di Ennio Abate
Tra critica dialogante e stroncatura – entrambe legittime e utili in teoria – preferisco ancora la prima, malgrado i riscontri non siano incoraggianti e il “noi” reciprocamente critico che propongo fatichi a venir fuori. E perciò pubblico questa mia meditata lettura di “Le rondini” di Franco Casati accompagnandola anche con considerazioni sulla polemica tra lui ed Elena Grammann (ma ora vedo anche con Cristiana Fischer). La polemica può servire e questa mi fa tornare a riflettere sulla funzione di Poliscritture. Ho detto che è uno spazio aperto a più voci e a diversi orientamenti (anche in contrasto tra loro) e so che la critica dialogante, specie adesso che curo da solo il blog, è più complicata da esercitare. Sui testi poetici, narrativi e saggistici che arrivano a Poliscritture, faccio una selezione poco severa. Ho rispettato il criterio dell’ospitalità e della segnalazione, pubblicando quasi sempre le proposte dei collaboratori, pur esprimendo spesso in privato le mie riserve. Anche perché solo in alcuni casi mi posso dedicare a letture veramente attente e ad approfondimenti critici meditati. So che ogni testo attende un critico che lo valuti. Purtroppo tra di noi non ce ne sono a sufficienza. E pur sapendo che pubblicare in un blog che si vuole «laboratorio di cultura critica» molti testi non vagliati a sufficienza è una contraddizione, penso di continuare a metterli in vetrina, ma i lettori sono avvertiti. [E. A.]
Per Edoardo, il personaggio principale del racconto di Franco Casati le rondini sono un simbolo: della continuità ciclica di una natura, che è materna e non matrigna (quindi siamo agli antipodi di Leopardi); della solidità duratura di un mondo, che nella sostanza sarebbe ancora contadino e naturale o, comunque, estraneo ai turbamenti o alle perversioni delle metropoli (e dell’attuale globalizzazione); della stabilità interiore dello stesso Edoardo.
Nella prima sequenza del racconto la fede di Edoardo nella natura, che – fatto non secondario – è anche segno di elezione e di superiorità rispetto agli altri,[1] appare scossa da un dubbio. Notizie sui giornali dicono di allarmanti mutamenti («le rondini non sarebbero più ritornate», «svariate fonti di inquinamento») e lo spingono a una verifica minima: va all’abitazione di un conoscente, Nanni, suo ex collega di lavoro, dove negli anni precedenti le rondini avevano sempre fatto il nido per controllare se sono tornate.
In una seconda sequenza abbiamo l’incontro (imprevisto) con una giovane donna, verso la quale Edoardo prova subito una intensa attrazione fisica. Questo tema va in primo piano mentre l’investigazione sulle rondini finisce sullo sfondo, diventando un pretesto, una scusa. Da qui in poi il racconto prende una piega erotica molto allusiva. (Il tema simbolico delle rondini tornerà nel finale e vedremo come).
Come viene presentata «la ragazza»? Nei modi convenzionali-naturali dello sguardo desiderante, predatorio e oggettivante di Edoardo. È attraente. È casalinga. È la moglie di Nanni. Non pare molto interessata al problema delle rondini, che ha spinto Edoardo alla sua casa.[2] Pare delinearsi un classico triangolo amoroso,[3] anche perché nei pensieri di Edoardo il narratore inserisce un confronto – tra l’invidioso e il competitivo – con l’ex collega: «non avrebbe mai supposto che il Nanni si sarebbe accaparrato una ragazza così attraente, fantasticando su come dovrebbe essere bello godersela tutti i giorni. A lui era sempre andata buca, la bellezza delle donne lo intimidiva».
Nella terza sequenza il desiderio di vedere le rondini si mescola con quello di vedere la ragazza (natura anche lei?) che in effetti prevale. E qui il narratore si fa complice compiaciuto del desiderio del suo personaggio. Edoardo trova facilmente «una scusa che gli sembrò plausibile» per tornare dalla ragazza, «congedandosi le strinse la mano, che sentì piccola e morbida, si lascia prendere dal magnetismo degli occhi verde lago» di lei, ammira «il disegno dei [suoi] fianchi e la rotondità delle mobili natiche». E però – giura il narratore – tutto avviene «involontariamente» o insiste a precisare che si tratta soltanto di «piccole gioie della vita, innocenti e gratuite». Dosa e vela, dunque, il desiderio di Edoardo, ma, quando gli fa dire: «“Sono ritornato a farle visita”[…] perché vorrei togliermi la curiosità di osservare da vicino com’è fatto un nido di rondine», un lettore o una lettrice con un minimo di malizia non può non pensare: Eh, sì , sappiamo quale nido vorresti vedere. Invece, il narratore, serio o con una comicità non so se involontaria o controllata, tende a divagare e così commenta: «Edoardo provava la sensazione che un aereo desiderio si stesse realizzando, coinvolgendolo nel corpo e nella mente».
Nella quarta sequenza si ha una svolta improvvisa nel tono della narrazione. Dall’erotico si passa al moraleggiante. Una improvvisa telefonata, una conversazione lunga e accesa (nel dialogo successivo si capirà che si tratta della suocera che rivendica per sé suo figlio Nanni), gli occhi della donna arrosati e imbarazzati informano il lettore del dramma reale che la ragazza sta sopportando. Ed è a questo punto che la fantasia erotica di Edoardo viene bloccata, anzi a me pare proprio censurata. Scompare di botto quel suo corteggiamento desiderante, predatorio e maschile. E la ragazza di colpo comincia a confidarsi. Troppo. Si potrebbe quasi pensare che si offra a Edoardo. A me pare che a questo punto la narrazione abbia una frenata, un blocco; e subito dopo viene troncata da un secco finale davvero eccessivamente “ideologico”. Perché reintroduce – ma con prepotenza e dall’esterno – l’ intenzionalità simbolica che il narratore attribuisce alle rondini, tra l’altro ridimensionata ora nell’immagine isolata di una rondine-madre che «col becco nutriva i piccoli nascosti nell’ombra» e che dovrebbe alludere alla soluzione del dramma matrimoniale della giovane donna attraverso la maternità.[4]
“Le rondini” è un racconto ben scritto, misurato nelle sue sequenze, eroticamente allusivo, attento al dramma della natura (e di una donna). Non discuto la sincerità, la serietà e la scioltezza del suo passo narrativo (specie nei dialoghi) né la riconoscibilità dei suoi personaggi, tutti collegabili concretamente ad una certa realtà sociale piccolo-medio borghese e abbastanza veneta. Franco Casati scrive per un largo pubblico e, come lui stesso rivendica, vuole essere «chiaro, essenziale e, soprattutto, comunicativo». Eppure, il pubblico a cui intende rivolgersi – non so oggi quanto largo – pare soprattutto un certo pubblico cattolico tradizionale. Ai cui (probabili) gusti e alla cui morale (ufficiale) si adattano le scelte stilistiche ed etico-politiche della sua narrativa. Al di là delle numerose sue dichiarazioni su Poliscritture, l’impronta religiosa cattolica della sua visione del mondo viene confermata anche in questo racconto dalle sue scelte sia di contenuto che di stile. Egli, infatti, delinea in Edoardo un personaggio responsabile, dall’eros castigato e pieno di buoni propositi, perché intende appianare i contrasti del matrimonio dell’amico Nanni.[5]
Casati affronta anche temi “nuovi”, attuali, esistenziali: quello ecologico, quello della violenza sulla donna, quello degli intrighi parentali. Il rapporto uomo-donna è, però, visto esclusivamente «nell’ambito dell’odierna istituzione matrimoniale»; e alla questione della «violenza sulla donna» dà una risposta che esalta soprattutto i modo protettivi (e un po’ ambigui) di un maschio “buono”. Le cause più profonde (anche sociali e culturali) di quella crisi coniugale non sono sfiorate. Vi è solo un accenno ad una di esse (l’intromissione nelle faccende della coppia della « madre-matrigna che vive di amore egoistico»). E la sua soluzione simbolica appare davvero indeterminata e, come ho detto, “ideologica”. Perché il simbolo concilia solo idealmente la conflittualità reale della coppia. Lo stesso tema ecologico è toccato davvero di striscio e in termini soltanto psicologici. L’attenzione del narratore è tutta concentrata sul timore di Edoardo – apprezzabile ma non decisivo, perché non sviluppato neppure sul piano narrativo – di non veder più tornare le rondini.
Casati non si chiede mai se ha senso rassicurarsi e rassicurare sulla non scomparsa delle rondini dopo che sono passati decenni da quando Pasolini ha dovuto constatare con disperazione nichilista la scomparsa delle lucciole, cioè la scomparsa della civiltà contadina. Egli pare credere di potersi davvero consolare coi versi di «Torneranno le oscure rondinelle» di Bécquer, recitatigli dall’amico Sebastiano Saglimbeni. Ma il legame tra quei versi e l’oggi può essere solo ideale e nostalgico. Ogni continuità reale e storica è stata spezzata. (È come se io mi consolassi leggendomi gli articoli usciti per i centocinquant’anni della Comune di Parigi o per il centenario ormai alle spalle della rivoluzione del ‘17). No, ne “Le rondini” anche il tema del disastro ecologico non viene esplorato. Finisce presto, come ho detto sullo sfondo, inerte, soppiantato dall’altro (la crisi di coppia). E il racconto di Casati mostra troppo in superficie una volontà astratta di consolare e rassicurare. Come fanno purtroppo tanti altri giornalisti o scrittori che affrontano temi attuali – compreso ora quello della pandemia da Covid – o per spaventarci o per calmarci con blande rassicurazioni, ma raramente per farci ragionare sulle cause e sulle vere possibili soluzioni, che devono essere politiche e non appellarsi genericamente alle emozioni dei singoli abbandonati a se stessi o intruppati nelle schiere eterodirette degli intrattenitori che amministrano il pensiero conformistico di massa.
A questa rimozione o fuga dalla realtà più tragica, che mi pare di scorgere nei racconti di Casati, contribuisce anche la scelta della forma “classica” del suo raccontare. Non che essa di per sé imponga staticità rassicurante e consolazione facile. Ho in mente esempi di un uso di forme classiche tradizionali (ad esempio, il sonetto adottato in poesia da Fortini o da Zanzotto) che riescono lo stesso ad accogliere immagini e pensieri sconvolgenti che non esistevano al tempo in cui quelle forme letterarie nacquero e si diffusero. Non si può dire lo stesso per «Le rondini». La forma qui resta un contenitore che non risente affatto della presenza di una materia sconvolgente, perché questa non vi penetra né si fonde (ammesso che sia possibile oggi fondere una materia attuale con una forma classica; ed è una obiezione che avevo già mosso al purtroppo scomparso amico e poeta Eugenio Grandinetti[6]) né la mette in discussione o la trasforma. È un limite a cui non sfugge, perché Casati è ancorato all’immaginario di un “piccolo mondo antico” inalterato e in fondo poco turbato dai mutamenti sociali generali e che sarebbe tuttora capace di coltivare le «piccole gioie della vita, innocenti e gratuite». Ed è convinto di poter risolvere i contrasti sociali (compresi quelli di coppia o di famiglia) in un ambiente tutto sommato “protetto”. Ma questa visione “familistica”, troppo “giusta” e “ragionevole”, è ristretta; e non può non entrare in attrito con visioni quanto meno più inquiete e critiche sulla realtà che stiamo vivendo. È quanto è successo ora con la polemica tra lui e Grammann, che sarebbe sbagliato ridurre a incompatibilità personale. Ho detto finora che non intendevo fare né da paciere né da tifoso né da giudice super partes. Ma, vedendo che la polemica prosegue, mi sento di dire che Elena Grammann ha posto un problema importante, a un tempo formale ed etico. E l’ha posto non solo a Franco Casati ma a tutti, pur esemplificando su alcuni testi di Casati, con queste sue lucide parole:
«letterariamente parlando, il vento non ulula. Letterariamente parlando il vento, se mai ha ululato, non ulula più da quel po’ – o, se lo fa, dev’essere in un contesto marcatamente e riconoscibilmente ironico, e poi e poi. Letterariamente parlando, è un bel po’ che a primavera le nere rondini non intrecciano voli a pelo d’acqua, che si incontrano vivi moti delle correnti, acque smeraldine e via dicendo. E non per motivi di inquinamento o cambiamenti climatici.».
Ha ribadito cioè un dato acquisito da un certa critica letteraria: che la forma in letteratura sia la sostanza.[7] O in parole più semplici che la cosa più importante per chi scrive (un racconto, una poesia, un saggio, un testo scientifico) è la forma; e che un contenuto vero e nuovo (nella misura in cui davvero esso sia nuovo) richiede una forma vera e nuova
Casati non ha voluto accogliere questa sfida di Elena Grammann e ha continuato a difendere il suo modo di raccontare e a vantare la sua apertura di narratore. Ma l’obiezione di Elena Grammann era sulla forma, sul linguaggio. Nel racconto “Le rondini” è proprio la forma del suo narrare – pulita, tranquillizzante, comunicativa, allusiva, pacata – che impedisce di affrontare questi o altri temi riscoprendoli in un linguaggio che sia adeguato al dramma o alla tragedia reale che la natura e noi stiamo subendo. ammorbidisce la crisi e non la indaga a fondo finisce per occuparsi degli echi di questa crisi
Non conta, dunque, l’adesione – sua o nostra – a un contenuto moralmente buono derivato dalla propria religione di riferimento o da una ideologia rivoluzionaria. O preso dalla più recente attualità. Conta il modo in cui il narratore o il poeta o il giornalista o il filosofo o lo scienziato adattano un linguaggio preesistente o inventano un altro linguaggio per aprirsi alla realtà mutata o in mutamento. E conta anche come costruiscono già nell’atto di scrivere e usare il linguaggio (non necessariamente comunicativo né necessariamente oscuro) un altro pubblico, scuotendo quello preesistente dalla pigrizia o da abitudini consolidate ed educandolo sia a un nuovo linguaggio sia alla nuova realtà. E devo precisare che la questione continuità/discontinuità, che ho posto in un commento, non mirava ad ammorbidire la ricerca di una radicalità doverosa della ricerca letteraria come l’ha formulata Elena Grammann («“creare nuove forme” è imperativo; noi e le cose cambiamo nel tempo, le cose di adesso non si possono dire con le parole (nelle forme) di dieci anni fa»), ma solo a ricordarne la complessità del compito rispetto a certe facilonerie neoavanguardistiche del passato.
Cosa manca, dunque, all’amico e collaboratore di Poliscritture Franco Casati? La volontà di confrontarsi davvero. Perché la sua visione della letteratura è fin troppo al servizio della morale cattolica che egli professa e lo spinge a non avventurarsi con lo strumento della letteratura là dove, secondo me, dovrebbe andare a vedere. (Eppure il Papa sembra lo stia facendo!) E’ sull’orrore delle guerre, sullo sfascio di intere civiltà, sulla distruzione del pianeta e di popoli, su vicende che non riusciamo più né a rappresentarci né a governare che dobbiamo scrivere. E lasciarci inquietare.
Ma come può accadere questo, se Casati giudica le posizioni illuministiche e critiche di Grammann addirittura tossiche o le nostre – ammucchiando un po’ tutti – solo intellettualistiche?[8] Delle critiche di Grammann non coglie il valore etico ed estetico, come invece ha fatto Annamaria Locatelli, quando ha detto che la scrittura di Grammann «non ti conduce per mano verso un finale scontato ed edificante, ma ti interroga nel profondo, nel luogo dove zampillano le inquietudini, ma sai che ci devi passare». Casati chiede riconoscimento ma non riconosce la posizione di Elena. Anzi l’accusa di arroganza. Non è arroganza. Sono visioni del mondo diverse e contrapposte. Illuminismo e cattolicesimo (tradizionale)? Forse. Certo i racconti e i commenti di Franco Casati «vanno un po’ contro corrente» rispetto ad altri discorsi comparsi su Poliscritture. Ma nessuno vuole dargli alcun benservito. Concludendo, do ragione a Grammann perché pone il problema di conquistare forme nuove adatte a cogliere la realtà nuova e forse orrenda che ci sovrasta, anche se un po’ dissento – ma qui si aprirebbe un’altra discussione – per la sua esclusione da questa ricerca della politica, per me strumento altrettanto importante. Si può sentire il dovere di innovare in letteratura e non in politica? Anche costruire nuove forme in politica è un compito « più facile a dirsi che a farsi», ma irrinunciabile. Concludendo se Elena Grammann si attesta nella difesa della funzione critica alta e laica della letteratura, Casati si attesta su un’etica cattolica della letteratura. Da parte mia ho insistito fin troppo anche in questa occasione a proporre la necessità di stabilire un dialogo tra il filosofo e il tonto (Fortini), a mirare alla fluidità dei rapporti tra saperi alti e saperi bassi, a confrontare tradizioni culturali storicamente contrapposte invece di arroccarsi in esse. Se, però, il confronto non è possibile, ciascuno faccia la sua scelta.
Note
[1] «Chi lo giudicava un alienato non capiva che ciò rappresentava un punto di vista superiore dal quale guardare, o meglio non guardare, verso terra, verso la banalità della vita».
[2] «non sapeva se avessero occupato il nido».
[3] Ma l’autointerpretazione che ne ha dato Casati sembra escludere questa ipotesi: «L’attrazione di Edoardo per la moglie del Nanni può essere un semplice fatto naturale, ma nella dinamica del racconto serve a valorizzare questa bella donna per rendere più incomprensibile il fatto che il marito la rifiuti. Essa si confida con lui perché vive e si sente sola e ha capito che Edoardo è una brava persona (è più sveglia della Fischer) e può esserle utile, da vecchio amico, nel suo rapporto col Nanni. Personaggio che si rivela come un uomo debole e immaturo, come tale lo trattavano anche gli amici, che non ha ancora tagliato il cordone ombelicale con la madre. La moglie, al contrario, aspira alla vita coniugale e a quella maternità che vede nel suo futuro di donna, che la natura concede invece alla rondine.» (https://www.poliscritture.it/2021/03/29/le-rondini/#comment-101247)
[4] Come ha precisato Casati stesso in un commento: « La moglie, al contrario, aspira alla vita coniugale e a quella maternità che vede nel suo futuro di donna, che la natura concede invece alla rondine». (https://www.poliscritture.it/2021/03/29/le-rondini/#comment-101247)
[5] Così spiega in un commento: «L’attrazione di Edoardo per la moglie del Nanni può essere un semplice fatto naturale, ma nella dinamica del racconto serve a valorizzare questa bella donna per rendere più incomprensibile il fatto che il marito la rifiuti. Essa si confida con lui perché vive e si sente sola e ha capito che Edoardo è una brava persona […]e può esserle utile, da vecchio amico, nel suo rapporto col Nanni» . (https://www.poliscritture.it/2021/03/29/le-rondini/#comment-101247)
[6] Cfr. https://www.poliscritture.it/2014/06/23/appunti-su-viaggi-di-eugenio-grandinetti/
[7] Lo chiarisce bene questo passo di un’intervista a Mengaldo su Fortini: « diciamo questo allora: da una parte c’è e c’è sempre stato nel Novecento il poeta-poeta la cui ideologia è eventualmente sottintesa, nascosta e appare nelle sue poesie in maniera implicita. Il caso di Franco è diverso, è quello di un poeta che ha una ideologia esplicita che entra nelle sue poesie in un rapporto che ogni volta è da definire in modo diverso con la forma poetica. Tenendo conto che per Fortini la forma poetica, come per Adorno, è di per sé un fatto rivoluzionario. Non è solo il contenuto, ma la forma stessa, è il formalizzare la vita che è un fatto rivoluzionario.».
(da https://www.ospiteingrato.unisi.it/la-buccia-e-la-polpaintervista-a-pier-vincenzo-mengaldolorenzo-pallini-donatello-santarone/)
[8] Fino ad arrivare a dire: «Sono uno scrittore che si è sempre ispirato a tematiche esistenziali, che interessano la gente, cresciuto col popolo e che al popolo si rivolge (quello dei suoi lettori); al contrario delle vostre speculazioni teoriche e filosofiche che vi fanno vivere sulle nuvole di più del mio modesto Edoardo».
( https://www.poliscritture.it/2021/03/29/le-rondini/#comment-101247)
Bravo Ennio! In tantissime righe rimproveri – garbatamente- a FC quello che, stringata, ho evidenziato io. Ma Casati non è un bambino, come il marito de Le rondini. La sua quasi “innocente” allusione ai numerosi uccelli che mi circondano rimanda al solito pesante sessismo di chi crede di assestare il sessista colpo finale.
(Chi non ha colto quella volontaria allusione?)
Sei troppo buono.
L’amico Casati nessuno lo caccia, ma nessuno nasce e cresce come apologeta di un piccolo mondo antico e muore contento in quel laghetto. Non può, nessuno, non confrontarsi e “aggiornarsi”.
E non è solo questione di forma e linguaggio, perché il contenuto ideologico preme da dentro e travasa.
Il mondo interiore di Casati si riversa, quasi neutralmente, in “forme” pacate e rassicuranti, ma proprio questo è superficie che copre ribollenti contenuti che insistono a non esprimersi per quello che sono.
Non capisco perché sopisci un conflitto non banale e non innocuo. Che tempi sono mai questi quando discorrere di rondini non sembra neanche un delitto?
Peccato che non si parli della rondine nell’accezione della mitologia greca. Qui sarebbero stati sciolti molti dei nodi presentati nel racconto di cui si dice. Il riferimento p.e. ad Athena e Antigone a Psiche e Persefone.
Ma qui apro una pagina primordiale che sta dietro a tutte le motivazioni interiori che guidano gli eventi umani. E non è il caso di insistere. Il poeta russo Osip Mandel’stam più volte nei suoi versi ricorre alla figura della rondine per dire della donna….
Bella nota, Sagredo.
E accanto alla “pagina primordiale”, visto che si parla di crisi della famiglia, io aprirei anche qualche pagina dove ascoltare chi tenta la terapia di quei “grovigli”: https://youtu.be/ELhT4OybboQ
Quando ho pubblicato i primi racconti su Poliscritture c’è stato un consenso da parte dei lettori, com’è risultato dai commenti, e da parte di alcuni collaboratori. Voglio ricordare Luciano Aguzzi, che è stato il primo a esprimere un giudizio positivo, e soprattutto Roberto Bugliani, che ha valutato a fondo ( per quanto gli è stato possibile dai pochi racconti) la mia narrativa, con intelligenza, rispetto e competenza. Lucia Bruni ha commentato in successione tre racconti con un giudizio tutto positivo, così come Rosanna Galbiati e la fine commentatrice Annamaria Locatelli (altri interventi favorevoli erano erano venuti da esponenti della cultura veronese). Con la pubblicazione del racconto ‘La Provvidenza’, sono comparsi, purtroppo, sul sito commenti anonimi, insultanti, che Ennio Abate ha poi provveduto a togliere. Contemporaneamente ho dovuto scontare una mortificante polemica con Elena Grammann che nel suo blog, dopo una verifica da parte di E.B., si è scoperto che aveva definito come ‘vergognosi’ e ‘il nulla’ gli ultimi racconti comparsi su Poliscritture, di autori da lei non citati. Sentendomi chiamato in causa, l’ho invitata a confrontarsi con me sul racconto ‘Le rondini’, in via di pubblicazione su Poliscritture. Si è rifiutata categoricamente affermando che scrivo di cose superate e anacronistiche dal punto di vista letterario, con una scrittura conseguente, e che pertanto, per lei, non esisto come scrittore, rifacendosi a una tesi oramai scontata sul rapporto forma/contenuto, vecchia come la letteratura. Questo il clima che si è creato.
Ma veniamo, per il momento, ai supposti disvalori del racconto ‘Le rondini’ che anche E.A. mi imputa, principalmente sul piano dei contenuti. Pur riconoscendo la qualità letteraria del racconto sostiene che è di ispirazione o dottrina ‘cattolica’ e che pertanto si rivolge a un pubblico di ‘cattolici’; a persone che, come me, avrebbero delle certezze anacronistiche sul piano della storia perché, aggiungo io “tutto travolge il tempo” (Ugo Foscolo). Queste certezze si rifletterebbero, nella mia scrittura, sul rapporto forma/contenuto, dove la prima si congela perché irretita dai contenuti, e qui richiama l’alto magistero di Elena Grammann con la quale, secondo lui, nonostante l’evidenza contraria, io rifiuterei un confronto su questo tema.
Cerco di rispondere in breve, anche perché non amo le polemiche che spesso risultano inutili. Innanzi tutto, in questo racconto, non compare una ideologia ‘cattolica’ (la può scorgere solo uno ideologicamente condizionato, che si limita a definirmi un ‘cattolico’), ma una visione universale della vita e della natura che ha un suo intrinseco valore, anche se la macchina della storia avanza per distruggerla. Secondariamente, nel mio racconto (così come nei miei libri), io non mi rivolgo ai lettori ‘cattolici’, che troppo facilmente potrebbero condividere le mie posizioni, ma deliberatamente a quelli che non considerano il valore della natura, ma vi antepongono i propri interessi, che rifiutano a priori l’idea di una Trascendenza, che tollerano a malapena le persone impegnate in un cammino di spiritualità (nel dubbio e nella sofferenza, altro che ‘certezze’!). Nel racconto, la rondine è il simbolo della saggezza della natura (per chi voglia coglierlo), oltre che dell’arrivo dela primavera. Edoardo, che ne sente il richiamo, nella sua visita rispetta la moglie dell’amico, nonostante ne sia attratto (fatto naturale), non perché si comporti da cattolico, ma perché esiste un comandamento che vale per tutti i cristiani, per gli ebrei e per i musulmani che intima di non desiderare la donna d’altri. C’è poi la sofferenza di una donna che va incontro a un futuro oscuro, e già paga un triste presente (altroché tutto scorre liscio!); c’è la ‘pietas’ di Edoardo che cerca di lenire la sua pena; c’è il Nanni che rappresenta il pericolo che proviene da persone non all’altezza di un rapporto matrimoniale o di una semplice convivenza e che troppo spesso sfocia nella violenza. C’è una vecchia madre egoista (diverse ne ho conosciute!) che non ha mai saputo maturare un amore altruistico, nemmeno nei confronti del figlio. C’è il parallelismo donna/rondine, fra le due madri, che mi è stato suggerito dal quadro di Giovanni Segantini.
Tutto in un breve racconto, come uno schizzo pittorico, dove i problemi si pongono ma non si possono risolvere; dove l’autore si accontenta di suggerirli per una futura riflessione e approfondimento da parte del lettore. Non sarà E.A. a dirmi cosa devo scrivere, correndo dietro al Papa, ma il racconto a parlare da sé.
La mia scrittura, che si propone di essere chiara, essenziale e comunicativa e di rivolgersi al popolo dei miei lettori, ha una sua forma, una sua espressione, una sua cifra; dunque uno stile, personale, riconoscibilissimo, che riflette la volontà dell’autore di trasmettere dei messaggi, dei contenuti ai quali lui crede (a torto o a ragione, libero il lettore di pensarlo); frutto di decenni di applicazione e di esperienza, e che Roberto Bugliani nel suo intervento ha definito ‘robusta’. Un linguaggio, alla fine, che si innesta in una lunga tradizione, che questa scrittura cerca di attualizzare, senza stravolgerla. Così come Dostoevskij non si preoccupava più di tanto della scrittura, di renderla moderna; la trascurava e puntava sulla materia della narrazione. Quando scrisse nell’Idiota che “ La bellezza salverà il mondo”, aggiunse a pié di pagina una nota, specificando che la bellezza è ‘il volto di Cristo’, ovvero il messaggio spirituale che viene dal suo insegnamento. L’ ispirazione religiosa non ha certo limitato il valore della sua opera, ma forse questa censura da E.A. è riservata ai cattolici!
Sono uno che nel pensiero e nella realtà si sforza di vivere da cristiano, un impegno difficilissimo e irrealizzabile su questa terra, un’utopia bella e buona, da ‘puro folle’; un’utopia che ha fatto i conti con la storia per uscirne a volte vincente e a volte sconfitta, fra luci e ombre. A momenti mi inserisco in una tradizione letteraria di ispirazione religiosa, di autori che ho citato spesso anche in questo sito; ma pure in una tradizione laica di un pensiero aperto e coraggioso, di ricerca spirituale, non condizionata dall’appartenenza alle fedi o alla politica, che si ispira a tante forme e tradizioni culturali diverse ( non ho mai fatto mistero, ad esempio, del mio interesse verso la cultura degli Indiani d’America); così come ammiro la cultura ebraica, sia laica che religiosa, soprattutto nella sua espressione letteraria, dalla quale credo di avere attinto molto.
Tutto questo per spiegare un breve racconto, una minima parte della mia produzione letteraria, ancora in fieri. Ma nella vita tutto cambia e la scrittura deve adeguarsi. Già, e la strombazzata novità nella scrittura di Elena Grammann (all’interno della teoria forma/contenuto da lungo tempo storicizzata), sta forse in quel suo racconto, dal pomposo titolo in latino rubato ai Carmina Burana, dove si parla di storie di osti e di osterie di una volta, con relativi avventori (con una malcelata nostalgia per quando il vino costava poco), con un vetero-linguaggio datato di almeno mezzo secolo rispetto al mio? Nessuno vuole accorgersene?
Io ho riconosciuto spontaneamente a Roberto Bugliani un lessico più aggiornato rispetto alla mia narrativa, nel romanzo che gli ho recensito, cosa di cui mi devo preoccupare per il futuro. Ma prima che Elena Grammann riesca a realizzare una scrittura vagamente di attualità, dovrà bersi almeno un milione di tazze del suo tè, al posto del costoso vino, ammesso che ne sopporti gli effetti collaterali.
Sto per pubblicare un nuovo testo di narrativa (la mia prima pubblicazione risale al 1980. E. A. non ha mai reso noto il mio curriculum di scrittore su questo sito, auspico che lo farà in occasione di questo libro. In un prossimo futuro il mio interesse si rivolgerà a questo evento (fatto di cui ho avvertito E.A.). Il libro si compone di due romanzi brevi e di un lungo racconto su tematiche di attualità. Continuerò tuttavia a seguire con la coda dell’occhio l’attività di Poliscritture, esperienza che considero, al di fuori di personali difficoltà dovute sicuramente ai miei limiti, come positiva. Di E.A., nonostante l’orientamento ideologico-politico diverso dal mio (ma in ultima analisi forse non troppo), e che lo induce a valutazioni letterarie divergenti rispetto a quelle del sottoscritto, apprezzo l’onestà intellettuale.
Auguro buona Pasqua a tutto l’universo di Poliscritture.
…magari sono stata fraintesa, ma non ho mai dimostrato entusiasmo per i suoi racconti, Franco Casati, e spero non si offenda. Trovo che, in essi, spesso lei alluda ad alcuni aspetti del nostro tempo, dice di situazioni e rapporti in crisi, ma i suoi personaggi restano piatti e, nonostante i dialoghi, non si differenziano, ne’ prendono forma e spessore, come replicanti di una stessa matrice…C’è un pieno di vuoti che potrebbe forse essere colmato dai disegni…Comunque, tra i vari, ho preferito l’ultimo proprio perchè la rondine è un uccellino in parte domestico, vivendo sotto ai nostri tetti, in parte selvatico, richiamato com’è in paesi lontani e puo’ esprimere il sentimento di vuoto, di assenza o di perdita di cui soffrono Edoardo e, nel mito, Persefone…D’altra parte mi colpisce la forza emotiva con cui F.C. difende i suoi racconti, come fossero i suoi cuccioli…magari esiste un pubblico che colma i suoi vuoti…
@ Cristiana Fischer
La battuta ‘sessista’ me l’ha messa in bocca lei, gentile Cristiana, con l’esibizione dei tanti uccelli. Volevo realmente congratularmi, anche per compensare le dure risposte che le avevo dato, ma poi è uscita questa cosa ambigua (simile a quella di Mike Bongiorno “lei mi è caduta sull’uccello”), che mi ha fatto tanto ridere da pensare perfino di poter condividere con lei questa ilarità, sicuro della sua accettazione, da parte di una donna libera e dotata di senso dello humour.
Non ero un bambino quando andavo a spiare le rondini, e adesso, come lei dice giustamente, lo sono ancora meno. E visto che ho urtato la sua sensibilità me ne scuso.
Ho visto la sua foto sul sito, fra sculture e quadri d’autore (interesse comune); di una personcina vivace dalla esuberante capigliatura, e simpatica; dall’espressione intelligente e dallo sguardo carico di luce.
Non mi resta che augurarle buona Pasqua.
P.S.
Lei, però, non mi faccia arrabbiare troppo quando scrive dei miei racconti, con malcelata solidarietà femminile, perché anch’io ho una sensibilità.
Per favore non sia ridicolo. Sono una donna in età, e la mia solidarietà va sempre e comunque alle donne.
@ Cristiana Fischer
Credo che Casati, nel suo P.S., intenda, come ha più volte insinuato, che tu “appoggi” alcune mie opinioni unicamente per solidarietà femminile. Io invece avevo capito che su alcune cose sei nella sostanza d’accordo con me (e le sviluppi molto bene, al di là di quello che potrei fare io).
Credo che su questo punto sarebbe meglio fare chiarezza.
Già che ci sono vorrei anche far notare che il mio racconto In taberna quando sumus è stato pubblicato sul mio blog, nelle circostanze indicate sul mio blog, che non ho mai proposto racconti a Poliscritture, che non sono e non mi definisco una scrittrice.
Casati intende che io ti appoggi addirittura con “malcelata” solidarietà! E teniamo pure “la solidarierà”, che ho affermato sempre e comunque alle donne. A priori.
Perchè è credo impossibile far scattare il salto a chi riduce gli argomenti ad alleanze, psicologisticamente intese, spostabili facendo l’occhietto e le gomitatine.
L’accordo con te emerge dalla lettura dei miei commenti, ma lo ribadisco volentieri, per quanto ho espresso.
A proposito del tuo racconto, farò qualche osservazione davanti a un buon thè. Verde, spero.
Ammiro queste donne che spero abbiano letto la mia Elegia viola per Annita, dunque dedicata ad una donna fuori del comune…
Grazie per il rimando.
… e si risveglia e rifiorisce dalle ceneri del Nulla
una forma vaga di risurrezione…
umana mai sapremo, ma al nuovo giorno almeno
ci ridestiamo da defunti.
In quale degrado culturale siamo precipitati? Due giornate di lavoro per scrivere una critica (dialogante) di «Le rondini» e per ricavare dalla stroncatura di Grammann (legittima ma brusca) una lezione sulla necessità di una critica più rigorosa, forse non meritavano le deludenti risposte dell’amico e collaboratore Franco Casati, col quale dopo la morte di Arnaldo Èderle ho costruito un confronto amichevole leale e aperto.
Replico, comunque, a beneficio – spero – della comune discussione:
1. «Quando ho pubblicato i primi racconti su Poliscritture c’è stato un consenso da parte dei lettori, com’è risultato dai commenti, e da parte di alcuni collaboratori».
Esiste una differenza tra consenso (generico) dei commenti e analisi critica di un testo. I like (vale anche nei confronti di miei scritti), se non accompagnati da solidi argomenti, sono semplici atti di cortesia (a volte ambigua).
2. «ho dovuto scontare una mortificante polemica con Elena Grammann».
È in parte vero. Una stroncatura fa male. Si può, però, reagire entrando nel merito. Grammann non ha soltanto stroncato. Ha sollevato una questione estetica ed etica importante. Questo le va riconosciuto. E si doveva e poteva intervenire su quella. Poteva farlo anche Casati, pur se il clima non era a lui favorevole. Non ci si può recludere però in una polemica personale ancora adesso (« prima che Elena Grammann riesca a realizzare una scrittura vagamente di attualità, dovrà bersi almeno un milione di tazze del suo tè») e sottrarsi alla discussione comune di Poliscritture (il “noi” da costruire). Non si può usare questo blog solo come vetrina dei propri scritti e andarsene appena vengono criticati.
3. « in questo racconto, non compare una ideologia ‘cattolica’ (la può scorgere solo uno ideologicamente condizionato, che si limita a definirmi un ‘cattolico’), ma una visione universale della vita e della natura che ha un suo intrinseco valore, anche se la macchina della storia avanza per distruggerla. Secondariamente, nel mio racconto (così come nei miei libri), io non mi rivolgo ai lettori ‘cattolici’, che troppo facilmente potrebbero condividere le mie posizioni, ma deliberatamente a quelli che non considerano il valore della natura, ma vi antepongono i propri interessi, che rifiutano a priori l’idea di una Trascendenza, che tollerano a malapena le persone impegnate in un cammino di spiritualità (nel dubbio e nella sofferenza, altro che ‘certezze’!) ».
No, in questo racconto l’ideologia che compare è – lo ribadisco – cattolica. (Io ho parlato di «impronta religiosa cattolica della sua visione del mondo»). Poi l’ideologia cattolica ha varie sfumature interne e persino contrapposizioni. E parlare di cattolicesimo tradizionale può essere generico. Ma ne ho esemplificato la presenza nei modi di essere del personaggio Edoardo e negli stessi commenti del narratore.
Che Casati poi non si rivolga esclusivamente a lettori cattolici ma a quelli che, secondo lui, « rifiutano a priori l’idea di una Trascendenza, che tollerano a malapena le persone impegnate in un cammino di spiritualità» non cambia di molto il problema. Come li definiamo allora i valori (maternità, eros «nell’ambito dell’odierna istituzione matrimoniale», natura buona) che «Le rondini» propone a questo pubblico più vasto? Non viene suggerito, comunque, (con le parole di Casati) « un cammino di spiritualità», sia pur «nel dubbio e nella sofferenza»?
Se poi egli ritiene che la sua sia «una visione universale della vita e della natura» ( e cioè che oltrepassi il cattolicesimo in senso stretto o tradizionale) o afferma di inserirsi «in una tradizione letteraria di ispirazione religiosa, di autori che ho citato spesso anche in questo sito; ma pure in una tradizione laica di un pensiero aperto e coraggioso, di ricerca spirituale, non condizionata dall’appartenenza alle fedi o alla politica, che si ispira a tante forme e tradizioni culturali diverse ( non ho mai fatto mistero, ad esempio, del mio interesse verso la cultura degli Indiani d’America); così come ammiro la cultura ebraica, sia laica che religiosa, soprattutto nella sua espressione letteraria, dalla quale credo di avere attinto molto», a me resta il dubbio che si muova in un eclettismo genericamente new age.
E tuttavia, fosse cattolica tradizionale o new age o d’altro tipo l’ideologia di «Le rondini» e degli altri libri di Casati, mi pare di aver detto chiaramente che non è sull’ideologia che si appoggiano le critiche mie o di Grammann. Dante è cattolico, ma in quanto scrittore e poeta mai mi limiterei a criticarlo in quanto cattolico. Perché in poesia egli è andato oltre quella sua “impronta cattolica medievale”. Come Balzac o Céline sono andati oltre la loro impronta reazionaria. (Preciso pure che, per me, definire uno scrittore cattolico o marxista o anarchico o altro non è un’offesa, ma un modo di indicare appunto l’ideologia ”di partenza” o in cui egli si muove (a volte anche negandolo per complesse ragioni); e per meglio capire poi se nella sua scrittura “c’è dell’altro” o solo in quella ideologia si esaurisce la sua opera.
(Cfr. anche una mia vecchia nota sulla «visione cattolica» proprio di una poesia di Arnaldo Èderle nel lontano 2015: https://www.poliscritture.it/2015/09/09/andava-rovistando-useg-2/#comment-21793)
4. «Queste certezze [cattoliche] si rifletterebbero, nella mia scrittura, sul rapporto forma/contenuto, dove la prima si congela perché irretita dai contenuti».
Ho detto il contrario. La forma “classica” – meglio: questa forma “classica” di Casati (a differenza degli esempi che ho portato dell’uso del sonetto in Zanzotto e Fortini) – congela una realtà – personale e sociale – molto più viva e contraddittoria di quel che il narratore sa cogliere.
5. Abate «richiama l’alto magistero di Elena Grammann».
Le mie critiche o obiezioni a «Le rondini» sono sulla scia di altre, fatte a Casati in privato su altri suoi racconti, ben prima che conoscessi Grammann o che lei intervenisse su Poliscritture. E se c’è da imparare, imparo da tutti/e.
6. «la rondine è il simbolo della saggezza della natura (per chi voglia coglierlo), oltre che dell’arrivo del primavera».
Ma è proprio questa visione edulcorata che non ha più né forza estetica né etica. Saggezza della natura? Ho citato apposta Leopardi, che come minimo la mise in discussione. È il decadimento del simbolo rassicurante che critico. Non per cecità ma perché tengo conto come minimo dei temi su cui si è costruita buona parte della cultura del Novecento.
7. «Edoardo, che ne sente il richiamo, nella sua visita rispetta la moglie dell’amico, nonostante ne sia attratto (fatto naturale), non perché si comporti da cattolico, ma perché esiste un comandamento che vale per tutti i cristiani, per gli ebrei e per i musulmani che intima di non desiderare la donna d’altri»
È proprio questo «comandamento» (assieme a tanti altri comandamenti, compresi quelli delle rivoluzioni borghesi o socialiste) che la realtà ha messo in discussione. E spesso la letteratura è stata la prima a mostrare quante volte sia stato smentito dagli svolgimenti imprevisti della realtà sociale. E ha indicato pure quali problemi drammatici sono sorti nelle esistenze degli individui o dei popoli dai mutamenti che hanno reso inefficaci questi comandamenti e aperto crisi di civiltà.
8. «un breve racconto, come uno schizzo pittorico, dove i problemi si pongono ma non si possono risolvere; dove l’autore si accontenta di suggerirli per una futura riflessione e approfondimento da parte del lettore»
Nessuno ha preteso che i problemi accennati ne «Le rondini» venissero sviluppati nella forma breve del racconto. La critica mia ha riguardato la soluzione rassicurante ed esterna imposta nel finale a quei problemi.
9. «E. A. non ha mai reso noto il mio curriculum di scrittore su questo sito, auspico che lo farà in occasione di questo libro»
Non ho reso noto neppure quello di Gramman o di Fischer o di Salzarulo o di altri. Poliscritture si muove fuori dalla logica delle carriere.
Benché mi fossi ripromessa di non farlo, intervengo ancora una volta nel dibattito.
Cercherò di essere più neutra possibile.
Ripercorrendo il thread dei commenti in calce a “E la critica dialogante, no?”, trovo (come già trovai) che le uniche reazioni di Casati alla mia stroncatura nel merito siano le seguenti (stralci):
“Il testo preso in lettura da Elena Grammann è, appunto, questo commento, con un valore di effetto, puramente descrittivo, con espressioni ad hoc. Non ha niente da spartire con un racconto ”
“In quanto al mio linguaggio opero perché sia chiaro, essenziale e, soprattutto, comunicativo; nelle mie intenzioni, vorrei rivolgermi al più largo pubblico possibile; e non mi preoccupa se sotto questo aspetto non mi ricollego culturalmente ai capitoli più ostici dell’Ulisse di Joyce (sui quali riflettei a suo tempo con tanto interesse).
Faccio notare, con molta modestia ma altrettanta concretezza, che nel racconto ‘Le rondini’ non ci si limita a descriverle, ma si richiama l’attenzione sul tema della loro sparizione, uno dei tanti e gravi problemi ecologici del nostro tempo, orientando il lettore verso il rispetto della vita di questi meravigliosi e simbolici uccelli. Inoltre, in questo breve racconto, tocco il tema della crisi di coppia nell’ambito dell’odierna istituzione matrimoniale, e accenno alla violenza sulla donna; realtà questa che non si può certo negare sia di attualità e che interessi molto da vicino le stesse donne . Magari la prossima volta parlerò di ‘tecnologie digitali’…(un po’ di pazienza)”
Da queste uniche reazioni alla mia argomentazione (brusca fin che si vuole, ma argomentazione) ho dedotto non solo che Casati non ha capito, ma soprattutto che non vuole capire, e che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. La mia impressione è che Casati non legga bene quello che si scrive, ma che si limiti a scorrerlo velocemente, per vedere se lo si loda o lo si biasima.
A questo punto però, visto che commentare in modo argomentato costa tempo e fatica, io ho rinunciato e ho lasciato la parola ad altri, che l’hanno presa e sviluppata meglio di quanto avrei potuto fare io.
Per non avere nulla da rimproverarmi, riprendo ora velocemente il punto.
La mia critica (“Letterariamente parlando, il vento non ulula”) non c’entra nulla col tipo di testo – descrittivo, narrativo ecc.; né col registro di linguaggio scelto (classico, aulico, colloquiale, slang ecc.). Si tratta proprio della base: della cosiddetta scrittura. la parola “vento” e il verbo “ululare”, in sé, non hanno nulla che non vada, come qualsiasi altra parola, aulica o volgare. E’ il loro collegamento che non va – tranne in un testo che si voglia comico. Nella mia “stroncatura” non cito mai parole singole, ma sintagmi, cioè collegamenti. E’ questo che fa la qualità letteraria della prosa di qualsiasi testo, è fin banale da dire. Ed è in questi “sintagmi”, prima di tutto, che non bisogna “rimettere i piedi esattamente nelle vecchie forme”. Un esempio, fra i tanti, da un testo narrativo: “Fra i tanti film proposti alla TV, siccome lei non sopporta la violenza, sceglie una brillante commedia americana, con un attore-protagonista dalla fine ed esilarante comicità“.
I contenuti (e come potrebbe essere diversamente?) corrispondono alle forme, nel senso che anche in questi Casati rimette i piedi esattamente nel già-visto. Il già-visto, formale e di contenuto, produce inevitabilmente un effetto di piattezza.
Ma su questo hanno già detto altri, più e meglio.
Sui contenuti un’ultima riflessione. E qui esco dalla neutralità. Dai commenti di Casati stesso a diversi articoli del sito si evince una sua idea di letteratura e di arte come Grande Letteratura e Grande Arte che però, guarda caso, è letteratura e arte del passato; e un netto rifiuto a accettare tutta una parte del presente che in qualche modo, realmente o anche solo apparentemente, confligge con i suoi valori – tutta una parte che lui chiama “pseudocultura”.
A me sembra che Casati potrebbe benissimo compilare il catalogo di una eventuale, ma neanche tanto improbabile, nuova mostra dell’Arte Degenerata).
a una ragazza romana conosciuta a teatro
Tullia
Nemmeno un sogno inutile avevi da spartire con me
quella sera cattolica fra lacrime angolari e orbite corrose.
I dubbi acidi, dalla nascita alla risurrezione, hanno una vita
premortale… ma ho voglia, ora, di bere una cisterna artica.
La pelle della notte e il trivio erano untuosi per i tuoi atti libertini,
ti sei leccata le dita, attica creta, per un incontro inconsueto.
Non hai visto che dietro il cipresso e le poltrone tubano le ombre
per celebrare il tracollo di fuochi fatui e di fiammelle inattuali?
Non si risorge impunemente se prima non hai bevuto il fiele
di un epoca mai vissuta… e sei ancora un Lazzaro che la carne
non sa distruggere! Hai paura che il rancore di un dio trionfi,
ma una catena non ha senso se sei uno schiavo inadempiente!
Ti hanno scannato come un angelo recidivo, proprio Tu che giocavi
ai miracoli con gli astragali e due fanciulle mute hai ingannato,
sui patiboli! Le falangi hai scarnito arrotando i destini delle legioni.
Dai numeri reali ho avuto già una vita prima, e vivrò, dopo Dio!
Non voglio più conforti e carità, bastioni di tufo nel mio sangue!
L’offerta inganna la storia del mio pensiero! Un sogno che sia mai di chimera!
Questo pianeta mi opprime… uscirò fuori… in fuga dalle terrestri fedi!
La vela di un capezzale si agita incolore, e sventola il mio trionfo – a lutto!
antonio sagredo
Vermicino, 24-25/06
5-15/07 2010
E dare un’occhiata più attenta allo sfondo culturale in cui avviene questa nostra – in apparenza minima – polemica ( in particolare sui punti riferibili al tema della natura buona/cattiva, materna/matrigna, etc. e a certe ossessioni/riflessioni della cultura del Novecento)? Due spunti colti al volo da un articolo ( interessante ma non condiviso nella conclusione: “Dunque, raccogliendo l’intuizione del poeta, non rimane che puntellare le rovine con i frammenti della conoscenza e della bellezza giunti fino a noi, affrontando l’Apocalisse a testa alta, accogliendo tutte le trasformazioni, anche drammatiche, che necessariamente il futuro ci imporrà”).
SEGNALAZIONE
Quando finirà il Kali Yuga? Apocalisse e catastrofe dal Novecento a oggi
di Adriano Ercolani
https://www.sinistrainrete.info/cultura/20090-adriano-ercolani-quando-finira-il-kali-yuga-apocalisse-e-catastrofe-dal-novecento-a-oggi.html
Stralcio 1:
Antropocene e Accelerazionismo
Un dato affascinante quanto inquietante è che questo sentimento apocalittico da anni ormai non è più confinato nelle facoltà di teologia e filosofia ma, passando sorprendentemente per la divulgazione scientifica, è approdato stabilmente come argomento di dibattito sui media di massa quali quotidiani, radio e televisione, grazie all’improvvisa popolarità della definizione di Antropocene sorta in ambito biologico. Coniato negli anni Ottanta dal biologo Eugene F. Stoermer e reso noto dal Premio Nobel per la Chimica nel 2000 Paul Crutzen, il termine indica l’attuale era geologica, contraddistinta dall’impatto dell’attività umana sul pianeta. Spiega Crutzen:
A differenza del Pleistocene, dell’Olocene e di tutte le epoche precedenti, essa è caratterizzata anzitutto dall’impatto dell’uomo sull’ambiente. La forza nuova […] siamo noi, capaci di spostare più materia di quanto facciano i vulcani e il vento messi insieme, di far degradare interi continenti, di alterare il ciclo dell’acqua, dell’azoto, del carbonio e di produrre l’impennata più brusca e marcata della quantità di gas serra in atmosfera negli ultimi 15 milioni di anni (Crutzen, 2005).
Le ripercussioni di questa “scoperta” sull’immaginario contemporaneo sono ragguardevoli. Come ha scritto Amitav Gosh: «Nell’era dell’Antropocene è diventato impossibile tenere in piedi la finzione di una netta separazione tra ciò che è naturale e ciò che è culturale: le due cose oggi appaiono indissolubilmente intrecciate. Ciò significa che quelle due divinità felicemente accoppiate, “Natura” e “Cultura”, sono morte, e che l’idea stessa di “scrittura ecologica”, così come la conoscevamo, è morta con loro» (Gosh, 2017). Non è un caso che proprio in questo contesto storico sia nato un movimento filosofico solo apparentemente paradossale (in realtà erede, non del tutto inconsapevolmente, di un’antica tradizione gnostica): l’accelerazionismo. Ispirato dalle riflessioni più radicali di Deleuze e Guattari l’accelerazionismo, lungi dal voler scongiurare l’imminente apocalisse ambientale ed economica creata dall’impazzimento del sistema capitalistico, predica la necessità di affrontare fino in fondo la crisi come unico modo per superarla. Il finale del libro di Tiziano Cancelli How to Accelerate. Introduzione all’accelerazionismo rende il significato più profondo di quella che è tutto fuorché una mera provocazione:
Le sfide della contemporaneità non coinvolgono più unicamente il mondo accademico o flosofico, ma interrogano nel profondo le stesse modalità del nostro stare al mondo; di conseguenza, solamente una visione eretica, profondamente magica, in grado di sopportare il crollo della realtà che ci circonda può aspirare a trovare un nuovo orizzonte di senso, un nuovo modo che esiste. L’accelerazionismo è una potente invocazione: cosa apparirà al centro di questo cerchio magico è tutto da scoprire (Cancelli, 2019).
Stralcio 2:
Nell’Era della Confusione ci sono già i semi della futura Età dell’Oro. Ordo ad Chaos, dal caos l’ordine, recita un motto iniziatico della massoneria, pregno di sapienza alchemica. Uscendo dalle immagini suggestive del linguaggio esoterico questa intuizione era stata espressa in una delle vette della poesia novecentesca, The Waste Land, poemetto del 1922 di T.S. Eliot tradotto spesso in La terra desolata (in realtà il titolo inglese è traduzione dell’espressione dantesca “paese guasto”). Il poema eliotiano, modello della poesia postmoderna, appare come sintesi, in netto anticipo, della riflessione escatologica offerta dalle diverse anime filosofiche del Novecento che ho inteso mostrare in questa trattazione. Inoltre, il poema ebbe come editor d’eccezione Ezra Pound a cui è dedicato quale “miglior fabbro”, per rimanere in ambito dantesco, uno dei grandi miti della cultura conservatrice. I temi centrali dell’opera di Eliot si ritrovano tutti. Anzitutto il ritmo ciclico del tempo nei riti di morte e resurrezione ispirati dagli studi di Frazer, raccolti nel saggio Il ramo d’oro. D’altro canto, è significativo che nelle opere successive, dai Cori della Rocca ai Quattro Quartetti, Eliot sancirà in poesia delle definizioni teologicamente impeccabili della concezione cristiana del tempo. Poi, ne La Terra Desolata, appare la visione, colma di suggestioni blakeane, delle metropoli moderne come infernali luoghi di alienazione, il profondo senso di decadenza e incombente fine che verrà successivamente testimoniato da Eliot tre anni dopo nei celeberrimi versi finali della poesia The Hollow Men: «Così il mondo finisce / Così il mondo finisce / Così il mondo finisce / Non con uno schianto ma con un lamento» (Eliot, 2000). Infine il richiamo ultimo e liberatorio alla saggezza spirituale orientale. Verso la conclusione del poema infatti, dopo aver descritto magnificamente “il tempo di povertà” attraverso un mosaico di citazioni tratte dalla poesia di ogni tempo, da Arnaut Daniel a Gerard De Nerval, da Dante a Dickens, da Baudelaire a Ovidio, da Omero a Wagner, Eliot ci dona un verso che potrebbe essere posto in calce alla letteratura del Novecento: «Con questi frammenti ho puntellato le mie rovine». Il poema termina genialmente con la formula rituale che chiude le Upanishad, il mantra che evoca l’ineffabile pace interiore dettata dalla imperturbabilità della mente meditativa, «Om Shanti Shanti Shanti» (Eliot, 2013).
Ho letto l’articolo che hai linkato: esoterismo, magia nera e magia bianca, pensatori di destra fraintesi, destra e sinistra un po’ rimescolate, gnosticismo (Fortini: Gli ultimi gnostici), Nietzsche e Heidegger – ti dice qualcosa?
Conosco (e non stimo) Adriano Ercolani da numerosi articoli su Minima&Moralia. Devo constatare però che il suo stile è notevolmente migliorato (o qualcuno gli ha fatto un editing accurato). Insalata sincretista in salsa trismegistica.
Ma certo i problemi dell’Antropocene non sono un’invenzione di Ercolani. Solo io diffido delle prospettive apocalittiche (e degli antimodernisti à la Ceronetti). Alla fine sono facili – per questo popolari.
@ Elena Grammann
Sì, hanno sfondato il fronte che Fortini tentò finoalla fine di presidiare e chiedeva di difendere:
Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941.
«Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci.
Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava
Klockov.
Rivolgo col bastone le foglie dei viali.
Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia.
Proteggete le nostre verità.
(in “Composita solvantur, pag. 63).
Oggi, purtroppo, mi ritrovo io pure a rovistare, come un disperso, in queste discariche dove pubblicano riveriti e coccolati i nipotini degli “ultimi gnostici”, dei “fratelli amorevoli” o dei “buddisti” (Cfr. su LPLC2 Dal Bianco, “Che cosa ci fa Petrarca” e mio commento).
Tanto accanimento ideologico contro un breve e modesto racconto per affermare una supremazia critica auto-referenziale e ammutolire chi osa esprimere un autonomo pensiero.
@ Franco Casati
Nessun accanimento ideologico e nessuna voglia di ammutolirti. Anche “un breve e modesto racconto” s’inserisce, come tutti i testi, in una rete complessa di riferimenti culturali spesso non immediatamente presenti alla mente né del suo autore né dei suoi lettori; e dalla esplorazione di questi legami può venir fuori una consapevolezza più alta della funzione della letteratura e di quello stesso testo.
“Una consapevolezza più alta della funzione della letteratura” tu la trovi esaltando il Papa e io spiando le rondini.
@ Franco Casati
Ti sbagli. Non esalto Papa Francesco.
Ennio Abate (su Poliscritture FB) 18 ottore 2020
D’accordo con Fineschi: Papa Francesco ricorda la “sinistra democristiana” e non può essere definito (né lui lo vuole) “comunista”.
SEGNALAZIONE
Fratelli di tutto il mondo, affratellatevi! Brevi note sul “papa comunista”
di Roberto Fineschi
https://www.lacittafutura.it/cultura/fratelli-di-tutto-il-mondo-affratellatevi-brevi-note-sul-papa-comunista?fbclid=IwAR2T7Fr5FV_s9wN1aWsoikMyoHyZzfUGsmXzG7Ii-CjiBEwEbYdN8gUTHeU#.X4sK9226WkY.facebook
Stralcio:
Assunti gli individui come sostanziali, trasfigurati come persone umane, la dinamica sociale si articola come loro interazione quali enti già dati ab origine e quindi il risultato della loro interazione è meramente esito del loro comportamento individuale, come una sorta di sommatoria. Di conseguenza, se essi abdicano ai principi di solidarietà, fratellanza, mutua assistenza il mondo non può che andar male. Farlo andar bene è legato, di nuovo, alla loro decisione di fare, dal punto di vista soggettivo, diversamente. Infatti manca nell’enciclica qualsivoglia riferimento a dinamiche storiche oggettive. Il cambiamento dunque non è legato a modifiche delle dinamiche di fondo del processo storico, ma ai doveri delle persone umane di rendere questo concetto universale fino in fondo.
Sembrerebbe questo il mero modello liberale basato sugli individui sostanziali, ma in realtà c’è un elemento in più, vale a dire il dovere di fratellanza. L’atomo individuale, in quanto persona umana, ha un legame ab origine col suo simile non solo di uguaglianza formalistica, ma di dovere morale. Rispetto al mondo classico liberale c’è dunque in più la mutua solidarietà che può/deve esprimersi anche a livello istituzionale come doveri dello Stato o di altra istituzione di mediare e garantire livelli minimi di umanità correggendo eventuali storture che possano verificarsi. Il modello sociale che più corrisponde a questa prospettiva non è dunque il libero mercato, ma lo Stato paternalistico corporativo che può essere nella sua versione soft la Democrazia Cristiana del dopoguerra, nella sua versione hard il fascismo. Infatti, data la struttura sociale per quella che è in quanto non la si può modificare e che quindi include stratificazione di classe e gerarchie sociali, esistono doveri collettivi individuali e istituzionali per cui i più poveri o disagiati vanno assistiti, curati, considerati fratelli; tutto ciò, però, senza intaccare le strutture.
Insomma, a chi abbia voglia di ripercorrere gli scritti relativi alla dottrina sociale della chiesa vedrà che nihil sub sole novum. C’è però da rallegrarsi del fatto che Bergoglio punti senza mezzi termini e con coraggio, considerata la situazione attuale, verso la versione soft dello Stato corporativo paternalistico, cioè auspichi una soluzione “democristiana”, decisamente “progressista” se paragonata al crudo cinismo dei due principali schieramenti politici in campo. Che si prenda questo atteggiamento come il non plus ultra del comunismo la dice però lunga su quanto manchino analisi, idee, prospettive. Su questo c’è molto da lavorare e non resta che rimboccarsi le maniche.
Ma che discorso fa, Fineschi? Che non c’è soggettività umana se non in “una teoria dinamica del processo storico che sia anche una teoria dinamica della verità”? Che essere singole e singoli coscienti e intenzionali -in contesti differenziatissimi- avvenga solo alla fine del processo? (Oggi, per intendersi.)
Ma non gli viene in mente che (per Marx: o per la sua ipotesi su Marx?) dire che “il sostanzialismo della persona e la sua identificazione con l’umano come tale rappresentano la più sofisticata delle ipostasi dell’ideologia borghese” vuol dire azzerare l’umanità sulla linea di critica al capitalismo?
Il papa, il papa… che “data la struttura sociale per quella che è in quanto non la si può modificare e che quindi include stratificazione di classe e gerarchie sociali, esistono doveri collettivi individuali e istituzionali per cui i più poveri o disagiati vanno assistiti, curati, considerati fratelli” sta dicendo proprio che – visto che da sempre e ancora siamo la stessa sostanza umana (trascendente? Mah! Il cristianesimo potrebbe anche essere interpretato come una scommessa…)- i fratelli devono, in nome di quella antica comunanza di singoli riconoscere quelli altri che invece non abbiamo *volontariamente* riconosciuto nel prossimo?
(Certo è uno spostamento nel “peccato” della differenza di classe, ma… il riconoscimento non è affare individuale?)
Perché, o sono esseri inferiori quasi animali, o sono come me e te, e diversi da me e da te, ma uguali, e allora… altro che dc e stato corporativo!
L’uguaglianza, cari tutti, è un lavoro storico. (Ma non nella sua essenza, solo nella differenza storica).
Invece, il comunismo è materno: a ciascuno secondo i suoi bisogni, la madre differenze non ne fa.
Anch’io ho avuto delle difficoltà col paragrafo di Fineschi (non citato nello stralcio) a cui ti riferisci. Ho cercato di seguire il ragionamento da dove parte la critica all’enciclica: dalla verità, che per l’enciclica è una verità di fede, cioè quella una volta per tutte e indipendente dalla storia. Se la verità fosse legata alla storia, sempre dal punto di vista dell’enciclica, avremmo il relativismo. Fineschi sostiene invece che Marx, sulla scia di Hegel, ha un’idea dinamica della verità: che si dà di volta in volta nella storia, ma nel momento in cui si dà, è quella ed è vera (fermo restando che avanza verso una sempre maggiore perfezione). Cioè la verità può benissimo svilupparsi nella storia senza che perciò si cada nel relativismo.
A questo punto torniamo alla persona: il concetto di persona che si fonda su un’idea statica della verità deve essere per forza falso; in più, Fineschi identifica (non so quanto a ragione) il concetto statico di persona dell’enciclica con l’idea di “sostanza umana” della cultura borghese (” il sostanzialismo della persona e la sua identificazione con l’umano come tale”), quindi con qualcosa di doppiamente falso.
Quale sarebbe allora il “vero” della persona secondo lui? Ragionando ex-negativo dovrebbero essere “individui non sostanziali, non trasfigurati come persone umane” (cfr. la prima riga dello stralcio). Scarso, come fai notare. Probabilmente bisognerebbe integrare con l’idea, non così peregrina, che l’individuo è una specie di contenitore che si riempie di sostanza a seconda delle strutture in cui è storicamente inserito.
In ogni caso a Fineschi interessa soprattutto mostrare che Bergoglio non è comunista e mi sembra lo mostri bene, anche se accentua un po’ troppo, a mio parere, il lato che lui chiama “paternalistico corporativo”.
Ad maiora.
@ Fischer e Grammann
Ho ricopiato il post del 2020 su Poliscritture FB soprattutto per rispondere velocemente all’obiezione di Casati.
Tutta la prima parte dell’articolo apparso su “La Città Futura” è ancora più chiara dello stralcio nel dire quanto mi premeva ancora far notare: che «Papa Francesco ricorda la “sinistra democristiana” e non può essere definito (né lui lo vuole) “comunista”».
La parte più filosofica, su cui vi soffermate, è più complicata. Mi pare però che Elena Grammann colga bene la differenza tra verità di fede e verità di storia: « verità, che per l’enciclica è una verità di fede, cioè quella una volta per tutte e indipendente dalla storia… Marx, sulla scia di Hegel, ha [invece] un’idea dinamica della verità: che si dà di volta in volta nella storia, ma nel momento in cui si dà, è quella ed è vera».
Sulla persona il discorso è stato svolto in modo più preciso e approfondito in un saggio dello stesso Fineschi e ad esso rimando: https://marxdialecticalstudies.blogspot.com/2020/12/violenza-classi-e-persone-nel.html?fbclid=IwAR2BUsT9S43NLHk0rSaNVBpr_2tcNCPMTJHIOmkwiBi7wae0fu1sirPeXgQ
P.s.
Roberto Fineschi ha una pagina sua su Facebook dove dà notizie dei suoi lavori.
Anche questo appena riproposto potrebbe interessare: https://marxdialecticalstudies.blogspot.com/2021/04/introduzione-di-r-fineschi-karl-marx.html?spref=fb&fbclid=IwAR2NHlu_RcCHHDYf0b8wKWlX7ndd_8FDpYp66OImZyNg8XF7EK0NvPpQXtg
Quello che mi interessava era: 1. disaccoppiare la *persona* (la parola non mi piace, la uso per ora) dall’individualismo liberale, nesso troppo stretto nel testo sopra; 2. collegare la persona all’uguaglianza dei fratelli tutti. In che modo si è uguali? Con la parabola del samaritano è chiaro che questa uguaglianza ha almeno duemila anni.
Possiedono tutti e da sempre l’idea che siamo comunemente umani? Dei dubbi si sono posti, per esempio nei confronti dei selvaggi americani, ma alcuni li contestavano, i dubbi. Vero è che si era già in cristianesimo avanzato.
Posso pensare che proprio il fatto che molte popolazioni, ai quattro angoli della terra, chiamino se stessi gli uomini, mentre altri popoli sono intesi come estranei, i barbari, ecc., rimanda al bisogno di fare differenze… tra uguali.
Questa *verità*, se fosse accertata, riceverebbe determinazioni storiche (evolutive? progressive?) solo per quanto riguarda il modo di relazionarsi concretamente, in rapporti bellicosi o classisti.
Per questo richiamavo, un po’ ironicamente, ma neanche tanto, il comunismo materno. I fratelli infatti diventano tali, cioè fratelli, per la madre di cui sono i figli (un po’ anche per il padre, vedi il re Abdallah di Giordania che il fratellastro lo chiude in casa sua, non in prigione). Eppure la madre i suoi figli li tratta anche diversamente, perchè hanno diversi bisogni, di accudimento in primis, e poi di svezzamento, ecc., finchè diventano autonomi. In quel rapporto si radicano uguaglianza & differenza.
(Leggerò i due saggi di Fineschi per vedere se e come scioglie il nesso per ora troppo stretto tra persona e individualismo liberale.)
Uguaglianza e fraternità sono idee diverse. Il pensiero astratto (filosofia, religioni, etnologia, antropologia, biologia) tengono ben ferma l’uguaglianza. Nelle differenze.
Fineschi non se ne occupa nemmeno, usa solo persona e liberalismo.
Bergoglio aggiunge alla uguaglianza la fraternità, per inverarla. Mossa che fa dire a Fineschi che la enciclica Fratelli tutti è dc di sinistra, conservatorismo sociale.
Invece la mossa di Bergoglio è teorica: è un passo in più oltre il primo.
La questione è: se basti l’uguaglianza, come un sasso nel cervello, di cui non si può fare a meno. Quella delle scienze di cui sopra, che è anche quella delle politiche.
La violenza si impegna ricorsivamente per negare l’uguaglianza: il suo cruccio, la sua ossessione.
Ma anche la violenza Fineschi la restringe nei confini del capitalismo (crepuscolare). Che sia almeno una lotta antichissima per la primazia nelle differenze non gli appare nemmeno. Tutto sta dentro l’universo-capitalismo.
Eppure il pensiero è anche astratto, abbastanza da pensare fuori da qui, il possibile oltre che la storia.
“Ma anche la violenza Fineschi la restringe nei confini del capitalismo (crepuscolare)” (Fischer)
Mi pare questo il punto debole del saggio. Anche restringendo la violenza al “se ce n’è meno per te, ce n’è più per me” (che comunque è già un bel restringere) – quindi a una violenza fra sfruttati più che a quella di fondo capitale-salariati – mi chiedo se veramente sia un fenomeno riscontrabile a partire dal capitalismo (crepuscolare).
Il razzismo come disprezzo per il diverso sembrerebbe originariamente (epoca delle scoperte geografiche) piuttosto di matrice culturale: civilizzato contro “selvaggio”. Nelle corti europee del Cinque- Seicento non si ha difficoltà ad ammettere il selvaggio, quando sia stato convenientemente rivestito e opportunamente civilizzato – così come oggi gli extracomunitari “integrati” sono normalmente accettati senza problemi.
Ma mi sto allontanando dal punto. Il punto è che se l’analisi (molto interessante) di Fineschi è corretta, non vedo tanto la differenza fra Marx e Foucault – se non che Marx riconduce tutto alle dinamiche economiche, mentre Foucault fa anche di quelle le funzioni di un discorso.
Ho una certa difficoltà a rinunciare a una “fondamentalità” dell’umano che fa tutt’uno con l’idea di persona – nonostante il variare degli epifenomeni a cui deve andare certamente il nostro primario interesse.
Visto che ormai si parla di altro…
La madre differenze non ne fa: a ciascuno il suo, secondo i suoi bisogni. Poi vanno per il mondo con il segno di una eguaglianza nel profondo, e insieme con la differenza dei bisogni, maggiori minori, secondo il carico di forza e di potenza ricevuto.
E’ il segno della differenza, a partire da un regno di uguaglianza nell’amore.
Il contrasto tra amore e conflitto, e regole e armonia da raggiungere, è tutto qui. Per questo noi femministe sappiamo, e diciamo, che la società è maschile: nel senso che è la maschile comunità, quella delle differenze, post -*logicamente*!- l’uguaglianza amorosa.
Cui siamo estranee perchè è vero che la società la mettiamo al mondo con i maschi ma non ci appartiene, cioè non ci è propria. (Ancora qui, come sempre: non è che tutte debbano essere madri, ma tra i nati e nate di madre le donne sanno a chi somigliano.)
Farci entrare nella società? Forse c’è una incompatibile funzione originaria: tra autorizzazione all’esistenza come eguali -e insieme differenti nella uguaglianza di essere figli-; rispetto al capovolgimento tra differenza primaria e uguaglianza secondaria che i maschi hanno ferma in linea di costruzione sociale e ideologia.
Interessante, a dimostrazione, un articolo di Nadia Urbinati su Domani: 1. le donne hanno il bisogno di unirsi per ragioni di esclusione, come hanno fatto i lavoratori, i neri, ecc. (“la ‘questione femminile’ è nata politica come quella della ‘classe’ o delle altre forme di esclusione per ragioni identitarie. È nata per reclamare che uomini e donne sono ugualmente animali politici e possono far politica attiva se lo vogliono”); 2. tuttavia le donne (si riferisce al dibattito Madia-Serracchiani) mostrano solo quanto il PD, nella politica come sistema generale della gestione pubblica, sia un sistema oligarchico irrespirabile, dato che in realtà “non c’è alcuna essenza femminile”.
Cioè: al livello più alto sta la politica, sfera generale e neutra, il pd se la accaparra con lotte tra fazioni, le donne in quella lotta sono paraventi maschili (il che è senz’altro vero!).
Ma l’unica politica è quella neutra e data: la differenza tra femmine e maschi rispetto, per esempio, alle idee di uguaglianza/differenza di cui sopra non hanno nessun rilievo politico.
Grazie del chiarimento, Cristiana. Fondamentale per capire alcune cose che mi restavano semi-oscure. Sono femministicamente analfabeta. Essendo cresciuta in una famiglia a forte prevalenza e potere femminile, non ho mai avuto l’impressione che i maschi in quanto maschi potessero seriamente esercitare un qualche tipo di superiorità. Naturalmente non vedevo più in là del mio naso (o del mio caso). Al di là dell’ovvio (che è sotto il naso), non ci vedevo nemmeno quella gran differenza, fra maschile e femminile. Mi sembrava che il comune (l’uguale-umano, appunto) fosse largamente prevalente. Non è mai troppo tardi per vedere un po’ più in là…
Hai ragione: Se si vive, anche come me da bambina e adolescente, tra donne (frutto della guerra, io sono del ’45) pare che il mondo maschile -sconfitto, ad arruffianare le penne, e ci hanno impiegato non troppo- non esista. Ma vedi come si riorganizza splendidamente!
La loro solitaria differenza si struttura. Ma dappertutto non solo in politica, troppo facile.
Pazienza. Tanto i figli in bottiglia ancora non ce la fanno, solo con le schiave.