di Gianluca Pavone
SPAZIO UNIVERSO
Un tempo, sotto la matita, c’era l’isola. Un non luogo che rimpiccioliva come occhi alla sera. Ci dicevano che questo Universo di soli e mondi era solo una visione e che non c’erano nomi né passato, avvenire. Esisteva questo istante dove il cielo era in scena, la clessidra, e quel che è nei cieli deve rimanere nei cieli. Lì, di notte, a volte scorgo la tua luce che una volta circondava il corpo e l’anima che lottava. E’ tempo che io vada, che ogni passo lasci il bosco un po’ più nudo. Per ogni fuoco. Per ogni canto.
STANZA DEL SECOLO
Fuori di noi la bocca del pesce-gatto, branchie nella boccia rotonda dove non nevica.
Insieme dormivano l’acqua e il tempo, per raccogliere pietre piatte da lanciare per contarne i rimbalzi, giorni che tatuavano visi nel per sempre. I minareti del viaggio a Tunisi, l’arancio pieno nella bocca del fuoco che ci parla, l’ennesimo passero sull’orlo del filo della biancheria che osserva negli occhi il movimento pensato. Sventoli ancora il tuo luogo sul viso del ventaglio, la tua bandiera del silenzio. Scorci sepolti che riaffiorano nell’occhio, nella verticale del gatto.
E poi garriti di rondini, moti incoerenti, intimità coperte di mosche nella stanza della vacca: coda che vorticando scaccia ogni rogna, rametti, venti che assistono ogni nascere nella sozzura. Il mio ignoto nascosto dentro il corpo del dottore, un alone accennato dietro la colonna dorsale Jonica.
Infanzia sbattuta in faccia dal giallo dell’uovo nel bicchiere la mattina, dal mangime che piove
dall’alto come una pioggia dura nell’aia. Il ritiro nella giacca, nella stanza, al primo vento che muove le giunture dell’altalena sul piazzale della sera.
E’ QUESTO CONFINE, M’APPARE
E’ questo confine, m’appare. Splendido cormorano con dentro un bianco potere. Impareremo presto ad amare la bella lotta della tortora tra le parole chiare che lampeggiano, i tempi del caso frullanti, che contornano. L’alba che giunge – nuova – è già scintilla che innesca pianeti leggeri ingemmati, i venosi sentieri delle foglie aperte e le persiane più verdi o il nocciolo del buio. E basterebbe già questo. E poi io, dentro, palpitando universi: piccolo uomo interrotto da colpi di piccone.
E attorno a me la notte limpidissima che m’oscura.
E puntuale s’inventa.
TRA LE RUGHE DEI PROFONDI RACCOLTI
Ben presto arriveranno altre primavere, soli, lune. Rassomiglio ad un guanciale fresco di gelsomini, tra veloci venti che si rincorrono e s’imbestiano in un cielo condannato che contiene padri e poi padri dei nostri padri. Narcisi, gioventù spente senza bruciature. Non arrivano più notizie dal fronte – se ne sono andati per sempre – solo sparute ruote di biciclette qua e là, che si fermano alle fontane melodrammatiche come nei vecchi film dove lo specchio è d’acqua in mille scivolini. Per il mio compleanno voglio altra giovinezza e una nuova poesia per i giorni di pioggia. Magari una punta eterna per le sottolineature notturne, quando smetto di carezzarti gli occhi capolavoro. L’inverno ombelicale dei secoli nei secoli che s’abbandona, urlando alla folgore che impunemente storna.
C’E’ QUALCOSA
C’è qualcosa in fondo alla bocca, forse un rifugio. Qualcosa che pulsa nell’occhio. Geometrie su geometrie resistono al principio di glaucoma scacciato a dosi di preghiere e mirtillo, semi di canapa. Nuoto senza stile negli ultimi pensieri della notte, gradazioni di buio che attraccano in porti d’alba che svelano tutti i contorni. A sera consumavo spiccioli di sogni lanciandoli da affacci affollati, ma c’era troppa luce nei lampioni che annullava ogni danza di pensiero che si adagiava fresco sulla ringhiera. Che fluttuava sull’acqua del Kansas tra i mulinelli del tornado, tra trasparenze infrangibili, cleptomanie primarie per un verso di Rimbaud.
Decise idee del nero nei corpi o su un faggio che tiene lontani i fulmini nei disegni a cinque anni. Gesso e unghia trascinati pescando a strascico sulla lavagna i pori lanuginosi che legano teorie, insiemi. Ed essere qui e altrove nel segno dei gemelli, nomi taciuti nei cortiletti, fra le erbacce.
La terra che svela la testa delle rocce, lo spazio che ci vuole distratti.
LIBERATE PALLOTTOLE JAZZ
Se il primo verso è sempre un dono degli Dei, allora liberate pallottole jazz in piccoli pattern: non posso parlare attraverso il buio. Oggi sono stato questo guardando i nostri sosia tra le foto rimaste, in questa specie di equilibrio di mano in mano, di sguardo in sguardo. Chi ci dice che non siamo soltanto il sogno di qualcun altro? Una carne immaginaria. E un cielo di fiordalisi. Rami spezzati dove passano silenziose le volpi. Il Tartaro dove Zeus rinchiuse i Titani. Numeri transfiniti, respiri di flauto. Il grimaldello non viene scorto: nessuna filosofia vuole morire.
E’ NECESSARIO DIRE
E’ necessario dire. In fondo si tratta sempre delle solite parole, i soliti incomponibili posti. Tu andavi a pescare il tuo eccelso in Celan. Parole azzurre, fango che colava sempre dalla punta del dito al braccio in una morsa gelata. Dicevi: <<Amo le zone indifese, le porte senza chiavi>>: tutto deve essere visto così, senza limitazioni. Ti ostini a parlarmi di cose irreali, di dicerie. Dell’insonnia negata ai morti, di pelle d’oca dovuta al passaggio dell’animale sulla terra che sarà la tua ultima casa. Ti conto gli anni scavando nella carnagione di rughe uno spazio curvo a mani nude. Tra le parole che si dicono al sicuro in casa, tra il rosso vivo dei ciliegi affacciati alle finestre.
GLI ESSERI COME TE
Gli esseri come te parlano al gelo. Non spiegano gli addii incerti. Ora sei assopito in una stanza e dolce è lo scivolare lieve dell’anima nella figuretta, che scandaglia tra le falle di sistema che lucciolano tra i freddi azzittiti solo da labbra che giocano pescando e chiamano un ricordo alla crescita. Un nodo al fazzoletto, un vento impossibile d’Africa che insegna come miserare. Un libro che illumina le pesti del corpo quando la vita si fa stretta, la lanterna scacciastreghe che evita il salto dell’anima fioca dalla rupe, dal tetto dei gatti inafferrabili. Sono pronto: rendetemi tutto l’oro del sogno impossibile.
EPPURE SOFFIA, SI CONTRAE
Eppure soffia, si contrae: qualcosa comincia nel cielo. Aliti e tramonti. Cieli in braille, interrogatori a petto nudo sfidando l’occhio del sole.
Teoria del come. Teoria del dove. Una voce imbevuta d’azzurro dice: “Il servizio è sospeso”. Si aspetta, non si parte mai. Movimenti rampicanti a diesel, tegole arroventate dalle lenti del binocolo puntate da un fotoreporter sui tetti, sui cortili. Il delitto Thorwald, l’indagine.
Nelle fotografie scolastiche il tuo sguardo è distratto nell’altrove: qualcosa vive ancora nella tua testa. Tarme che divorano gli anni migliori. Alto voltaggio, Infernetto. Ogni cielo ha la sua scatola nera da qualche parte. E tu resterai qui, ad affondarti nel cuscino. Tra allucinati campi di fragole e piste di ghiaccio dove scivolano i denti di un pettine. La tua terraferma di ogni sonno, dove attraversi i morti a sassate chiamando a rapporto il profilo di un padre. Contrasti, sbavature. Un finale di crampi. Poi più nulla.
BISOGNA IMBARCARSI
Heidegger diceva che la questione della vita non si appiana mai se non esistendo. E oggi ti giri i pollici guardando la luce che filtra dalle tende, mentre fuori nelle strade del quartiere si consumano tutte le suole delle scarpe attorno ai bancali del pesce persico, attorno al portamento eretto dei ranuncoli dell’Asia. Lo so che cerchi le impronte del postino sulle buste delle lettere precipitate nella cassetta della posta. Che immergi gli occhi sul cursore del laptop e li dimentichi lì, mentre squilla il telefono dall’altro capo della stanza e qualche ratto raschia i denti contro un filo di rame giù in strada. Suoni ancora il flauto di Pan? Aria: parola necessaria. Nel sollevamento del montascale sibilo, aria rimestata. T’immagini? Fare il surfer sulla variegatura della zuppa inglese che tracima dalla coppa d’acciaio. Oppure anelli di fumo grandi come ciambelle di salvataggio che si disintegrano a contatto con il magnete della Tate Gallery sul frigorifero con furia o indifferenza. Bisogna imbarcarsi. Dimenticando ogni pontile, ogni anfratto dove la luce gioca con la rifrazione. Appena sbocciati dal ventre della vita precipitiamo piano nel ventre della morte. Dall’aria decompressa del montuoso alla detonazione del rilascio nella confluenza delle cosce. Non si cambia lo stato della natura: nasciamo e moriamo con gli occhi chiusi.
Gianluca Pavone
Nato a Bari il 29 maggio 1975. Alcuni lavori sono stati pubblicati su antologie (Il gioco di Soren/Giulio Perrone Ed.) e riviste come Poeti e Poesia di Elio Pecora (La stanza bianca/Segnalazioni). La prima raccolta di poesie, “Esercizi di vuoto” (L’Erudita Ed./Giulio Perrone) risale al 2018. Nel 2019 la pubblicazione per le edizioni Gattili di Antonio Pellegrino della poesia “Nel nostro amen”, con un lavoro fotografico di Vito Cascella.