di Pierpaolo Riganti
Nel mito, a partire dalla tragedia di Euripide rappresentata ad Atene nel 431 a. C., Medea è la donna abbandonata che uccide i propri figli per vendetta nei confronti dell’argonauta Giasone, quando le preferisce la figlia del re di Corinto: è il simbolo della negazione della maternità, variamente interpretata in chiave psicanalitica, sociologica o antropologica (opposizione tra mondo barbaro e mondo greco; tra patriarcato e matriarcato, etc.).
Già nel mondo antico Seneca colse in Medea un “pentimento per la maternità”: ex paelice utinam liberos hostis meus / aliquos haberet – quidquid ex illo tuum est / Creusa peperit. (Seneca, Medea 920-22: Oh, se il mio nemico avesse già qualche figlio dalla mia rivale!… Ma quelli che tu hai da lui, li ha generati Creusa). Nel finale della tragedia senecana Medea così inveisce: in matre si quod pignus etiamnunc latet, / scrutabor ense viscera et ferro extraham (Seneca, Medea, 1012-1013: Se nel mio grembo materno si nasconde un altro pegno d’amore, mi frugherò le viscere con la spada: con questa lama me lo trarrò fuori!). D’altronde, nel dramma di Seneca, Medea non porta con sé i corpi dei figli sul carro del Sole con cui si allontana da Corinto, come in Euripide, ma lascia i cadaveri in balia del padre: nell’allestimento scenico, un potente segno di abiura dalla propria maternità.
Quello che è il finale della tragedia di Seneca diventa invece il punto di inizio del romanzo Io sono Medea (Nulla Die edizioni, 2021, pp. 151, euro 14) dell’esordiente Claudia Mazzilli (docente pugliese di Lettere Classiche, che con il mito ha, quindi, dimestichezza); la seconda moglie di Giasone e Medea sembrano quasi essersi scambiate le parti: Medea, in questa riscrittura romanzesca, post-eroica e borghese, sembra aver rinunciato alla vendetta tradizionale (nel mito uccide la promessa sposa con doni avvelenati, oltre a sopprimere i figli avuti da Giasone).
Invece in Io sono Medea il matrimonio con Giasone è durato pochi mesi e il divorzio è avvenuto senza traumi. Eppure Medea compie una sottile vendetta quando dice alla rivale, già incinta di Giasone: Non sentirti in colpa, Glauce, sono io che ho occupato un posto che non mi spetta (Io sono Medea, pag. 40). Medea infatti non oppone ostacoli al divorzio né se ne lamenta: quasi accelera e favorisce il destino di Glauce, la seconda moglie di Giasone (questo il nome della figlia del re di Corinto in Io sono Medea, nome alternativo a quello di Creusa in una parte della tradizione classica). D’altronde, nel romanzo, il primo matrimonio di Giasone era naufragato proprio per la resistenza di Medea a concepire, una resistenza ambigua, a metà strada tra una sindrome psicosomatica, una malia di tipo magico e una consapevole rinuncia a generare.
Ecco dunque che Medea è la donna che rifiuta di avere figli, Glauce è colei che sceglie di essere madre. D’altra parte già Corrado Alvaro, nel 1949, in La lunga notte di Medea faceva parlare così la protagonista: Se potessi farli ringoiare nell’utero materno, questa sarebbe la loro salvezza.
I tempi, insomma, erano maturi per una Medea childfree: Vedevate in me, uomini e donne, il pericolo di un’alternativa: la vita senza i vostri pesi. Obblighi verso la prole che si portano dietro tutti gli altri doveri, l’obbedienza alle leggi religiose economiche e politiche a garanzia della sopravvivenza della vostra stirpe di dominatori giunta alla fine di ogni decadenza. Io sono la bestemmia vivente: l’estranea alla cura mammifera, al vostro altruismo condizionato; sono immune dalla perdita dell’ozio e del piacere, straniera nel paese del tempo immolato a essere buoni padri, buone madri, buoni cittadini di questa vostra patria perversa (Io sono Medea, p. 66).
Nella cittadina vicino Salonicco dove è ambientato il romanzo, Medea viene guardata con occhi di compatimento da chi pensa che, poverina, “non ha potuto”. Tanto è difficile accettare che non ha voluto. E quando Medea è ormai quarantenne, ogni giorno qualcuno le chiede: Medea, fai i figli. L’età ancora te lo consente, la natura lo vuole. La sua scelta di non concepire, di non aver neanche tentato, dopo il divorzio, di ricostruire una relazione sentimentale finalizzata alla maternità, la sua disinvoltura rispetto a questa tappa obbligata e necessaria nella vita della donna appare insana e problematica nell’ambiente provinciale in cui vive, forse legata alla sua origine barbara: è un’ostinazione contro natura, ma è anche un atteggiamento contrario alla cultura del luogo ed è un ostacolo alla possibile integrazione nella comunità che la ospita. La sua scelta sembra addirittura inspiegabile perché Medea è apprezzata come maestra nella scuola pubblica della cittadina costiera in cui risiede: il suo ruolo di educatrice è confuso con un surrogato della maternità. Ma Medea sa cosa vuole: lei educa cittadini, non nutre figli. In seguito, quando questa periferia della Grecia diventa terra d’approdo dei migranti dall’Africa e dal vicino Oriente, Medea torna ad essere, come nel mito, colei che spartisce il vello d’oro con chi approda, colei che si lega ad uno straniero: Medea crea con Souba, un richiedente asilo congolese, un centro di accoglienza per migranti dove, tra l’altro, sperimenta un modello di educazione libero da ogni forma di colonizzazione culturale nei confronti degli stranieri. Sarà questa la sua famiglia.
Il romanzo infatti brucia di allusioni alla più flagrante attualità: i migranti e, soprattutto, i morti nel Mediterraneo, un tema che occupa i brevi intermezzi narrativi intitolati Mare, nei quali Medea riporta alla memoria il trauma della perdita del fratellino Absirto, morto in mare denutrito e disidratato durante la fuga dalla Colchide per esclusiva responsabilità di Giasone, che gli aveva negato cibo e acqua (nella tradizione, invece, è Medea ad aver ucciso il fratello Absirto, allo scopo di rallentare l’inseguimento del padre Eeta, costretto a raccogliere pietosamente i resti del figlio). Eppure il romanzo aspira a cogliere questo tema da un’angolazione particolare e metaforica: ogni donna che non ha figli è una straniera. Fuori del ménage ordinario delle altre donne, in un ambiente gretto, la donna non genitrice è di per sé barbara, proprio perché impermeabile a familismi e nazionalismi, estranea alla trasmissione di norme acquisite, interessi e privilegi. Nel romanzo, insomma, la questione migratoria e la questione femminile si potenziano reciprocamente, all’interno di un unico e universale perimetro: la violazione dei diritti umani in tutte le sue forme, nei quali si inseriscono anche la stigmatizzazione e le violenze verbali e fisiche con cui si emargina o si colpevolizza la donna che si sottrae ad un destino socio-biologico dato per scontato.
Medea, senza essere una madre, diventa un’operatrice di altruismo e amore non condizionati da vincoli e interessi familiari. E questo perché le sue attitudini affettive prescindono dal ruolo di madre e non hanno bisogno di adempimenti biologici per essere esercitate.
Al contrario, in questa riscrittura, che rispecchia per molti altri aspetti l’intreccio del mito, sarà Glauce a pentirsi di essere madre, per parafrasare il titolo del recente saggio di Orna Donath (Pentirsi di essere madri, Bollati Boringhieri 2015): Glauce è colei che si era illusa che la maternità fosse fonte di felicità, colei che ha generato perché era alla ricerca di un ruolo socialmente riconosciuto, colei che ha subito il plagio dell’ideologia della maternità, colei che continua a sentire gli oneri della maternità persino quando i figli muoiono (non uccisi, come nel mito, ma di morte naturale). Glauce è, per alcuni aspetti e semplificando un po’, ciò che è stata Medea nel mondo classico e fino alla letteratura del Novecento. In Io sono Medea, invece, Medea ha superato il tabù della maternità etero-indotta. Medea ha scelto chi essere, rivendica una prima persona singolare profondamente soggettiva e autodeterminata, come sottolinea il titolo e come ripete più volte a sé stessa: eppure Glauce e Medea sono l’una necessaria all’altra. Quando Glauce perde i figli, subendo il destino più terribile che possa capitare a un genitore, confessa a Medea di avere finalmente compreso le ragioni dell’ostinato rifiuto di generare da parte dell’amica-rivale. Glauce comprende che qualcosa non va nella suddivisione di ruoli e compiti di cura tra uomo e donna e intuisce di essere stata complice, attraverso la procreazione, del perpetuarsi di una concezione familistica della famiglia e della società, basata sulla rapina delle risorse naturali e sulla sopraffazione ai danni del più debole: dicevi che essere madre in un mondo guasto è gioco d’azzardo, che i figli devono vivere separati dalle madri, allevati ed educati in comunità che devono coinvolgere madri e padri in modo completamente diverso, che i bambini hanno bisogno di decine di genitori e non solo due, peggio ancora se c’è un padre assente e una madre con tutte le responsabilità, perché il troppo amore delle madri può uccidere i figli, e perché l’onere che grava sulle madri è immenso e può uccidere anche le madri… Dicevi che non deve esserci differenza tra madri e non madri, che i figli devono appartenere a tutti, nemmeno a una nazione, ma all’umanità tutta… che l’essere madre non può essere uno status (pag. 91).
E il messaggio che l’opera trasmette nel finale, onirico e visionario, è un messaggio di fecondità e di rispetto della vita in tutte le sue forme.
Claudia Mazzilli, Io sono Medea, Nulla Die 2021
Ho letto il libro , un libro che dà un impulso non solo riflessivo ma trasformativo, che porta a considerare dei nodi del presente in relazione a tutta la nostra cultura, nel suo rovesciamento anche, nell’emergere di progetti personali e collettivi di sensibilità e libertà altre… ‘straniere’, donna o migrante in un comune cammino…
e molto ci sarebbe da dire…