Domenico Fetti, La parabola della pagliuzza e della trave
Contro gli opposti (dall’alto, dal basso e magari di lato) snobismi
«Questa nostra dottrina sarà forse accolta con un sorriso da coloro che, riservando alla massa del popolo i vizi propri di tutti i mortali, dicono che il volgo è in tutto sregolato, che fa paura se non ha paura, che la plebe o serve da schiava o domina da padrona, che non è fatta per la verità, che non ha giudizio, ecc. Invece la natura è una sola ed è comune a tutti… è identica in tutti: tutti insuperbiscono del dominio; tutti fanno paura se non hanno paura, e ovunque la verità è più o meno calpestata dai cattivi o dagli ignavi, specie là dove il potere è nelle mani di uno o di pochi che nell’istruire i giudizi non hanno di mira la giustizia o la verità, ma la consistenza dei patrimoni
Baruch Spinoza, Trattato politico
Su Poliscritture ci sono due rubriche ( Zibaldone – Narrativa; Zibaldone – Poesia/moltinpoesia). Vi pubblico i racconti e le poesie che arrivano da amici o lettori-scrittori-scriventi. Non faccio una cernita rigorosa né troppo occhiuta. Mi basta che abbiano un livello di scrittura decente. E il termine stesso ‘zibaldone’ indica la provvisorietà di questa selezione. In passato tentai anche di spiegare e discutere le ragioni di questa mia scelta estetico-politica apparentemente lasca (una volta un amico mai incontrato di persona ma solo su LPLC, che si firmava Il fuGiusCo, paragonò i mieli blog a dei kolkhoz!) o di “critica dialogante”, che opponeva cioè una volontà di ricerca aperta – ci tengo a dirlo – alle ben più diffuse e per me facili spinte elitario-accademizzanti o populistico-dionisiache. Poi la cerchia dei miei interlocutori si restrinse, l’attenzione sui problemi che allora chiamavo da ‘esodanti’ si smorzò e ho finito per non approfondire neppure più questi temi. Stamattina, però, visitando il blog di Elena Grammann, “Dalla mia tazza di tè”, ho fatto un salto di sorpresa: ma qui si parla di Poliscritture o mi sbaglio? E allora mi sono venute in mente le mie smarrite riflessioni su critica dialogante e poesia esodante; e ho improvvisato questo “duetto” e lo pubblico subito. Poi avvertirò Elena e vediamo se dall’urto (dialettico?) usciranno solo scintille o altre buone riflessioni . [E. A.]
Elena Grammann
Da qualche tempo bazzico con discreta assiduità un sito molto più frequentato, caratterizzato da una pluralità di contributi, e di “classe” superiore al mio. Il nucleo e, credo, la parte più interessante è il discorso politico, ma ospita anche brevi saggi di contenuto filosofico o letterario, poesie e racconti editi e inediti. E chi al giorno d’oggi non scrive racconti, questo genere così maneggevole. Ultimamente ne sono comparsi in rapida successione tre o quattro che, in sé, non attirerebbero alcun predicato, essendo letteralmente il nulla. Ma dal momento che sono pubblicati un predicato bisogna pur attribuirlo e per come la vedo io l’unico adatto è: vergognosi. Vergognosi perché non fanno che ribadire l’esistente così come si dice che sia e come tutti già sanno che è – cioè l’esistente precisamente come non è; e in più lo popolano di anime belle, positive, ignare del dubbio, vertueuses comme on ne l’est pas, per citare Flaubert che di realismo se ne intendeva. La fiera del luogo comune – ma se anche fosse il contro-luogo comune non cambierebbe nulla, cambierebbe il segno davanti ma non la qualità della cosa, perché questi “scrittori” – nel senso che, purtroppo, scrivono – non sono in grado di vedere e dire nulla oltre quello che è già stato visto e detto innumerevoli volte e che proprio per questo è falso e inutilizzabile.
(da DI TRAVI E DI FUSCELLI (con un quiz a premi))
Ennio Abate 1
Eccellenza e mediocrità dal punto di vista dei pochi e dal punto di vista dei molti
Ancora da Spinoza derivo l’idea della conoscenza (e implicitamente anche della poesia) come perfezionamento continuo della comunicazione che moltiplica la potenza di tutti. «La lingua è conservata contemporaneamente sia dal volgo che dai dotti» – affermava il filosofo – e il senso delle parole è determinato dall’uso comune che ne fanno i «dotti» e gli «ignoranti» in quanto comunicano tra loro. Se alcuni individui conoscono più di altri – aggiungeva – questo non significa che la conoscenza debba servire a istaurare un rapporto di obbedienza tra coloro che sanno e coloro che non sanno. Perciò, il fatto che poeti di lunga pratica e con talento straordinario scrivano ottime poesie o che pochi lavoratori immateriali oggi dominino processi lavorativi veramente poetici può servire alla moltitudine vivente (come a me tornano utili le idee di un grande filosofo come Spinoza). Ma, affinché i molti possano servirsi liberamente nella loro vita e nelle loro attività degli eccellenti percorsi di conoscenza aperti da poeti, filosofi, scienziati, bisogna che venga corretta la divaricazione fra specialismo e dilettantismo, fra «eccellenza» e «mediocrità», fra «uomini di qualità» e «uomini senza qualità». Si tratta di mettere in contatto le singolarità “forti” e quelle “deboli”, affinché rese fluide possano incontrarsi, non irrigidire le loro differenze, e non fissarsi o ignorarsi a vicenda.
Una prospettiva moltitudinaria, liberandosi dagli schemi del pensiero elitario (liberale, razzista, classista o sessista), valorizza le singolarità e non irrigidisce le differenze. Essa non abbandona l’ipotesi di una possibile unità delle differenze e l’ipotesi di una base comune, pur nelle differenze, delle singolarità. Punta cioè alla fecondità degli scambi, delle contaminazioni, delle dialettiche (non più a senso unico, come quelle progressiste o pedagogiche, che spesso sono partite dall’alto di una Tradizione per depositarsi nel basso della quotidianità, verniciandone la miseria senza rivitalizzarla). Moltitudine non è caos selvaggio, ma scorrevolezza della comunicazione fra la molteplicità vivente. Elitarismo non è ordine tranquillizzante, ma eliminazione dell’altro da sé e ingessamento di una identità in apparenza splendida ma rigida. In poesia, allora, fra riuscito e non riuscito, fra livelli qualitativamente alti, medi, bassi, una prospettiva moltitudinaria coglie continui rimandi da sviluppare, non da isolare ancor più staccando di netto l’eccellente dal mediocre.
(da E. A., MOLTITUDINE E POESIA, in “Il Monte analogo” N. 1, marzo 2003)
Ennio Abate 2
Se ho capito bene, tu auspichi una sorta di liberazione dalle strettoie della critica letteraria ufficiale, verso una più ampia collettività di lettori-critici. Mi pare, però, che tu abbia saltato a piè pari il “giudizio di valore” sull’opera poetica. Come ben sappiamo spesso hanno successo opere di livello assai mediocre, fortunate perché l’autore è già noto per altre faccende, o perché spinte da gruppi con potenti e non sempre disinteressati intenti nel mondo culturale. Vuoi, per favore, farci capire come intendi distinguere – per dirla nel modo più rozzo – tra poesia esodante bella e poesia esodante brutta?
Ti dico subito, e con una formula, la mia tesi: La poesia (esodante o meno) è bella e brutta, ma nella poesia esodante quello che conta/conterà è la fluidità del rapporto tra i due poli del bello e del brutto. Un certo pensiero estetico trascura questo punto per me decisivo; e contrappone i due poli, gerarchizzandoli, facendone degli assoluti, cedendo a una subdola ottusità elitaria. Ed esso risulta anche convincente per il senso comune, perché, a livello empirico, le differenze di qualità (fra testi riusciti o non riusciti ma anche fra le facoltà mentali, intellettuali e corporee degli individui) saltano all’occhio, sono evidenti, accertabili, innegabili.
Se però ci riflettiamo, questo pensiero estetico ha due gravi difetti:
1 come una maschera nasconde una sorda resistenza contro quelle ricerche poetiche e artistiche veramente non canoniche, che riescono dinamicamente a mescolarsi con il comune, il molteplice e persino col banale, il brutto, il non riuscito;
2 dimentica e fa dimenticare che la gerarchia – presente in ogni giudizio estetico – fissa a livello simbolico (e quasi sempre a vantaggio di pochi, che però parlano in nome di tutti) un valore, il quale – attenzione! – è anche un segno di violenza e non solo di razionale o impersonale evidenza. Non voglio scandalizzare, ma mi sento di affermare: c’è un bello che “violenta” il brutto, lo mette fuori gioco, lo esclude, impedisce la sua funzione, irrinunciabile per me, di negazione della pericolosa “dittatura” del Bello assoluto. Questo non mi va. In ogni campo, anche in quello estetico, posso accettare, sì, una gerarchia includente, mai una gerarchia escludente. Qui il mio giudizio si fa politico-estetico: stabilire una gerarchia escludente (ad es. Croce: poesia e non poesia) ha avallato, sul piano simbolico-linguistico, inaccettabili soprusi, che sono omologhi a quelli storici sedimentatisi, con violenze materiali smisurate, nelle nostre società diseguali e conflittuali. Continuo, dunque, a immaginare che eccellenza e mediocrità, bellezza e bruttezza potrebbero avere un altro senso: includente appunto e non escludente. Di più: che bellezza e bruttezza – per me valori e disvalori provvisori, storici e dunque rimodellabili in sempre nuovi ordini, anche gerarchici, però nuovi e fluidi – debbano dialogare tra loro per trasformarsi anche conflittualmente. L’atto giudicante, che separa il bello dal brutto, l’eccellente dal mediocre, il riuscito dal non riuscito, è per me umano, soggettivo; deve cioè restare sempre rivedibile, mai presentarsi come oggettivo e definitivo. Non mi arrischio ad ipotizzare una base comune tra bello e brutto. Più praticamente sento fecondi gli scambi, le contaminazioni, le dialettiche (non a senso unico).
Non mi pare che il giudizio sull’opera bella e opera brutta sia solo estetico, né mi sentirei di condividere una sospensione del medesimo, ammesso che sia possibile; però comprendo il desiderio di ribellione contro le rigide strutture che oggi e in Italia “decidono” quale poesia sia bella e degna di essere scritta e letta e quale no. Vogliamo finire l’intervista parlando del valore, o “senso” se preferisci, della poesia? Vuoi raccontarci quale possa essere il “risultato” della poesia esodante come tu la immagini. Insomma, vorrei sapere quale possa essere l’effetto di quei versi, in che modo insegnino a guardare e ragionare, cambino lessico e prospettive, operino “criticamente” nell’universo contemporaneo.
Concordo con te. Ed infatti ho voluto sottolineare che si fa politica (e violenza) anche attraverso l’estetico. Anche quando non lo si riconosce. Anzi la maschera dell’estetico funziona di più, perché nasconde bene certi volti politici indecenti e così trova più facilmente il consenso passivo del senso comune. Il quale è attratto dall’estetico e si ferma appunto alla sua evidenza, senza interrogarla. Non dimentichiamo mai, però, che decidere quale poesia sia bella (e cioè poesia, e cioè valore) è in fin dei conti un potere quasi irrilevante rispetto a quello di chi decide la distribuzione in una società del lavoro e del reddito o il flusso dei capitali o le notizie che devono circolare. O di chi decide una guerra. Eppure che la poesia – questa minima tessera del mosaico sociale dei saperi – si armonizzi con il colore che domina nel mosaico complessivo o lo contraddica, evocando “altro”, conta, eccome.
Se, dunque, la poesia diventasse esodante, se quella tessera si staccasse dal resto, se cominciasse a cambiare colore, se – invece di stimolare atmosfere sognanti, abbandoni panici o mistici, elucubrazioni solipsistiche orgogliose o disperate – inducesse la gente comune a fissare l’orrore della storia non con l’occhio paralizzato e compiacente predisposto dalla TV e dai mass media, se allenasse i lettori a ragionamenti meno aridi di quelli fatti da troppi politici, filosofi, scienziati, economisti, si ricostituirebbe un noi non più costretto a nuotare solo sott’acqua, ma capace di arrivare in superficie, dove forse ci sono cieli più azzurri, venti più respirabili, e ci si potrebbe orientare verso qualche meta.
(da Sulla poesia esodante. Intervista (2013) di Ezio Partesana a Ennio Abate)
Caro Ennio, sei un tesoro, smack! Grazie della pubblicità, la colonnina sta salendo che è un piacere!
Così parlò Madame de Staël, dalla sua tazza di tè avvelenato.
Ho preso visione del racconto IN TABERNA QUANDO SUMUS proposto, appunto, da Elena Grammann. Un lavoro di buona qualità, ma con dei limiti evidenti (una specie di Decamerone paesano, eccessivamente descrittivo, con uno scoperto meccanismo di esibizione di personaggi strani e stranianti); non ultimo il fatto che la narrazione risulta più di ispirazione letteraria che creativa.
Poliscritture ne propone di migliori (bad boy).
Mai messo in dubbio che Poliscritture ne proponga di migliori. Ma non sono i suoi.
Caro Ennio, scherzi a parte. Come sai, al momento sono impegnata col saggetto che ti dicevo e purtroppo, fra i miei molti limiti, c’è quello di non riuscire a concentrarmi su due cose alla volta, specialmente cose di questa portata. Appena finito il lavoro che mi occupa, cercherò di rispondere alle questioni che sollevi nei due bei brani proposti alla riflessione. Ti posso però già anticipare che su due punti mi trovi assolutamente d’accordo:
“Anzi la maschera dell’estetico funziona di più, perché nasconde bene certi volti politici indecenti e così trova più facilmente il consenso passivo del senso comune.” (E sottolineerei “maschera”)
“Eppure che la poesia – questa minima tessera del mosaico sociale dei saperi – si armonizzi con il colore che domina nel mosaico complessivo o lo contraddica, evocando “altro”, conta, eccome.”
Ti inviterei volentieri a prendere una tazza di tè da me, ma non vorrei mai che ti facesse male.
Buona giornata e a presto
Verrò e anzi invito tutti i lettori e le lettrici di Poliscritture. No, la letteratura come la filtri e la versi tu nella tazza da tè non può far male.
.. ho trovato molto bello il racconto di Elena, certo non ti conduce per mano verso un finale scontato ed edificante, ma ti interroga nel profondo, nel luogo dove zampizzano le inquietudini, ma sai che ci devi passare.. grazie. Molto originale e stimolante il quesito, che ci mette in contatto con le nostre reminiscenze da lettrici.. grazie
Grazie Annamaria, sono contenta che ti sia piaciuto. E sulle inquietudini credo che tu abbia ragione. Il protagonista sconfina in una dimensione che normalmente ci è preclusa, speculare ma leggermente distorta; delle distorsioni, che pure percepisce, non si rende ben conto; vengono registrate come lieve disagio o stupore; l’impressione è di due superfici identiche che non collimano perfettamente. Il disagio, prima ancora che a lui, sembra appartenere agli altri avventori. E’ un’inquietudine diffusa che lo contagia, assieme alla necessità di scandagliarla, di guarirla se possibile. Tuttavia la sua presenza in quel luogo non può durare, è dovuta a un errore che deve essere corretto. E’ gentilmente invitato ad andarsene, accompagnato fuori, espulso. La superficie si richiude sull’impenetrabilità, il protagonista stesso non può conservare nulla della sua esperienza se non un ricordo vagamente angosciante che impallidirà nella corsa finale per allontanarsi da lì. Da un luogo in cui i vivi non possono dimorare a lungo.
Grazie ancora della sensibile lettura e buon fine settimana.
Elena, buon fine settimana anche a te.. sto riflettendo sul disagio di cui parli.. ‘suo’ e degli altri..
La curiosità di Ennio Abate ha fatto sì che siamo venuti a conoscenza che sul blog “Dalla mia tazza di tè” di Elena Grammann, la stessa abbia denunciato come in Poliscritture “…ultimamente sono comparsi in rapida successione tre o quattro (racconti) che, in sé, non attirerebbero alcun predicato, essendo letteralmente il nulla”; e infine “vergognosi…perché non fanno che ribadire l’esistente ecc…”. (E.G.)
Ora, a parte la proditorietà della cosa (perché pochi leggono il suo sito), mi sono chiesto come mai la suddetta non abbia fatto nomi e cognomi di quegli scrittori che , secondo lei, “non sono in grado di vedere e dire nulla oltre quello che è già stato visto e detto innumerovoli volte e che proprio per questo è falso e inutilizzabile” (E.G.). Visto il peso di questa accusa, il sottoscritto, che in tempi recenti ha pubblicato tre racconti su Poliscritture, i cui contenuti vanno un po’ contro corrente, si sente parte in causa, a ragion veduta.
Sono il primo a dire che ciascuno è libero di scrivere quello che vuole, anche se riferendo ad altri espressioni del tipo ‘il nulla’ e ‘vergognosi’, dà una misura della propria intelligenza, sensibilità e rispetto (oltre che di una intollerabile arroganza); tuttavia, visto che in Poliscritture si può esprimere un commento, dove spesso si apre un vivace dialogo, mi chiedo semplicemente perché questa nobile Madame de Staël non lo abbia fatto quando si imbatteva in questi ‘vergognosi’ racconti. Perché non manifestare il proprio disappunto e confrontarsi con gli autori, sul piano formale ( visto che la suddetta asserisce anche che è facile scrivere racconti) e, pure, su quello dei contenuti? La vergogna che le hanno ispirato le ha bloccato la mano e il cervello? Sarebbe una manifestazione di onestà intellettuale e di dimostrazione delle proprie competenze, su un piano di parità con questi autori, senza schifarli a prescindere, con un atteggiamento da snob che ha la puzza sotto il naso…
Per festeggiare l’arrivo della primavera, nonostante la pandemia, ho invitato Ennio Abate, che non vede l’ora di correre da E.G. per gustare la sua tazza di tè (anche se tossica), a pubblicare il mio racconto inedito “Le rondini”, se lo riterrà opportuno; come hanno fatto tanti lettori che hanno commentato i miei ed altri racconti su questo sito, ma che E.G. considera a priori dall’alto del suo Magistero come incompetenti o ‘imparentati’, la invito a confrontarsi col sottoscritto, analizzando questo racconto sul piano formale e dei contenuti. Se saprà portare argomentazioni convincenti, potrò darle anche ragione, e buttare via la penna (la prego, tuttavia, fin da adesso, di non accampare citazioni da Flaubert, decontestualizzate dalla loro cornice storico-letteraria, e utili solo a dimostrare che gode di buona memoria).
Tanto dovevo, in scienza e coscienza, al sito di Poliscritture al quale mi sono accostato in tempi recenti, dopo la morte dell’amico poeta Arnaldo Ederle, anche per dare una continuità ideale alla sua collaborazione.
Gentile Sig. Casati,
purtroppo non potrò dar seguito alla proposta di analizzare il suo racconto sul piano formale e dei contenuti (e la invito, en passant, a non mettermi in bocca cose che non ho detto. Io non ho mai detto che sia facile scrivere racconti. Ho detto che al giorno d’oggi quasi tutti ne scrivono. Può darsi che lei non la veda, ma c’è una differenza). Non potrò dar seguito alla proposta, e le spiego il perché:
Il mio impatto con la sua prosa è avvenuto nei primi tempi in cui frequentavo questo sito e lo percorrevo qua e là cercando di capire come funzionava, chi ci scriveva, quali erano i temi ecc. Così sono capitata su un suo testo, intitolato “Nubifragio”, qui: https://www.poliscritture.it/2020/08/30/nubifragio/
Ne riporto alcuni brani (e non dica che decontestualizzo perché ho indicato il link e chi vuole contestualizzare può farlo):
“Un vento che soffiava fortissimo ha accompagnato l’azione di una fitta grandinata che, obliquamente, colpiva case e strade e campi con ingentissimi danni”
“Quando ho sentito ululare il vento e i vetri delle finestre che sembrava andassero in frantumi da un momento all’altro per il violento e fragoroso urto della grandine mi sono precipitato ad abbassare le tapparelle, escludendomi dalla vista e rimanendo asserragliato come in un fortino”
“… vicino al fiume Adige che, dopo avere superato lo sbarramento della diga del Chievo, punta decisamente verso il centro urbano, col vivo moto delle sue correnti, e nel verde smeraldino delle acque; dove nuotano gabbiani, anatrine, l’airone cinerino e sulla cui superficie, a primavera, le nere rondini intrecciano voli a pelo d’acqua.”
“Un sentiero si snoda lungo la riva destra che, dopo il lungadige di ponte Catena, conduce fra piante e alberi di alto fusto fino alla diga, ombreggiato, che percorro quasi quotidianamente ascoltando il canto di svariati uccelli e scorgendo, ogni tanto, qualche grazioso scoiattolo saltellare da un ramo all’altro di alte piante.”
All’inizio ho pensato a uno scherzo, uno stile volutamente autoparodico, una sperimentazione postmoderna, che so. Poi, di vento che ulula in scoiattolo che saltella, di vivo moto delle correnti in canto di svariati uccelli, mi sono dovuta arrendere. No, Sig. Casati, nessuno scherzo, lei scrive proprio così.
Come lei mi fa notare, c’è gente che la apprezza – e questo, a mio modo di vedere, è il lato tragico della faccenda.
Perché io, invece, non la apprezzo? (il “la” si riferisce, ovviamente ma diciamolo, alla scrittura e non alla persona). Io non la apprezzo, Sig. Casati, perché, letterariamente parlando, il vento non ulula. Letterariamente parlando il vento, se mai ha ululato, non ulula più da quel po’ – o, se lo fa, dev’essere in un contesto marcatamente e riconoscibilmente ironico, e poi e poi. Letterariamente parlando, è un bel po’ che a primavera le nere rondini non intrecciano voli a pelo d’acqua, che si incontrano vivi moti delle correnti, acque smeraldine e via dicendo. E non per motivi di inquinamento o cambiamenti climatici. Questo è un fatto, Sig. Casati, se lei non lo capisce, non so che farci.
E poiché la distinzione fra forma e contenuti è abbastanza artificiale, questo è anche il problema dei suoi contenuti.
Io non posso fare un’analisi dei suoi racconti, perché, letterariamente parlando, i suoi racconti non esistono. Il nulla nulleggia, dice Heidegger (visto? che memoria fenomenale!), e credo che questo sia tutto quanto se ne può dire.
La saluto, Sig. Casati, e le auguro sinceramente e di cuore di scrivere un bel racconto.
AVVERTENZA MINIMA E AUGURIO DI BUON DUELLO
Difenderò Poliscritture come spazio aperto. Pubblicherò, perciò, «Le rondini» di Franco Casati e altri racconti, suoi o di altri, anche se non piaceranno ad Elena Grammann. E pubblicherò gli scritti di Elena Grammann, oltre ad invitare i lettori al suo blog, anche se Casati ritiene che «Dalla mia tazza di tè» venga fuori veleno. Come ho continuato e continuerò a pubblicare scritti su Tolstoj o Čechov (o ora su Ferlinghetti) che non sono piaciuti al poeta e slavista Antonio Sagredo. Come continuerò a ospitare le sue poesie che a diversi non piacciono. Non farò né da arbitro né da paciere né da tifoso nella contesa tra Elena e Franco, che, prima serpeggiante, ora è arrivata – da parte di Elena – alla stroncatura. La polemica aperta può essere sana e utile; e non mi pento di averla incoraggiata con questo mio articolo, rompendo diplomatismi e quieto vivere. Spero, però, che vada a fondo della questione che qui si pone: il giudizio di valore di un testo ( nel caso di un racconto) e che chiarisca le differenze culturali nel modo in cui ciascuno di noi – io, Franco, Elena e altri – oggi pensa e pratica la letteratura.
Buon duello dici, Ennio. Ma come si fa a duellare se l’altro invece di scendere sul terreno se ne sta fuori a fare le boccacce?
Sulle questioni di fondo invece, come detto, tornerò appena posso.
Elena Grammann, pensa che se io non esisto, per lei, come scrittore, ciò significhi qualcosa sul piano della critica letteraria?
Io non mi faccio illusioni, ma lei se ne fa tante…
APPUNTO LATERALE N. 1/ “LETTERARIAMENTE PARLANDO”: UN ESEMPIO AL VOLO
“I profughi” di Arno Schmidt: la vita è un ripiego
Alberto Cellotto
«librobreve»
08 luglio 2016
https://www.quodlibet.it/recensione/2320
Stralcio:
Eppure, come Schmidt tiene a puntualizzare fin dalla prima edizione, il libro è assai più di tutto questo. Invitato da Martin Walser nel 1952 a presentare I profughi alla radio, Schmidt rileva – come riporta Dario Borso nel ricco commento alla splendida edizione Quodlibet – che questo scritto risponde all’urgenza di creare “nuove forme”, a suo parere l’unico vero compito dello scrittore. In particolare, con I profughi Schmidt vuole creare una nuova forma che gli permetta di non rispettare l’unità di luogo (resa impossibile dal fatto che il libro tratta una serie di spostamenti nello spazio), mantenendosi però perfettamente aderente al principio dell’unità di tempo.
La nuova forma è quella dell’«album fotografico», come si legge in esergo alla già menzionata prima edizione («24 foto con testo di collegamento»). Tali “foto”, però, consistono di parole: I profughi è suddiviso in 24 sezioni, ciascuna delle quali è introdotta da un piccolo testo inserito in un quadrilatero dalle proporzioni simili a quelle di una fotografia. A ciascuna fotografia di parole, Schmidt fa seguire un testo che integra, espande, spiega e svolge lo “scatto” che le aveva introdotte; uno scatto che intende essere perfettamente a fuoco, ovverosia caratterizzato da una temporalità unitaria. È così che I profughi diventa, appunto, una collazione di forme brevi per la resa di uno spostamento spaziale plurimo degli agenti in un’unità di tempo fissa.
Alla nuova forma “album fotografico” corrisponde una nuova prosa, che usa la lingua come se fosse materiale grezzo (a Borso va reso merito anche dell’ardua traduzione). La particolarissima lingua di Schmidt tenta di raggruppare tempi diversi in un unico tempo, come nella “foto” III: «il sole carezzò la sua gonna a quadri (lì dietro: greve brina sui mirtilli, e sabbia gelata, che si potrebbe certo ancora facilmente sminuzzare). Tra valigie: “Andiamo alla borsa?”. Si alzò un ceffo in polvere di media statura, rullò tutta quanta la via, passò sopra le nostre schiene strette. Treni apparvero seri, si fermarono, caricarono e scaricarono gente frettolosa, fumarono, serpeggiarono via lentovelocemente».
Al centro dei Profughi c’è dunque, oltre alla migrazione nello spazio, la questione del tempo. Schmidt definisce il suo libro un «nuovissimo romanzo svelto (non breve!)». La brevità è una determinazione (anche) spaziale, al contrario della sveltezza; “svelto” è un romanzo che, per raccontare uno spostamento spaziale, diventa, paradossalmente, un romanzo sul tempo, sulla possibilità di trovare nel tempo l’unitarietà che nello spazio, ai profughi, è negata.
Di Arno Schmidt ho letto “Paesaggio lacustre con Pocahontas”, sempre del ’53, sempre costruito come “album fotografico”. L’ho letto in tedesco, ma so che anche di questo la traduzione è di Dario Borso, l’unico secondo me che poteva cimentarsi in un’impresa del genere. E durante la lettura mi è stato di grande aiuto il suo Kommentar.
Roba per tempi seri, in cui si pensava che ci fossero parecchie cose da rifondare, tempi in cui ci si tiravano su le maniche (Arno Schmidt regala meraviglie, ma pretende parecchio dal lettore).
Duri e puri a parte, “creare nuove forme” è imperativo; noi e le cose cambiamo nel tempo, le cose di adesso non si possono dire con le parole (nelle forme) di dieci anni fa, e le cose di dieci anni fa non ci sono più; è banale, eppure desideriamo talmente la durevolezza e la permanenza che preferiamo non accorgercene.
Naturalmente creare nuove forme è più facile a dirsi che a farsi.
Un buon inizio potrebbe essere non rimettere i piedi esattamente nelle vecchie.
A proposito di foto, quando ci fu il nubifragio a Verona io inviai alcune immagini fotografiche a Ennio Abate, il quale mi chiese di commentarle su Poliscritture.
Il testo preso in lettura da Elena Grammann è, appunto, questo commento, con un valore di effetto, puramente descrittivo, con espressioni ad hoc. Non ha niente da spartire con un racconto (quando E.A. si recherà da E. G. per saggiare la sua tazza di tè, sperando che poi ne esca ancora in salute, glielo potrà testimoniare).
A proposito della nota “a mio carico” che ha scritto su quel testo, mi sembra che E.G. si sia comportata come una casalinga che entra in un panificio, si rivolge al fornaio asserendo che se non fa il pane come si intende lei, coi suoi ingredienti, non è un panificatore (nonostante tutto il pane in esposizione e in vendita).
La suddetta poi non tollera che nei miei racconti o di altri compaiano valori positivi, argomento sul quale insiste perentoriamente.
Mi sentirei di consigliarle, con modestia, un’inversione di rotta, a beneficio del suo prodotto letterario. Intanto auguri per il saggio che sta scrivendo, da amico.
APPUNTO LATERALE N. 2/ IL FILOSOFO E IL TONTO
«Bisogna scaldarsi – disse all’incirca [F. F.] – con quello che si ha. Io su molte cose preferisco essere un arretrato, un tonto, perché non posso, non ho tempo, non ho testa. È giusto che sia così. Non servono le ultime novità. Un buon manuale liceale spesso è sufficiente. In filosofia o punti sullo specialismo o punti sull’ignoranza. I due – il filosofo e il tonto – s’incontrano e vanno a passeggio conversando».
( da https://www.poliscritture.it/2021/03/24/un-filo-tra-milano-e-cologno-monzese/)
Il problema generale serio è: il confronto/scontro tra livelli di sapere più critici e livelli di sapere meno critici? O tra saperi che fanno capo a culture storicamente contrapposte e inconciliabili? L’ipotesi della critica dialogante tra il filosofo e il tonto (figure del resto intercambiabili se il punto di vista di chi parla fosse dialettico) è fuori stagione? O è stata (da quando? da sempre?) impossibile?
Molière, Il misantropo, atto I scena 2. [1]
E’ tutto lì. Per tutti.
Nota a cura di E. A
[1]
II – ORONTE, ALCESTE, FILINTE
ORONTE Ho saputo dabbasso che per non so quali compere
Eliante è uscita, e Selimene anche; ma siccome mi hanno detto
che c’eravate voi, sono salito per dirvi, e vi parlo col cuore, che
nutro per voi un’incredibile stima, e che da molto tempo ormai
questo sentimento ha fatto nascere in me il desiderio bruciante
di entrar nel novero dei vostri amici. Sì, il mio cuore ama rendere
giustizia al merito, e io ardo perché uno stretto legame
d’amicizia ci unisca. Confido che non sia certo da respingersi
un amico fraterno, e del mio rango per giunta. (In questo punto
Alceste pare tutto assorto, e sembra non accorgersi che Oronte
gli sta parlando) Scusatemi tanto, è con voi che sto parlando.
ALCESTE Con me?
ORONTE Con voi. Le mie parole vi offendono?
ALCESTE No, ma la mia sorpresa è grande, non mi aspettavo l’onore
che mi fate.
ORONTE La stima che ho per voi non deve sorprendervi, potreste
pretenderla dall’universo intero.
ALCESTE Signore…
ORONTE In tutta la nazione non vi è nulla che superi i folgoranti
meriti che in voi si ravvisano.
ALCESTE Signore…
ORONTE Sì, da parte mia, io vi ritengo da più di quanto vi è di
più pregevole al mondo.
ALCESTE Signore…
ORONTE Che il cielo mi fulmini se dico bugie! E a immediata conferma
dei miei sentimenti, permettetemi, signore, che di tutto cuore
vi abbracci, supplicandovi d’un posticino nella vostra amicizia.
Qua la mano, vi prego; la vostra amicizia, me la promettete?
ALCESTE Signore…
ORONTE Come, vi rifiutate?
ALCESTE Signore, troppo grande è l’onore che volete farmi; l’amicizia
esige però un poco più di mistero, e vuol dire certo profanarne
il nome, lo spenderlo ad ogni piè sospinto. L’amicizia
deve nascere per libera e illuminata elezione; e prima di stabilire
tra noi questo legame, è opportuno conoscerci meglio l’un
l’altro, poiché potremmo rivelare aspetti tali da farci pentire
tutti e due di questo accordo.
ORONTE Perbacco! Questo sì che è un parlare da uomo saggio, e
per questo vi apprezzo ancora di più. Pazientiamo dunque fino
a che il tempo stringa tra noi i dolci nodi dell’amicizia; ma nel
frattempo, io mi offro interamente a voi. Se avete bisogno di
qualche introduzione a corte, come è noto io ho già un certo
ruolo accanto al re; il re mi ascolta e, in fede mia, non perde occasione
per trattarmi con estrema bonarietà. Insomma, io sono
a vostra disposizione in tutto e per tutto; e poiché il vostro spirito
è ricco d’ingegno, onde iniziare a stringere tra noi il dolce
nodo dell’amicizia, eccomi qua a leggervi un sonetto che ho
scritto poco fa, per sentire da voi se faccio bene a renderlo noto
al pubblico.
ALCESTE Signore, non sono la persona adatta a decidere una cosa
del genere, e vi prego di dispensarmene.
ORONTE Perché?
ALCESTE Ho il difetto di essere un po’ più sincero di quel che è
opportuno.
ORONTE Ma è quello che chiedo; e mi dispiacerebbe molto se
chiedendovi io di parlarmi in tutta sincerità, voi mi tradiste nascondendomi
qualcosa.
ALCESTE Se così vi piace, signore, farò come volete.
ORONTE Sonetto… Si tratta di un sonetto. La speme… Si rivolge
a una signora che alla mia passione aveva dato qualche motivo
per ben sperare. La speme… I miei non sono versi magniloquenti
e grandiosi, ma piccoli versi dolci, teneri, pieni di sentimento.
(A ogni minima interruzione osserva Alceste)
ALCESTE Sentiamoli.
ORONTE La speme… Non so se troverete abbastanza scorrevole
e facile lo stile, e se vi piacerà la scelta delle parole.
ALCESTE Adesso lo vedremo, signore.
ORONTE D’altra parte, dovete sapere che l’ho scritto in meno di
un quarto d’ora.
ALCESTE Sentiamolo, signore; che ci abbiate messo tanto o poco
non ha nessuna importanza.
ORONTE La speme, egli è pur vero, ci ristora
e nella diurna noia il cor trastulla;
ma, o Fillide, che magro è quel ristoro
se a quell’ultima dea non segue nulla!
FILINTE Già questo esordio, per me è affascinante.
ALCESTE (piano) Come? Avete la faccia tosta di trovare bella
questa roba?
ORONTE La bontà che per me mostrato avete
sortir poteva altr’opere di bene;
meglio, o Fillide, non darvi tanto affanno
per non sortire a me che un fil di speme.
FILINTE Ah, con che eleganza è espresso questo concetto!
ALCESTE (piano) Perdiana! Vile adulatore, lodate queste sciocchezze?
ORONTE Se egli è d’uopo che un’eterna attesa
sia destino al mio ardor, morte soltanto
a me tolga il fardel che al cor mi pesa.
Né salvarmi potrete d’altro canto:
ché di eterno sperar fidente attesa
sorte senza speranza eterno pianto.3
FILINTE La conclusione è graziosa, amabilissima, ammirevole.
ALCESTE (piano) Le colga la peste, alla tua conclusione, diavolo
di un inquinatore! Magari avessi concluso col romperti il naso!
FILINTE Non ho mai sentito versi così ben torniti.
ALCESTE Accidenti!
ORONTE Voi mi adulate, credendo forse…
FILINTE No, non vi sto adulando affatto.
ALCESTE (piano) E che cosa stareste facendo, traditore?
ORONTE (a Alceste) Voi, però, sapete quali sono i nostri patti: dite
dunque, per piacere, in tutta sincerità.
ALCESTE Signore, è una questione sempre molto delicata, perché
quando si tratta delle doti dell’ingegno, a tutti fa piacere
sentirsi lodare. Una volta, a una persona di cui tacerò il nome,
dicevo appunto, dopo aver visto alcuni versi che egli aveva
scritto, che bisognerebbe sempre essere abbastanza giudiziosi
da controllare con rigore il nostro capriccio di scrivere; e che se
ci coglie la smania di far del chiasso su questi passatempi, biso-
gnerebbe saperle mettere la briglia; e che a volte, per l’ambizione
di esibire le nostre opere, si corre il rischio di fare una pessima
figura.
ORONTE Volete farmi capire con questo che avrei torto a voler…
ALCESTE Non dico questo. Semplicemente, le dicevo io che dei
versi insignificanti fanno dormire, e che basta questa debolezza
a squalificare una persona, perché anche se si posseggono cento
altre buone qualità, quello che si vede nella gente sono soltanto
i lati negativi.
ORONTE O forse avete a ridire sul mio sonetto?
ALCESTE Non dico questo. Semplicemente, per dissuaderla dallo
scrivere, a quella persona, facevo notare come al giorno d’oggi
questa smania abbia guastato tanta gente molto per bene.
ORONTE Forse io scrivo male? E assomiglio a quella gente?
ALCESTE Non dico questo. Semplicemente, le dicevo: in fin dei
conti, avete davvero questo bisogno impellente di scrivere
poesie? E chi diamine vi obbliga a farvi pubblicare? Se si può
perdonare a qualcuno che escano dei brutti libri, è solo a quei
poveri diavoli che scrivono per vivere. Credete a me, resistete
alla tentazione, nascondete al pubblico questi vostri passatempi,
e per quante premure vi facciano non rinunciate alla
fama di uomo dabbene di cui godete a Corte, per farvi dare
da qualche esoso tipografo quella di compassionevole e risibile
scrittore. Questo è quello che cercavo di far capire a
quella persona.
ORONTE Questo è giustissimo, e penso di capirvi perfettamente.
Ma vorrei sapere che cosa nel mio sonetto…
ALCESTE Sinceramente, è meglio chiuderlo nel cassetto.Vi siete
ispirato a dei pessimi modelli, e le espressioni che usate non
hanno nessuna naturalezza. Che cosa vuol dire: Nella diurna
noia il cor trastulla? E che cos’è: Se a quell’ultima dèa non segue
nulla? E Non darvi tanto affanno per non sortire a me che un fil
di speme? E che cosa vuol dire: ché di eterno spirar fidente attesa
/ sorte senza speranza eterno pianto? Questo stile figurato, di
cui il sonetto si fa bello, non ha niente a che fare con la semplicità
e con la verità; è solo un gioco di parole, pura affettazione,
e non è così che parla la natura. Il cattivo gusto del giorno d’oggi,
in queste cose, mi fa paura; i nostri padri, per quanto rozzi,
avevano più buon gusto, e tutto ciò che al giorno d’oggi si trova
tanto ammirevole, io lo apprezzo molto meno di questa vecchia
canzone che voglio farvi sentire:
Se il re mi regalasse
la sua città sovrana,
e in cambio mi dicesse
di lasciar star chi m’ama,
gli direi: Sacra maestà,
tienti la tua città.
Io amo la mia bella, oilì,
io amo la mia bella, oilà.
La rima è fin troppo facile, lo stile è d’altri tempi; ma non sentite
anche voi che tutto questo vale più di quei fronzoli che ripugnano
al buon senso, e che il sentimento vi si fa sentire in tutta
la sua purezza?
Se il re mi regalasse
la sua città sovrana,
e in cambio mi dicesse
di lasciar star chi m’ama,
gli direi: Sacra maestà,
tienti la tua città.
Io amo la mia bella, oilì,
io amo la mia bella, oilà.
Ecco le parole che trova un cuore veramente innamorato.
(A Filinte) Sì, signor cinico, a dispetto di tutti i vostri begli spiriti,
io apprezzo questi versi più di tutte quelle false perle di cui
tutti si compiacciono tanto.
ORONTE E io vi rispondo che i miei versi sono molto belli.
ALCESTE Se li trovate belli avrete senz’altro le vostre ragioni;
ma non avrete nulla in contrario a che anch’io abbia le mie, e
che si rifiutino di cedere alle vostre.
ORONTE A me basta vedere che altri li apprezzano.
ALCESTE Altri sono bravi a fingere, e io no.
ORONTE Credete dunque d’esser tanto intelligente?
ALCESTE Certo lo sarei di più se sapessi lodare i vostri versi.
ORONTE Saprò far senza la vostra approvazione.
ALCESTE Dovrete farne senza per forza.
ORONTE Mi piacerebbe veder voi, scrivere versi su un soggetto
come questo.
ALCESTE Potrei anche, per mia disgrazia, scriverne di altrettanto
brutti; ma mi guarderei bene dal farli leggere agli altri.
ORONTE Mi parlate con estrema sicurezza; ma tanta presunzione…
ALCESTE Se cercate qualcuno che vi incensi, non rivolgetevi a me.
ORONTE Ad ogni buon conto, signorino, non alzate tanto la voce.
ALCESTE In fede mia, signorone, la alzo quanto è necessario.
FILINTE (mettendosi tra i due) Eh, signori! Basta così; di grazia,
smettetela!
ORONTE Ah, il torto è mio! Lo riconosco, e vi lascio libero il
campo. Servo vostro, signore, con tutto il cuore.
ALCESTE E io, signore, servitor vostro umilissimo
(DA https://www.ateatro.info/copioni/il-misantropo-2/)
APPUNTO LATERALE N. 3/ CONTINUITA’-DISCONTINUITA’
«Duri e puri a parte, “creare nuove forme” è imperativo; noi e le cose cambiamo nel tempo, le cose di adesso non si possono dire con le parole (nelle forme) di dieci anni fa, e le cose di dieci anni fa non ci sono più; è banale, eppure desideriamo talmente la durevolezza e la permanenza che preferiamo non accorgercene.
Naturalmente creare nuove forme è più facile a dirsi che a farsi.
Un buon inizio potrebbe essere non rimettere i piedi esattamente nelle vecchie.» (E. Grammann)
1.
Creare nuove forme è un bell’«imperativo», ma appunto: « è più facile a dirsi che a farsi». In fondo è il dover essere di Kant, mi pare. E, tra l’altro, non riguarda solo la letteratura. In campo politico tanti sentono il bisogno di «nuove forme» capendo che la forma-partito non soddisfa più nuove esigenze ed è cieca di fronte a problemi vecchi (che spesso precipitano nel silenzio impotente di tanti verso soluzioni tragiche e “vecchie”, ad es.: https://www.ilgiorno.it/esteri/myanmar-oggi-morti-proteste-1.6183892) e nuovi ( « Se un «partito» a sinistra non c’è, non è quindi un caso. […]. Questa assenza non è frutto del destino cinico e baro. Bensì della mutata composizione di classe della società, delle forme digitali della comunicazione e delle tecnologie, del mutato ruolo di identità e ideologie, della crisi dell’organizzazione novecentesca in partito e altro ancora» (https://ilmanifesto.it/il-partito-quelloscuro-oggetto-del-desiderio/?fbclid=IwAR3JA-XnRNXKOl8bnD9RBX4kLpPC38b7A_4IajlDqt_pM-qTnTWO5V7njDs).
2.
Limiterei l’affermazione troppo assoluta: « le cose di adesso non si possono dire con le parole (nelle forme) di dieci anni fa, e le cose di dieci anni fa non ci sono più». Non è che tutte le cose che c’erano dieci anni fa, non ci sono più. E anche la scomparsa di alcune è un problema da non cancellare sbrigativamente come fecero i futuristi, perché i vuoti lasciati dal mutamento non sono spesso riempiti. E non è questione solo di desiderio della durevolezza e della permanenza che pure ha i suoi effetti profondi, se lo stesso Marx, che pure era illuminista e moderno, si sorprendeva del fascino esercitato dai miti greci malgrado le tante «cose nuove» dei suoi tempi (filatrici automatiche, ferrovie, locomotive) [1], che avevano sostituito Giove, Ermes e Vulcano. Valutare bene il problema arduo della continuità/discontinuità (o: innovazione/conservazione; o: antichi/moderni; o: moderno/postmoderno-ipermoderno). Insomma, non è perché Casati parla ancora di rondini e non di tecnologie digitali ( Cfr. gli spunti presenti in questo articolo: NEW MEDIA, OLD STORIES: LA NARRATIVA CONTEMPORANEA ALLA PRESE CON LA RIVOLUZIONE DIGITALE
http://www.leparoleelecose.it/?p=40804 ) che nella sua scrittura «il nulla nulleggia».
NOTA
[1]
*
Mediterò meglio, ma intanto:
“Insomma, non è perché Casati parla ancora di rondini e non di tecnologie digitali.”
Precisamente. Non è per quello (la vecchia storia su cui non starò a insistere: non è il cosa, è il come).
Lo sottolineo a scanso di equivoci perché dal tuo testo mi sembra leggermente ambiguo. Non si capisce benissimo se vuol dire: 1)”Non lo prendiamo sul serio perché parla di rondini”, 2)”Dobbiamo prenderlo sul serio nonostante parli di rondini” o 3)”Non è perché parla di rondini che non lo prendiamo sul serio”. Ovviamente la tre.
Sì, è la tre. Per ora mi sono riferito al contenuto in sintonia coi ragionamenti di Marx e dell’articolista di LPLC2. Poi, magari proprio esaminando “Le rondini” che voglio rileggere varie volte, dirò sul “come” racconta Franco Casati, che si pone sulla linea della continuità e non della ricerca di “nuove forme”.
“…non è il cosa, è il come”, “…non è perché Casati parla ancora di rondini e non di tecnologie digitali.” (Elena Grammann).
In quanto al mio linguaggio opero perché sia chiaro, essenziale e, soprattutto, comunicativo; nelle mie intenzioni, vorrei rivolgermi al più largo pubblico possibile; e non mi preoccupa se sotto questo aspetto non mi ricollego culturalmente ai capitoli più ostici dell’Ulisse di Joyce (sui quali riflettei a suo tempo con tanto interesse).
Faccio notare, con molta modestia ma altrettanta concretezza, che nel racconto ‘Le rondini’ non ci si limita a descriverle, ma si richiama l’attenzione sul tema della loro sparizione, uno dei tanti e gravi problemi ecologici del nostro tempo, orientando il lettore verso il rispetto della vita di questi meravigliosi e simbolici uccelli. Inoltre, in questo breve racconto, tocco il tema della crisi di coppia nell’ambito dell’odierna istituzione matrimoniale, e accenno alla violenza sulla donna; realtà questa che non si può certo negare sia di attualità e che interessi molto da vicino le stesse donne . Magari la prossima volta parlerò di ‘tecnologie digitali’…(un po’ di pazienza).
Ringrazio Elena Grammann per avermi finalmente nominato, anche se solo come Casati; così facendo può darsi che si sia convinta che esisto pure come scrittore; anche se quando, magari per pura curiosità femminile, legge un mio racconto è costretta a turarsi il naso per il tanfo da morto che emana dalla mia scrittura. In ogni caso la ringrazio per la sua attenzione che mi ha elevato nelle alte sfere della critica letteraria; e ringrazio anche Ennio Abate per gli sforzi che sta compiendo per rendere il sottoscritto accettabile ai lettori di Poliscritture.
Non più di tanto, però, che se mi viene da pensare di essere indigesto a troppi, così come sono entrato in Poliscritture in punta di piedi dopo la morte del caro amico Arnaldo Ederle, me ne posso anche allontanare; nonostante la positività per me di questa esperienza sotto diversi punti di vista. Da cristiano non mi pesano le rinunce. Con onestà e simpatia.
Sono andato anch’io a prendere una tazza di tè da Elena Gramman e devo dire che mi sono trovato benissimo. Ho letto il racconto “In taberna quando sumus” e ne sono rimasto positivamente impressionato. Innanzi tutto il titolo, tratto dai Carmina Burana, opera del musicista tedesco Carl Orff. Ovviamente ho ascoltato il brano. Immagino che abbia qualcosa a che vedere con forma e contenuto del racconto. Non solo perché il protagonista finisce per sbaglio in un’osteria costruita sulla riva di un laghetto malato, tra versanti montani tristi in cui tutto appare molto morto. Ma anche per il ritmo avvolgente e sincopato della prosa, in cui brevi pezzi descrittivi si coniugano perfettamente con brani di dialogo diretto e di indiretto libero. La narrazione è condotta in terza persona con voce narrante extradiegetica, a focalizzazione zero. La scrittura è molto sorvegliata e il registro linguistico è abbastanza sostenuto: “marne”, “grembiale” (invece del più comune “grembiule”), “colmo del tetto”, “groppi di vischio”, “radice del naso”, ecc.
Certo, nella mia lettura non posso non tener conto della risposta che Gramman ha fornito ad Anna Maria Locatelli sull’inquietudine diffusa che, in consonanza col titolo, contagia tutti, compreso il protagonista; ma non mi accontenterei. A me sembra che la sostanza del racconto abbia a che vedere con quella richiesta che Baffo di Tricheco (Ghiddeon) rivolge al nostro eroe senza nome, finito erroneamente nella taverna…della morte? No. Della morte, no. Ma quasi ci si avvicina. Nell’osteria gli avventori si conoscono tutti e si raccontano sempre le storie di Nicco attraverso la voce di Arri che, poverino, non può mai raccontare la sua: la storia delle lumache di Cartagine e quella della pentola dei bersaglieri. Storie di fame dovute alla guerra (di conquista dell’Africa). Storie che fanno piangere.
Baffo di Tricheco, invece, vorrebbe che l’ospite gli raccontasse «una storia in cui non ci sia tutta quella terra, tutta quella polvere». Il protagonista, imbarazzato, mostra di aver capito la richiesta: «non era tanto una storia che voleva ma delle circostanze: una certa luce, una circolazione indisturbata, una linfa.»
Qualcosa quindi che si opponga a quelle storie di morte, di terra e di polvere (“polvere sei e polvere ritornerai”). Gli racconta allora l’estate dei suoi tredici anni. Il passaggio è molto bello e merita di essere stralciato:
«Ti racconterò l’estate dei miei tredici anni» esordì allontanando la ciotola con la zuppa funerea. «Fu l’estate che lo sguardo mi si allargò. Intendo dire che l’orizzonte di un bambino è ristretto, limitato alle percezioni immediate, vicine: prospettive di una stanza, con oggetti; il lato di una casa; un cortile (mai in un’unica percezione); una strada. Ma in quell’estate fu come se lo sguardo mi si allargasse e cominciai a vedere cose al di là, a vedere prospettive che mi riguardavano e non mi riguardavano. Per esempio vidi le colline fino in cima, la luna che pende sulle selve, cose del genere. Anche in luoghi piccoli e circoscritti avvertivo come un solletico il dilatarsi dello spazio. Una volta ero sdraiato con un mio cugino nell’erba, al margine di un campo stretto fra il terrapieno della provinciale e il fosso. Nessuna vista. Parlavamo come fanno i ragazzi ma tutto il tempo ero cosciente di una vastità. Mi capitò di penetrare nella vastità. Dei parenti avevano dei campi giù, in pianura, e li tenevano a moscato. Alla stagione partimmo col cavallo e il biroccio per vendemmiarlo. Ricordo solo il sapore del moscato, talmente dolce che mi stupiva, come se non appartenesse alla realtà. Al ritorno sul biroccio, al passo del cavallo, la luce era come il moscato, l’aria calda, la vita alla quale assistevo perfetta.»
Allargamento dell’orizzonte, dilatarsi dello spazio, coscienza della vastità e sua penetrazione, dolcezza del moscato, luce, aria calda della vita.
Mi pare che il racconto sia giocato su questa classica contrapposizione: vita-morte…Se l’ospite rappresenta la vita e ne è portatore, perché, mi chiedo, quegli avventori, segregati nell’osteria dalle “assi annerite”, non gli hanno dato spazio? Perché l’ostessa l’accompagna fuori?… I morti coi morti e i vivi coi vivi. Ma i morti non vivono con noi? Non ci nutriamo delle loro storie collettive e delle loro eredità?… Cosa vuole insegnarci questo racconto? Che meglio non metterci piedi all’osteria dei morti; che, se per qualche malintesa indicazione di una selvaggia signora sull’aia, dovessimo metterci erroneamente i piedi, non illudiamoci di portare i simboli della vita, ne saremmo, più o meno gentilmente, allontanati…Il racconto, d’impianto simbolistico – almeno così mi sembra – è indubbiamente ben scritto, ma, alla fine della lettura, suscita uno sciame di domande. Quelle sollevate sopra sono soltanto alcune. Quella di fondo è: quale concezione ha la voce narrante del rapporto morti-vivi, passato-presente?…
Grazie per il tè
Gentile Donato Salzarulo,
la ringrazio molto della visita alla Tazza di tè, e in particolare di aver analizzato così attentamente il mio racconto. Al racconto ne viene un onore (che va oltre i suoi meriti), poiché le narrazioni crescono grazie alle interpretazioni.
Lei tocca diversi punti, sui quali cercherò di dire la mia, fermo restando che l’intenzione dell’autore, anche quando sia del tutto consapevole, non è in fondo che un’interpretazione fra le altre, e che il racconto, una volta “congedato”, funziona con leggi sue – della lingua e delle consonanze che la lingua può risvegliare nei lettori. Un autore non dovrebbe dire: volevo dire questo (se volevi dire questo perché non l’hai detto? che bisogno c’era di un racconto?).
Il titolo fa naturalmente riferimento all’osteria dei Carmina Burana con i suoi spensierati (?) bevitori. In particolare avevo in testa il secondo verso, non citato, ma che il primo, in un certo senso, si trascina dietro: non curamus, quid sit humus. E’ un titolo antifrastico: se i bevitori dei CB ostentano di non curarsi della polvere a cui ritorneranno, nel racconto la polvere è presente fin dall’inizio (marne franose, argilla che ruzzola sotto le scarpe…). Gli avventori non mangiano e non bevono (c’è solo il gesto), il sole tramonta rapidamente, il focolare è spento, i colori tirano al grigio e al plumbeo. E’ come se il protagonista fosse capitato in un angolino in cui il mondo dei vivi e quello dei morti si sovrappongono. Questo succede nei sogni – persone defunte che sono lì, con noi, nella casa; però c’è qualcosa di strano, non parlano, sono seri, non possono uscire, usciamo tutti e dobbiamo lasciarli lì, indietro, da soli. Può accadere anche nella riflessione.
Perché il protagonista, che pure vorrebbe, che vorrebbe “legarsi” con queste persone, non può rimanere? Banalmente, perché è vivo. L’oste si è accorto subito della “trasgressione”, ma la porta non era stata dimenticata aperta per una negligenza dell’ostessa; la porta si è aperta – come per una disposizione superiore. Dunque per il momento l’oste lascia accadere. E’ solo quando l’interferenza non è più tollerabile (quando il protagonista decide di rimanere) che l’ostessa interviene a “leggere i segni” (legge la zuppa di rane, particolare “folkloristico”) e accompagna fuori l’intruso. Il mondo dei morti si richiude su se stesso, il protagonista vorrebbe almeno salutare ma gli altri sono già tornati ai gesti che mimano cose che facevano in vita, ai passatempi per passare il tempo eterno della morte. Il vivo e i morti dimenticheranno lo strano caso.
Uno sciame di domande. Lei ha perfettamente ragione. E’ un racconto molto imperfetto, scritto in anni in cui cercavo di trasformare paesaggi in racconti mirando più alla suggestione che a un impianto concluso e coerente, racconti che facilmente lasciano il lettore insoddisfatto.
Avrei altre cose da dire, in particolare sullo “stralcio” che lei ha avuto la bontà di riportare, ma temo di essermi già anche troppo imbrodata.
La ringrazio ancora e spero di vederla passare qualche volta per un tè.
Non ho ancora letto il racconto di Elena Grammann ma questo commento di Donato Salzarulo mi induce a ipotizzare un possibile legame con una poesia di Emily Dickinson, che molto mi colpì:
«Quando spolveri il sacro ripostiglio/ che chiamiamo “memoria”/scegli una scopa molto rispettosa/ e fallo in gran silenzio./Sarà un lavoro pieno di sorprese -/ oltre all’identità/ potrebbe darsi/ che altri interlocutori si presentino -/ Di quel regno la polvere è silente -/ sfidarla non conviene -/ tu non puoi sopraffarla – invece lei/ può ammutolire te»
Grazie Ennio. Si parva licet, spero che la mia scopa sia stata rispettosa. L’intenzione c’era.
…ringrazio anch’io Donato perchè mi ha aiutato con il suo commento a tratteggiare la ragione di quel disagio che, oltre all’inquietudine, mi aveva colto dopo la lettura del racconto di Elena…Un disagio diffuso, presente nel personaggio, nell’intera compagnia e nel lettore .. come per una traumatica invasione di campo…Reazione umana che segue, credo, i grandi lutti…Il personaggio si è affrettato a liberarsi dalla contaminazione un “cibo” altro.. Per pura associazione, mi sono ricordata della tradizione dei “dolci dei morti”, detti anche “meini” il 2 di Novembre…forse risponde a un rito di conciliazione
«Quando spolveri il sacro ripostiglio/ che chiamiamo “memoria”/scegli una scopa molto rispettosa/ e fallo in gran silenzio./Sarà un lavoro pieno di sorprese -/ oltre all’identità/ potrebbe darsi/ che altri interlocutori si presentino -/ Di quel regno la polvere è silente -/ sfidarla non conviene -/ tu non puoi sopraffarla – invece lei/ può ammutolire te»
—————————————————————-
“Quando la polvere è levata via da uno scrigno sacro\ed è solo memoria\un dignitoso scopino è quanto basta\ e allora agisci silenziosa.\La fatica darà tante sorprese\e oltre l’identità\è probabile che giungeranno nuovi ospiti.\Da quel regno giunge pure il silenzio della polvere\e non puoi opporti a lei che è insuperabile\ma tu sei pronta davanti a lei, a soccombere”.
———————————————————————
per curiosità invio questa mia vecchia traduzione che feci sul Gran sasso d’italia, mentre fuori il rifugio infuriava una bufera…
as
Grazie ad Antonio Sagredo per questo suo dono, importante, significativo e struggente.
Rita Simonitto