare silenzi interiori. Per due anni non ha vissuto nel mondo comune, ma in un mondo strettamente intimo e privato. La sofferenza interiore lo costringe a pensare ed a scavare dentro se stesso.  Nonostante la crisi Fitzgerald si interroga e cerca nessi logici, ma la cosa più interessante è che lo scrittore all’improvviso scopre il lato oscuro della sua personalità. Lì scorge contraddizioni ed enigmi: in una parola sola intravede l’abisso.

“Diario” di Guido Morselli

Morselli proveniva da una famiglia agiata. Si laureò in legge. Lavorò per un breve periodo come impiegato. Fece la guerra. Poi scelse di non lavorare. Il padre, obtorto collo, accettò il volere del figlio e gli dette una modesta rendita. Per tutta la vita fu “un eterno dilettante”. Tutte le case editrici rifiutarono i suoi romanzi. Eppure oggi è riconosciuto come un grande scrittore ed un maestro di ucronie [1]! Anche Italo Calvino rifiutò i suoi lavori [2]. Eppure Calvino è stato anche un talent scout di scrittori come Daniele Del Giudice ed Andrea De Carlo! Dopo il suicidio di Morselli Calasso ebbe il merito di pubblicare le sue opere con Adelphi. Attualmente Morselli è letto dalla comunità letteraria. Diciamo che è un autore di nicchia. Giovani studiosi come Gilda Policastro, Alessandro Gaudio e Linda Terziroli si sono occupati di lui. Nel suo diario si dimostra un intellettuale a tutto tondo, capace di spaziare su vari rami dello scibile. Troviamo speculazioni filosofiche, considerazioni letterarie, riflessioni sulla vita. Riporto fedelmente una annotazione del suo diario, datata 6 novembre 1959: “Tutto è inutile. Ho lavorato senza mai un risultato; ho oziato, la mia vita si è svolta nella medesima maniera. Ho pregato, non ho ottenuto nulla. Sono stato egoista, sino a dimenticarmi dell’esistenza degli altri; nulla è cambiato né in me né attorno a me. Ho amato, sino a dimenticarmi di me stesso; nulla è cambiato né in me né attorno a me. Ho fatto qualche poco di bene, non sono stato compensato; ho fatto del male, non sono stato punito. Tutto è ugualmente inutile”. Qualcuno potrebbe pensare che Morselli vedesse Dio come una entità suprema lontana, che si interessava pochissimo dell’uomo. In realtà lo scrittore, ad onor del vero, considerava Dio addirittura “una psicosi”. Tuttavia, seppur schivo ed appartato, non era misantropo. Come scrive il 22 febbraio 1947: “Ieri sera prima di dormire ho riveduto me stesso (…), tornando a casa. Non avevo mai sentito così profonda pietà degli uomini come rivivendo l’immagine di quest’uomo che attraversava piazza del Mercato”. Morselli alla fine non scriveva che per pochi amici intellettuali. Non ebbe mai il riscontro del pubblico. Il suo dramma era quello di non avere un ruolo. Per il mondo non era niente e non si occupava di niente. Per i suoi concittadini era solo un tipo stravagante e bislacco. Forse si suicidò perché sentì che tutto era “vanità di vanità”, come scritto nell’ “Ecclesiaste”, oppure per “troppo amore della vita”, come ebbe modo di scrivere. Nel mondo di oggi (in cui esistono una comunità letteraria online, i lit-blog, gli ebook e l’editoria a pagamento) ci saranno altri Morselli? Oppure il talento è destinato ad emergere sempre? Lo sapranno solo i nostri posteri.

“Le confessioni” di Sant’Agostino e “Le confessioni” di Rousseau sono opere di autoanalisi salvifiche per gli autori, dato che sono espiatorie. I “Saggi” di Montaigne hanno il merito di scoprire l’io dinamico e si contraddistinguono per il relativismo culturale, per il rispetto della dignità della propria persona oltre che di quella altrui. Invece le opere di Pavese, Fitzgerald, Morselli, Flaiano sono testimonianze della crisi di coscienza, ma non la risolvono. I loro autori sono messi alla prova e fanno naufragio. A mio avviso erano tutti troppo orgogliosi per chiedere aiuto. Accenno solo brevemente a “L’ombra e la grazia” di Simone Weil. In questi pensieri, estratti dal suo diario, la mistica dichiara che bisogna “accettare il vuoto”, “distruggere l’io”, “desiderare senza oggetto”: obiettivi quasi impossibili per raggiungere alla fine la grazia di Dio. Mi chiedo se non c’è salvezza allora per coloro che non hanno la fede. Nelle opere di Pavese, Fitzgerald, Flaiano, Morselli c’è “l’ombra” senza “la grazia”. Forse è per questo motivo che i loro nodi non si sciolgono e noi li sentiamo “nostri fratelli” per dirla alla Baudelaire. Simone Weil e Sant’Agostino sono encomiabili, ma quasi inarrivabili. Allo stesso tempo viene da chiedermi se si può rinsavire e salvarsi solo grazie all’altro, come vi riesce Pirsig grazie al figlio. [3] Ma qual è poi la causa della crisi di questi scrittori? Era solo la loro vita inautentica o quella di tutti? La loro crisi era psichicamente endogena oppure sintomo del declino della civiltà occidentale? Dipendeva da una interazione? Era esclusivamente loro il cupio dissolvi o era rappresentativo di una intera società? Difficile dirlo. Le loro crisi a mio avviso sono emblematiche riguardo alla condizione umana. A livello esistenziale siamo tutti unici ed irripetibili. Dal punto di vista ontologico siamo una infinitesima parte del tutto. L’uomo nei secoli dei secoli è rimasto in conflitto tra queste due forze antagoniste, tra la sua grandezza e la sua miseria, tra il considerarsi un miracolo oppure una nullità. Con la contemporaneità le cose sono ulteriormente peggiorate. Le tragedie delle due guerre mondiali, la recente massificazione e burocratizzazione, una società consumistica e tecnologica hanno spersonalizzato ancora di più l’uomo contemporaneo, facendolo sentire sempre di più una nullità. Si è compiuta oggi la disantropomorfizzazione.  Sono state molte le critiche al nostro mondo occidentale, definito “società opulenta” (da J. K. Galbraith), civiltà dell’immagine, società dei consumi, società di massa, “società dello spettacolo” (da Debord), etc etc. Per Marx la causa di tutti i mali è il capitalismo, per Nietzsche ed i suoi epigoni il nichilismo, per Max Weber la razionalizzazione, per i cattolici la secolarizzazione, per Husserl “la crisi delle scienze europee” [4], per gli esistenzialisti l’angoscia della scelta, per gli anarchici lo Stato e l’autorità, per Freud la repressione degli istinti, per Camus l’assurdo, per positivismo e neopositivismo la metafisica, per McLuhan i condizionamenti dei mass media, per Jonas la mancanza di un’etica della responsabilità [5], per altri l’individualismo, per altri ancora la tecnocrazia, etc etc. Inoltre per Fromm nella contemporaneità è aumentata l’ “aggressività maligna” [6] dell’uomo. Allo stesso tempo l’uomo occidentale ha sempre vissuto una grande conflittualità tra carnalità e spiritualità. Ci si ricordi del mito dell’auriga di Platone. Spesso l’uomo occidentale è un mistico bloccato, come Cioran, ed allo stesso tempo un “pornografo inibito”[7], come si definiva in una sua poesia Sanguineti. Sono queste le concause che hanno portato alla crisi Pavese, Fitzgerald, Morselli, Flaiano? Forse avevano avvertito tutto questo? Difficile stabilirlo. Psichiatri come Krapelin, K. Jamison, L. Bretagna, Cassano, P. Duke, G. Hochman hanno stabilito un legame tra nevrosi e creatività. Ma se ciò fosse dovuto ad una causa esogena? In questa sorta di Repubblica di Licurgo è forse più probabile che gli artisti sviluppino delle nevrosi? Forse la stessa razionalità tecnologica ha complicato le cose agli scrittori. Tutto al mondo d’oggi deve essere fatto in nome dell’efficienza e del progresso. Tutti devono avere una utilità pratica. Non a caso due importanti scuole di pensiero americane contemporanee sono il pragmatismo e l’utilitarismo. Per dirla alla Moravia l’uomo oggi è un mezzo e non più un fine. La civiltà vuole costruire strade dovunque e fabbricare macchine sempre più veloci. Dell’evoluzione civile, etica, artistica e spirituale poco importa. Però Jung dichiarò che era più facile andare su Marte o sulla luna che penetrare nel proprio io. La scuola non può permettersi il lusso di educare all’autonomia di pensiero. Eppure è stata proprio l’obbedienza acritica all’autorità, lo spirito gregario, l’eseguire ordini imposti dall’alto a fare diventare molti tedeschi dei criminali nazisti (gli psichiatri la chiamano “sindrome di Norimberga” e la Arendt la chiamava “banalità del male”)! Insomma, gli umanisti sono dei falliti. In fondo sono sempre più coloro che disprezzano l’arte e la poesia come Bazarov in “Padri e figli”. Vince in questo sistema antiumanista chi guadagna soldi. Vince chi si integra socialmente, chi arriva e si adegua al conformismo. Però anche chi scrive libri di successo e si realizza come artista non è detto che si realizzi come uomo: lo dimostrano Pavese, Fitzgerald, Flaiano. Oggi le cose sono degenerate; molti bestseller (la maggioranza sono bestseller di consumo) sono frutto  di un mix di furbizia, marketing, ricerca grossolana di intrattenimento.  Ci sono anche molti lettori, che pensano che i libri di Fabio Volo, Moccia, Susanna Tamaro siano dei capolavori. I lettori sono in fondo consumatori come altri. Seguono le mode e molto spesso fanno scelte eterodirette perché come sosteneva Gillo Dorfles si è ridotto l’elemento proiaretico [8]. Forse però, oggi come non mai, si può assistere al superamento di concezioni come quelle di cultura alta e di cultura bassa. Forse oggi anche gli intellettuali più raffinati sono Midcult [9]. Forse anche loro sono contaminati dalla cultura di massa. Quindi forse non c’è alternativa. Oggi sono pochi contro il sistema e l’ideologia del mercato, l’unica che è rimasta. Spesso con la scusa che il sistema si combatte dall’interno si finisce per accettare qualsiasi compromesso. Scrivere oggi significa adeguarsi ai dettami della società, cioè diventare commerciali, oppure fallire. Non c’è niente di nuovo sotto il sole: Eco aveva già distinto tra apocalittici ed integrati. Cercare di approdare al cosiddetto nervo delle cose, ad una verità umana, per quanto parziale, significa fallire. Per la filosofia l’arte contemporanea dovrebbe provocare shock, straniamento, spaesamento: insomma un rovesciamento di prospettiva nei lettori. Spesso però gli scrittori di oggi non sono più impegnati. Ho sempre pensato che attualmente un’opera d’arte, per essere tale, richieda la presa di coscienza di una problematica e debba fornire una nuova chiave interpretativa del mondo. Però anche i creatori di opere d’arte non è detto che si affermino commercialmente né che si realizzino come uomini. Inoltre, quanto dolore c’è talvolta anche nell’integrarsi socialmente! L’argomento viene trattato anche nel romanzo “Fiorirà l’aspidistra” di Orwell. Ogni artista dovrebbe scegliere idealisticamente se essere in o out dallo show-business. Invece oggi molti scelgono opportunisticamente, ma c’è sempre un prezzo da pagare quando si vende l’anima al successo o alla gloria postuma. Pavese, Fitzgerald, Flaiano non sembravano avere bisogno di niente ed invece non riuscivano a rapportarsi al mondo. Si adattavano al mondo, snaturandosi. Scrivevano capolavori ed avevano successo, ma non riuscivano a trovare un senso. Come scriveva Pavese: “In genere è per mestiere disposto a sacrificarsi chi non sa altrimenti dare un senso alla propria vita”. Ognuno in gioventù idealizza persone, mitizza luoghi e si pone aspirazioni irrealizzabili. Vivere significa spesso anche resistere e continuare, prima del definitivo rien ne va plus. Perdere significa talvolta maturare, crescere. Come scrive Guccini in “Canzone di notte n°3” anche “perdere ogni tanto ci ha il suo miele”. Forse per uno neuropsichiatra riduzionista [10] questi scrittori erano solo depressi. Forse oggi psicofarmaci efficaci riducono l’ideazione di molti artisti, ma li salvano dal suicidio. Oppure i veri artisti sono destinati comunque a fallire a livello esistenziale, metafisico, commerciale. In fondo l’editoria fa parte anche essa dell’industria culturale e non guarda in faccia nessuno; non riserva un trattamento di favore a nessuno, neanche ai più talentuosi. Forse è sempre stato così. Forse la caratteristica precipua ed intrinseca dello scrivere oggi è il fallimento. L. F. Céline era molto lucido a riguardo ed affermò: “I posteri saranno i cinesi e quelli se ne fregheranno altamente della mia letteratura fessa”. Sono memorabili anche le parole di Beckett, che valgono in senso lato: “Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non discutere. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio”[11].

Note

 

[1] Ucronia è un’opera di fantasia, spesso di fantascienza, in cui l’autore si immagina un fatto immaginario e lo sostituisce a un reale fatto storico. Gli autori di ucronie si chiedono cosa sarebbe successo se la storia fosse andata diversamente. Ogni ucronia si basa su una ipotesi controfattuale. Morselli ne scrisse due. In “Contro-passato prossimo” si immagina che la prima guerra mondiale sia stata vinta dagli Imperi centrali. In “Roma senza Papa” si immagina che il Papa si ritiri a Zagarolo.

[2] Potete trovare la corrispondenza tra Calvino e Morselli al seguente indirizzo:

http://mvl-monteverdelegge.blogspot.com/2013/03/caro-morselli-caro-calvino-il-no-di.html

[3] “Lo Zen e l’arte della manutenzione della bicicletta”, Milano, Adelphi, 1988. Non è un diario ma un romanzo in parte autobiografico. Il figlio di Pirsig morì accoltellato a 23 anni.

[4] Per Husserl la società occidentale è in crisi perché le scienze oggettivano e quantificano tutto. In fondo già Galileo aveva stabilito la matematizzazione delle scienze. Husserl è stato profetico, se si pensa al fatto che il dottor Duncan MacDougall ha pesato l’anima. Secondo quest’ultimo le persone, morendo, perderebbero 21 grammi.

[5] Per Jonas dovremmo agire, mostrando responsabilità anche verso i posteri e l’ambiente.

[6] Fromm in “Anatomia della distruttività umana” scrive che l’ “aggressività benigna” è quella necessaria per la sopravvivenza ed è quindi biofila. Invece l’ “aggressività maligna” è quella ad esempio del sadico, finalizzata al piacere di opprimere l’altro, ed è necrofila. Secondo Fromm la competizione esasperata, la ricerca ossessiva di produttività, le frustrazioni della società hanno aumentato la distruttività umana. L’uomo in fondo è l’unico primate che non uccide i propri simili per sopravvivenza ma per altri motivi.

[7] Sanguineti usa questa espressione in “Reisebilder 16”, pubblicata in “Wirrwarr”, Milano, Feltrinelli, 1972.

[8] proiaretico, ovvero in estetica che riguarda una scelta autonoma, fatta in base alla propria inclinazione e al proprio gusto. È sempre attuale “La ballata della moda” di Tenco, che è morto nel 1967.

[9] Mi riferisco al libro “Masscult e Midcult” del sociologo Macdonald. Per quest’ultimo, il Midcult era “un terzo livello […], una cultura media rappresentata da prodotti d’intrattenimento che prendevano a prestito anche stilemi dell’avanguardia, ma che era fondamentalmente Kitsch”.

[10] Secondo il riduzionismo delle neuroscienze i disturbi dell’umore e i nostri stati mentali sono determinati dalla quantità di neurotrasmettitori. La depressione sarebbe causata esclusivamente da un deficit di serotonina. Saremmo quindi molto più determinati biologicamente di quello che si riteneva un tempo. Secondo la fenomenologia invece è l’esperienza vissuta che determina la visione del mondo di un individuo. Secondo la psicanalisi gli psicofarmaci inibiscono i sintomi, ma non possono niente sul disagio interiore di cui sono espressione.

[11] Citazione tratta dalla novella “Worstward Ho” (1983), che in un’edizione italiana è stato tradotta con il titolo “Peggio tutta”, pubblicata in “In nessun modo ancora”, Torino, Einaudi, 2008.

17 pensieri su “Diari, crisi e fallimento

  1. Ringrazio di cuore Ennio Abate per la pubblicazione.
    Un ulteriore spunto…

    A dimostrazione della crisi di Flaiano:

    da “Diario degli errori”:

    [24]
    “La noia e la malinconia aspettano dovunque si vada per divertimento, per cambiare. Solo il luogo dove viviamo non ci fa pensare alla morte, al fallimento, alla vecchiaia. Turismo, triste invenzione.”

    [40]
    “I grandi uomini sanno fingere una fede e un coraggio che in realtà non hanno. Nessun uomo che ha guardato in fondo, oltre la sua vita mortale, ha fede e coraggio: soltanto rassegnazione.”

    [92]
    “Ogni tanto il cuore che si affanna e fa sentire la sua presenza. Non riesco a tener bene la penna e a scrivere con la sicurezza calligrafica di un tempo. Profonda angoscia di non so che cosa. Quando rido mi vien voglia di piangere.”

    [274]
    “Chi vive nel nostro tempo è vittima di nevrosi. Per vivere bene non bisogna essere contemporanei.”

    [288]
    “Ormai posso vivere soltanto in posti degradati: Fregene, Montesacro, etc. La vista di persone e di luoghi “bene” mi procura nausea. Segno del fallimento.”

    [305]
    “Mi è impossibile divertirmi. Sono offeso da come va il mondo- dalla volgarità delle masse.”

    Da “Diario notturno”:

    “Essere pessimisti circa le cose del mondo e la vita in generale è un pleonasmo, ossia anticipare quello che accadrà.”
    (Pag. 114)

    “Sapevamo che la sola felicità che c’è concessa è la morte. Ma se ne è fatto un tale parlare, che ora la detestiamo.”
    (Pag. 106)

  2. In una prospettiva storica (proprio perchè Morelli chiede “Ma qual è poi la causa della crisi di questi scrittori? Era solo la loro vita inautentica o quella di tutti? La loro crisi era psichicamente endogena oppure sintomo del declino della civiltà occidentale?”) essendo collocati nell’Infosfera (Luciano Floridi) disponiamo di un altro *capitale semantico*: “destinato a incidere sempre più sul modo in cui diamo significato e senso alle nostre identità e vite, sul modo in cui la realtà viene compresa, e sul modo in cui poniamo le nostre domande e offriamo loro risposta” (“Pensare l’Infosfera”, ultimo capitolo).
    Quindi: quei diari intorno agli anni ’50 (in precedenza, per Fitzgerald) che rapporto hanno con diari odierni? Il tema è ancora la vita inautentica? La letteratura come strumento di autoanalisi ha la stessa funzione?
    Faccio domande, perchè la mia conoscenza letteraria è davvero scarsa.
    Mi pare però che il rapporto con il mondo che l’infosfera struttura cancelli quasi quel tormento individuale che si esprime con la scrittura letteraria. Infatti ha ragione secondo me Morelli a separare quei diari, parte privata e in ombra del lavoro letterario degli autori, da altre opere di respiro culturale, valido per tutti, come sono le Confessioni di Agostino, i Saggi di Montaigne, l’intenso lavoro intellettuale e politico di Simone Weil.
    Il rapporto tra diario e lavoro letterario, di successo oppure no, è stretto nei casi esaminati da Morelli, mentre il successo letterario non era quello che cercavano Agostino o Simone.

  3. Grazie per l’attenzione e per il bel commento, Cristiana. I suoi sono interrogativi che mi pongo anche io e a cui non so rispondere con certezza. Forse un tempo le persone tenevano i loro diari nei cassetti con grande discrezione per anni ed anni. Oggi tutto viene messo online subito. Ci sono i blog ed i social, che forse sono i diari interattivi odierni. Forse oggi c’è minore capacità introspettiva e molto più esibizionismo e narcisismo. Non so. Forse oggi la vita è ancora più inautentica rispetto a qualche decennio fa.
    La vita occidentale sembra talvolta senza punti di approdo. Per Sartre gli altri sono l’inferno. Eppure siamo continuamente alla ricerca degli altri. Eppure nessuno riesce ad essere totalmente misantropo. Secondo la psicologia l’immagine che abbiamo di noi stessi dipende dalla considerazione che gli altri hanno di noi. Come scrive Goleman: “Il nostro senso dell’io nasce nelle nostre interazioni sociali: gli altri sono gli specchi che riflettono la nostra immagine, un’idea che è stata riassunta nella frase: sono ciò che penso che tu pensi che io sia”. La maggioranza di noi preferisce essere amata a tutti i costi dagli altri. Preferisce essere amata anche se questo significa perdere genuinità e significa essere amata per ciò che non è. Tutti vogliono essere accettati. Nel corso dell’esistenza ci sforziamo di essere delle copie. Ci facciamo omologare e appiattire. Ma è forse questa la causa dell’inautenticità? Francamente non lo so. Non posso essere assertivo ma solo dubitativo. Heidegger riteneva che la vita inautentica si realizzasse nella chiacchiera impersonale, nella curiosità e nell’equivoco. Aveva ragione ai suoi tempi? Non so. Oggi sono peggiorate le cose? Non so. Per Heidegger l’esistenza è realmente autentica solo se è continuo pensare alla morte. Ma ne siamo davvero così sicuri? Ai suoi interrogativi purtroppo posso aggiungere altri interrogativi. Viene da chiedersi cosa c’è di realmente autentico in questa vita. Il lavoro è sovente noioso, ripetitivo, alienante. Dovrebbe nobilitare l’uomo e spesso lo stressa. Nella maggioranza dei casi non lo autorealizza. Senza lavoro d’altra parte si sta ancora peggio perché l’essere umano è contemplato solo come homo faber e come homo oeconomicus. I soldi comunque non bastano mai e c’è sempre una ricerca continua del colpo gobbo, partecipando a lotterie, scommesse e giochi a premi. C’è qualcosa di autentico in questo? C’è qualcosa di autentico nelle abitudini che costellano la nostra esistenza e che appaiono così rassicuranti? Non sono routine? Non sono anche esse alienanti? C’è qualcosa di autentico nel pensiero, che nella migliore delle ipotesi è fatto di epifanie sminuzzate, reminiscenze e conoscenze di seconda mano? C’è qualcosa di autentico nel conformismo e nella continua competizione con gli altri? C’è qualcosa di autentico nel vestire bene e nell’inseguire sempre tutte le mode? C’è qualcosa di autentico nella curiosità morbosa che ci fa assistere a spettacoli di tragedie e altri fatti di cronaca nera? C’è qualcosa di autentico nel sesso con la consorte, che sovente è puro e semplice dovere coniugale? Oppure c’è qualcosa di autentico nel sesso, inteso come pura e semplice ricerca del piacere? Non è in fondo anche il sesso diventato una forma spiccia di comunicazione interpersonale e un modo per sfogarsi e per autoestraniarsi? C’è qualcosa di autentico nel divertimento? C’è qualcosa di autentico nello sballo e nella musica del sabato sera, che stordisce ed assordisce? C’è qualcosa di autentico nel picnic primaverile? E nella vacanza esotica con l’agenzia di viaggio? Tutti vogliono girare il mondo mordi e fuggi. Ma cosa resta di tutto ciò? Cosa c’è di vero e cosa di apocrifo? Infine c’è qualcosa di autentico nella vita virtuale? In questa vita tutto sembra simulacro. Tutto sembra un mezzo per raggiungere un altro mezzo. I frammenti di noi stessi sono stati persi in giro. Cosa davvero è un fine? Cosa davvero resta? La ricerca di libertà e di felicità sono davvero autentiche? Si può sempre parlare di intimi convincimenti in un mondo in cui tutto è sempre più imposto? Anche le risposte della religione sembrano inadeguate. Questa società corrompe quasi tutti. Insomma non mi sembra che ci siano appigli. Tutto è alla deriva…

    1. “Tutto sembra un mezzo per raggiungere un altro mezzo”, no. Così si è dentro il neoliberismo. Che senso ha la vita? Dare la vita, di default.
      Oppure speranze diverse, immanenti ci raccontano alcuni, trascendenti altri.
      Che ne so?
      È forse solo la Speranza, una delle tre virtù teologali, che offre… speranze.
      Altrimenti tutto è uguale, fini modesti e ragioni mancanti. Però ci si affanna, anche io.
      Forse la storia è un palcoscenico. E non dico altro.

      1. Ha le sue ragioni senza dubbio, Cristiana. Credo di capire ciò che scrive. L’affanno è anche mio. Non voglio essere pessimista cosmico o disfattista. Purtroppo spesso la speranza viene corrosa e talvolta annichilita dall’assurdo di Camus. Ma in fondo si potrebbe chiamare anche “l’anello che non tiene” come Montale. Noi cerchiamo continuamente un senso, ma la realtà supera costantemente la nostra ragione. Fatichiamo a decifrare una realtà così cangiante. Non è solo questione di eterno divenire. La Storia e le sue dinamiche hanno accelerato. Nessuno sa in quale direzione sta andando il mondo. La fatica è immane: è la fatica di Sisifo. Ecco perché sono nate le cosiddette filosofie dell’assurdo ed il teatro dell’assurdo. Da questo punto di vista aveva ragione H. Hesse: la vita non ha senso in sé, ma siamo noi che dobbiamo dargliene uno. Però non è affatto semplice. Questo è il lato metafisico. Ai tempi di Marx comunque senza ombra di dubbio erano di gran lunga peggiori le condizioni di vita e la fatica fisica era quasi insostenibile per la stragrande maggioranza dei lavoratori. Oggi si sta senza ombra di dubbio meglio. Il progresso ha allungato la vita, migliorato le condizioni di vita di molti. Noi occidentali filosofeggiamo così bene a stomaco pieno! Non vorrei perciò assumere una posa o criticare la nostra società per il gusto di criticarla. Ho però la vaga sensazione che oggi l’alienazione intesa come vita inautentica si sia estesa anche al tempo libero. Il Leviatano domina sempre le nostre vite, anche se in modo più soft(più esistenziale, più psicologico). Inoltre rispetto agli anni’70 manca il senso del noi, la progettualità e la visione di un tempo. Aggiungiamo poi che negli ultimi decenni ci sono state diverse crisi economiche, che hanno impoverito la popolazione. Non la vedo affatto rosea la vita odierna sia per la sfavorevole congiuntura economica che per i limiti intrinseci del sistema di vita attuale. Naturalmente poi su questo a mio avviso ha totalmente ragione: bisogna sempre cercare uno spiraglio, una apertura, un varco nella rete. Non c’è altra scelta. Per affrontare la vita dignitosamente bisogna fare così. Una risposta certa ed una certezza assoluta non le ha nessuno. C’è ben poco di oggettivo in tutto questo, se per oggettivo si intende ciò che è esatto oppure oggettuale oppure un canone imposto dalla cultura dominante.

  4. Più esattamente, da un lato ci può essere la realtà intesa come “gnommero” (Gadda) o come “matassa che non si sbroglia” (Montale) e dall’altro ci può essere il pensiero, chiamiamolo così, Pollyanna (dalla protagonista del celebre romanzo), per indicare una persona che cerca di vedere l’aspetto positivo delle cose. Forse le due cose possono convivere. Noi certamente dobbiamo cercare di farle coesistere.

  5. La parola di Dio è il silenzio; se diventi un ‘puro folle’ ne sentirai la Voce. Solo dopo ti sarà amico, potrai guardare al prossimo con gli occhi della compassione e alleggerire il peso della storia e della cultura… (confidenziale).

    1. Personalmente non ho alcun atteggiamento fideistico, con tutto il rispetto e la stima per lei, caro Casati. È vero che come scrive Dostoevskij “se Dio non c’è allora tutto è permesso”. Si finisce perciò nel nichilismo assoluto. Ma è altrettanto deleterio il pensiero ” Gott mit uns” (ovvero Dio è con noi). Inoltre ritengo che la fede sia qualcosa di intimo, che deve permeare le coscienze senza essere esternata. Personalmente non vedo grandi differenze di comportamento tra chi crede e chi no. In vita mia ho trovato anche molti farisei e sepolcri imbiancati. Certamente chi ha fede vive meglio con se stesso.

  6. Ho dimenticato di scrivere che anche “in God we trust” degli americani si è rivelato estremamente dannoso. La domanda è se può esistere una morale priva di cifra trascendente. Di conseguenza viene da chiedersi se può esistere una società di atei. Certamente Platone, per bocca di Socrate, postulava l’immortalità dell’anima. Certamente anche Kant per la sua ragion pratica postulava l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima. È vero che l’imperativo categorico non avrebbe modo di esistere senza il rigore morale del pietismo. L’etica laica moderna ha come radice la religiosità. È vero che gli illuministi non credevano nel cristianesimo, ma avevano come credo il deismo. Però allo stesso tempo io mi chiedo se solo la religione influenzi il comportamento o se ci siano in ballo molti altri fattori. Spesso a mio avviso ci sono molti fattori che lo determinano. Inoltre esistono molti atei ed agnostici che nel dubbio si comportano bene, mentre altrettanto non si può dire di molti fedeli. A scuola ci insegnano l’eterogenesi dei fini positiva, ovvero che i vizi privati sono necessari per le pubbliche virtù. Nella realtà spesso si concretizza l’eterogenesi dei fini negativa, cioè si inizia spesso con buoni propositi e di finisce male. Come si suol dire la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Ciò nonostante i cattolici danno sempre molta importanza alle intenzioni. Oserei dire che l’input e le intenzioni giustificano la fine, ovvero l’output. Questo è il mio pensiero a riguardo della fede per esteso. Sia ben chiaro: non volevo mancare di rispetto precedentemente a Casati, che ritengo un ottimo scrittore. Volevo solo puntualizzare questa cosa sulla fede che mi premeva.

  7. Perché favoleggiare su interventi rapsodici e idiosincratici? Uno spazio si costruisce in modo eterogeneo, con cippi inattesi che aprono a varie direzioni. Come registrare un cammino nell’errare?
    Da lontano uno sguardo onnipotente ordinerebbe tracce e mete.
    Che io sappia, siamo invece tutti nel bosco. (E come insegna tra altri Cartesio la scelta più saggia è andare avanti dritto comunque.)

  8. Non stavo polemizzando. Ho solo chiarito la mia posizione e il mio pensiero. Era comunque attinente a quanto scritto da Casati. Mi sembra che abbiamo divagato tutti troppo. È stata una spirale di pensieri divergenti.

  9. Come avrà notato, gentile Morelli, alla fine della mia breve e personale riflessione ho scritto ‘confidenziale’. Vale a dire che le mie parole hanno solo il valore di un sussurro, niente di affermativo a priori. Mi sono permesso di farle queste confidenze perché dal suo mini-saggio ho arguito che lei è alla ricerca di una umana verità in una cornice di indagine letteraria. Anche a me le persone che si riempiono la bocca della parola ‘dio’ fanno paura, le guardo con molto sospetto. Credo in una morale laica universale e la sostengo. Nella letteratura ho cercato, come lei, la verità dell’uomo; una o tante verità le ho trovate, ma non mi sono bastate. Da tempo mi sto allontanando dalle parole per sentire quella che ho chiamato ‘la Voce’, vale a dire un messaggio che si coglie nell’interiorità non affidato alle parole. E prendo le distanze anche da quelli che negano a priori una verità trascendentale, che si fanno un vanto di non avere alcun rapporto col Sacro. La vita è breve e cercare di aprire un ponte verso l’al di là viene spontaneo, specialmente per chi il vissuto, come me, ce l’ha oramai dietro le spalle. Può essere una follia, che si affida a un pensiero puro, vale a dire, per quanto possibile a noi umani, libero da condizionamenti materiali. Su questa strada mi ci ha messo la letteratura, quella che lei sta indagando con intelligente curiosità critica. Poi ciascuno seguirà la propria via…

    1. Gentile Casati,
      dopo questo suo chiarimento la stimo ancora di più. Spero di rileggere quanto prima i suoi bei racconti. Grazie per l’attenzione. Un caro saluto. Con stima
      Davide

  10. “Vale a dire che le mie parole hanno solo il valore di un sussurro, niente di affermativo a priori.” (Casati)

    Vorrei capire la differenza fra un sussurro in cui si affermano apoditticamente tre o quattro cose direi fondamentali, e qualcosa “di affermativo a priori”.

    E già che ci siamo mi piacerebbe anche sapere perché, oltre ai racconti commissionati dal senatore Pillon, dobbiamo anche sorbirci la catechesi sussurrata di Casati.

    1. Si sprechi, chiarisca la differenza insita nel sussurro.

      E magari la smetta di sussurrare. Sta diventando morboso.

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