di Davide Morelli
La musica, dal punto di vista sociale, è un linguaggio universale, emoziona chiunque, può abbattere barriere invisibili tra le persone e può veicolare messaggi importanti. A livello individuale sono ormai accertati i benefici della Musicoterapia[1]. Io ascolto spesso su radio Vintage[2] e su YouTube[3] rock progressive italiano e cantautori italiani.
Per quanto riguarda il rock progressive ascolto Pfm, Eugenio Finardi, Alan Sorrenti (mi piacciono in particolare i brani remastered[4] “Vola”, “Le tue radici”, “Figli delle stelle”, “Vorrei incontrarti”), Claudio Rocchi (“La realtà non esiste”, “La tua prima luna”). Il rock progressive era caratterizzato da testi elaborati e mai banali, da musiche complesse e sofisticate. Non capisco come mai ci siamo fatti colonizzare così tanto musicalmente dagli americani. La nostra esterofilia, a mio avviso, sfiora l’imbecillità. Forse non potevamo ribellarci ai diktat del mercato? Intendiamoci: è sempre preferibile l’America che ci ha colonizzato culturalmente e sottoculturalmente a quella che vuole esportare con l’esercito la democrazia in alcune nazioni povere. Le radio passano esclusivamente musica straniera, molto spesso anglofona. È dai tempi dei Beatles che è così, anche se ai tempi dei tempi pochi sapevano l’inglese; lo stesso Shel Shapiro quando venne in Italia, si sentì un pesce fuor d’acqua perché pochi conoscevano la sua lingua. Attualmente l’industria discografica è in crisi. Molti ascoltano la musica gratis su internet. Molti collegano il tablet o il cellulare allo stereo della automobile. È il cosiddetto Bluetooth[5]. Chiunque lo può fare ormai gratis. C’è spazio solo per la musica commerciale, soprattutto straniera. Negli anni settanta i giovani guardavano all’America, ma buscavano anche ad Oriente. In quegli anni c’era molto fermento. I giovani riflettevano su tutto. Basta pensare alle radio libere, che portarono una ventata d’aria nuova e fecero un quarantotto, ebbero il merito di scoperchiare le carte. Poi tutto è ritornato come prima. Probabilmente peggio. Oggi il mercato in Italia è determinato dall’oligopolio delle major[6]. La musica indie[7] si sta facendo conoscere, ma soccombe ancora rispetto alle major. È tutto un business. Ogni canzone è soprattutto un prodotto commerciale da canticchiare e ballare. Insomma panem et circenses. Un piacere immediato ed indiscriminato per tutti. C’è chi la pensa come Adorno. “Il concetto di gusto – scriveva il filosofo – è superato in quanto non c’è più una scelta: l’esistenza del soggetto stesso, che potrebbe conservare questo gusto, è diventata problematica quanto, al polo opposto, il diritto alla libertà di una scelta che non gli è più empiricamente possibile. […] Per chi si trova accerchiato da merci musicali standardizzate, valutare è diventata una finzione”[8]. Per Adorno dietro ogni acquisto di disco e dietro ogni gusto musicale c’è la pressione e la massificazione della cosiddetta industria culturale, di cui la musica leggera fa parte. Il pubblico gode acriticamente della musica, che è totalmente mercificata. Una delle ragioni per cui Nietzsche criticava Wagner era quella di essere istrionico, populista, folcloristico. La stessa cosa potremmo dirla della musica leggera, che è nazionalpopolare. C’è chi dice che la musica leggera sia satanica[9] e che le star siano diseducative per i loro eccessi. A questo proposito Vecchioni in un articolo di giornale, anni fa, scrisse che dovrebbero essere invertite le parti tra insegnanti e rockstar: ai primi grandi ricchezze ed onori, ai secondi che vivono di eccessi, per qualche illuminazione interiore e per avere l’ispirazione, degli stipendi come tanti. La critica al sistema di Vecchioni era ironica ma sacrosanta. Le canzoni, insomma, oggi fanno parte del divertimentificio[10] e non devono più far riflettere. Anzi talvolta ho la vaga impressione che più sono banali i ritornelli e più entrano nella testa delle persone. Non solo ma c’è da dire che spesso i fruitori della musica leggera sono ragazzi di età compresa tra i 15 e i 25 anni: ciò spiega molte cose. Oggi il mondo è Spotify[11], almeno per i millenials e la generazione z (i cosiddetti nativi digitali). Forse sono io che appartengo alla generazione x (sono del 1972)[12] e sono rimasto indietro, troppo ancorato ai miei tempi. Oppure più probabilmente tutti noi italiani imitiamo sempre le mode americane con ritardo; in fondo in Italia rapper e trapper[13] sono comparsi dopo anni ed anni di ritardo rispetto all’America, così come nel secondo novecento si diffuse con ritardo da noi la controcultura americana. Noi importiamo continuamente generi musicali, come è successo anche per il reggaeton[14]. Eppure gli autori italiani non hanno niente da invidiare a quelli stranieri. È vero che De André subiva l’influsso di Brassens agli esordi, De Gregori quello di Bob Dylan e Vecchioni musicalmente quello di Bruce Springsteen. Ma nessuno si ricorda che Bob Dylan voleva cantare “Jodi e la scimmietta” di Venditti negli anni settanta e che Vasco Rossi non volle fare il suo show nel 1990 assieme ai Rolling Stone, declinando l’invito. Così come nessuno si ricorda che Alice (Carla Bissi) non volle mai cercare l’avventura americana, nonostante ripetuti solleciti dell’industria discografica. Si ricordano invece tutti soltanto che Lucio Battisti tentò con esito infausto il successo oltreoceano. In America i cantanti italiani che riscuotono più successo sono Laura Pausini, Andrea Bocelli, Eros Ramazzotti, Zucchero, Il volo, Adriano Celentano, Mina, Al Bano, Toto Cutugno. Senza nulla togliere alla bravura di questi ultimi c’è da osservare che il genere dei cantautori italiani forse è troppo di nicchia per piacere negli Stati Uniti. Inoltre due sono le pecche del nostro cantautorato, nonostante la dignità letteraria dei suoi testi: non avere musiche molto orecchiabili (spesso in un disco di otto canzoni solo tre o quattro sono musicalmente valide) e non avere grande presenza scenica sul palco. A tal proposito spesso ai concerti dei nostri cantautori si respira soprattutto un’atmosfera intimista e di raccoglimento. Ma probabilmente questa è stata una precisa scelta artistica. Basta ricordarsi cosa scriveva Pierangelo Bertoli in “A muso duro”: “Adesso dovrei fare le canzoni/ con i dosaggi esatti degli esperti/ magari poi vestirmi come un fesso/ e fare il deficiente nei concerti”. Oppure sempre a tal proposito basta citare anche Battiato: “non è colpa mia se esistono spettacoli/ con fumi e raggi laser/ se le pedane sono piene/ di scemi che si muovono/ up patriots to arms, engagez-vous”. Bisogna anche aggiungere che per gli italiani è molto facile farsi ammaliare dai miti americani, mentre per i cantori di una nazione così periferica e poco importante come la nostra è molto difficile esportare le loro cose artistiche. Infine va detto che i nostri cantastorie, i nostri novelli bardi probabilmente non rispecchiano gli stereotipi dell’italiano: abbiamo nella nostra penisola forse un cantautorato troppo elitario ed intellettuale. Eppure è pacifico che le creazioni del nostro cantautorato, secondo la critica musicale, non siano intrattenimento, ma vera espressione artistica e talvolta sinonimo di impegno civile e politico. Forse non sono solo canzonette. Devo dire però che i giovani non devono neanche idealizzare troppo i cantanti, che non hanno nessun rapporto privilegiato con la verità.
Resta da stabilire se le canzoni di autore siano poesia o meno. Forse sono espressione di poesia popolare, ma questo lo decideranno gli italianisti a venire. Alcune però assomigliano senza ombra di dubbio alla poesia. Per il poeta Milo De Angelis i cantautori scelgono sempre la via più facile, quella più comunicativa. Il grande Mario Luzi invece sosteneva che alcune canzoni di autore fossero poetiche, mentre non sempre tutte le poesie lo erano. Per il poeta Valerio Magrelli la musica avvantaggia e facilita i cantautori rispetto ai poeti. Per il poeta Maurizio Cucchi le canzoni di Guccini non sono assolutamente poesie. Per il poeta Lello Voce spesso i testi delle canzoni, letti senza musica, non reggono da soli e non sono poesie. Per De Gregori i cantautori non sono poeti e non devono avere alcun ruolo educativo. Per Vecchioni le canzoni sono poesie e cita il fatto che anticamente le poesie venivano accompagnate da delle musiche. C’è anche tra gli addetti ai lavori chi pensa che Bob Dylan sia un grande poeta visionario e chi solo un cantante semicolto. C’è chi ritiene che i musicisti siano più avvantaggiati perché il feto sente da subito il battito della madre. C’è chi pensa che sia solo questione di educazione e cultura. Insomma il dibattito è ancora aperto. Oggi i cantanti vengono idolatrati. Il panorama musicale è mutato completamente dagli anni ’70, almeno qui in Italia. Erano anni caldi quelli. Le polemiche erano al vetriolo. Chiunque poteva essere messo alla berlina. De Gregori venne “sequestrato” per poco tempo da dei contestatori ad un concerto. Altro che qualche hater sui social![15] Per il cantautore romano fu traumatico. Si rimproverava ai cantautori di arricchirsi facilmente e di essere schiavi del sistema, nonostante fossero compagni. Tra gli stessi cantautori c’erano anche invidie, cattiverie, gelosie[16]. Era una cosa umana. I cantanti, soprattutto i cantautori, negli anni settanta si trovavano tra l’incudine della censura e il martello dei contestatori. Intendiamoci: c’erano le bombe e le p38. Lo stesso Stato era violento. Negli anni di piombo venne minato lo stato di diritto. La polizia sparava alle manifestazioni. Cossiga, allora ministro, dichiarò più volte che faceva mettere una busta di droga pesante nelle giacche di estremisti, ritenuti particolarmente violenti ma incensurati, per farli arrestare. La maggioranza silenziosa non scendeva in piazza. In compenso però andava ai concerti di Claudio Baglioni, figlio e fidanzato modello, eterno cantore dei buoni sentimenti democristiani. La censura era negli anni settanta un modo per difendere la morale comune e controllare accuratamente i messaggi sociali e politici veicolati nelle canzoni. Le canzoni con la rima amore e cuore non erano assolutamente pericolose per l’ordine costituito. La censura era basata su questa grande ipocrisia di fondo. Ci si poteva scannare in piazza tra giovani, ma si doveva salvare l’apparenza, la forma. Niente poteva intaccare il buon gusto in prima serata. Faccio una breve digressione sulla censura in quegli anni.
Innanzitutto per quanto riguarda la musica straniera va ricordato lo scandalo suscitato da “Je t’aime… moi non plus”, che era del musicista francese Serge Gainsbourg e dell’attrice britannica Jane Birkin, pubblicata nel 1969. Ma anche la satira non se la passava bene. Non tutti gli sketch comici andavano a buon fine. Dario Fo e Franca Rame vennero oscurati per sedici anni dalla RAI di Ettore Bernabei, allora dirigente organizzativo di Saxa Rubra. I due drammaturghi erano rei in Canzonissima di aver trattato un argomento allora tabù come le morti sul lavoro. Lo stesso premio Nobel ha dichiarato che, nonostante l’apparente morigeratezza e il timore di Dio, Bernabei per lui era un autentico “satanasso”. Nel 1959 Raimondo Vianello ed Ugo Tognazzi avevano preso in giro l’allora presidente della Repubblica Gronchi, che era cascato da una sedia vicino a De Gaulle. La trasmissione televisiva condotta dai due, nonostante la grande popolarità, venne bruscamente interrotta. Per quel che concerne la musica italiana venne censurata “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones” perché criticava l’America e parlava della guerra nel Vietnam. Invece “Dio è morto” cantata dai Nomadi e scritta da Guccini venne censurata dalla RAI, ma trasmessa dalla radio vaticana. La stessa “Bocca di rosa” fu censurata, ma non mi risulta che venne censurata nessuna canzone dell’album “La buona novella”, in cui De André si rifaceva ai Vangeli apocrifi e in cui c’era addirittura “Il testamento di Tito” che criticava tutti i comandamenti e che provocò solo accese discussioni tra cattolici e qualche proposta di dibattiti tra teologi. Anche “Albergo ad ore” di Herbert Pagani, “4/3/1943” di Lucio Dalla, “Luci a San Siro” di Vecchioni (un aneddoto curioso riguarda il fatto che “Donna felicità, scritta sempre da Vecchioni e cantata dai Nuovi angeli, non venne censurata dalla RAI ma solo dalla commissione del festival di Sanremo. Probabilmente l’ironia e l’erotismo velato di questa canzone non vennero considerati scurrili e neanche offensivi della morale), “Questo piccolo grande amore” di Baglioni, “Il gigante e la bambina” di Ron, “Io se fossi Dio” di Gaber, “Bella senz’anima” di Cocciante, “Luna” di Loredana Bertè e “Coca Cola” di Vasco Rossi vennero censurate e modificate. Un intero album interpretato da Gaber, intitolato “Sexus e politica” venne interamente oscurato dalla RAI nel 1970. Anche il mitico Enzo Jannacci venne censurato più volte. In particolare va ricordata “Ho visto un re”, che denunciava il potere ed esprimeva il dissenso giovanile della contestazione. Il cantautore milanese proprio per questo motivo si allontanò per un certo periodo dalle scene. Non mi risulta però che Jannacci subì censura per “Veronica”. Venditti con il brano “A Cristo” si prese una condanna 6 mesi per vilipendio alla religione. Lo stesso De Gregori fu censurato. Non piacquero i versi “Giovanna faceva dei giochetti da impazzire” in “Niente da capire” e “il mendicante arabo ha un cancro nel cappello, ma è convinto che sia un portafortuna” in “Alice”, perché all’epoca non si poteva trattare neanche di tumori. La censura era quindi uno spauracchio ed era molto arbitraria[17]. Oggi i cantanti possono cantare qualsiasi cosa o quasi. Niente fa più scandalo.
Ma passiamo ad altro. Veniamo ad oggi.
Oggi la poesia contemporanea non vende. Eppure la poesia, a mio avviso, esprime a livello esistenziale e gnoseologico meglio della canzone il mondo, la vita e l’io (compresi i suoi vuoti e le sue fratture). Oggi i giovani preferiscono i cantanti ai poeti contemporanei, anche perché questi ultimi sono più difficili da comprendere e trattano molto meno di tematiche amorose. Veniamo al primo punto.
Comprendere le poesie non sempre è facile. Un testo può essere analizzato per il suo significato psicoanalitico, esistenziale, sociale, letterario, ideologico. Ogni testo può essere studiato valutando il contesto storico, la parafrasi, le figure retoriche, la metrica. Non solo ma va anche detto che ogni lirica può scaturire dal sentimento, dall’osservazione o dalla trasfigurazione. Inoltre non sempre un poeta si basa sulla realtà oggettiva, ma spesso anche sulla vita segreta delle cose e della natura. Nel novecento tutto forse diventa più complesso. Basta pensare ad Eliot e Pound con le loro citazioni colte e il loro montaggio . Nel secolo scorso sono stati molti gli ismi letterari. In Italia agli inizi del novecento l’ermetismo non era affatto di facile comprensione sia perché in esso era presente l’orfismo (connotato dal valore sacrale della poesia e dalla ricerca costante di assoluto e infinito) sia perché i testi erano colmi di simboli ed analogie. Negli anni sessanta si registra un notevole cambiamento. Erano contro l’ermetismo sia i poeti di Officina (Pasolini, Roversi, Volponi, Fortini, Leonetti) che i Novissimi (gruppo 63), ma anche essi non erano di facile comprensione. La neoavanguardia ad esempio era ammirevole negli intenti perché contro il neocapitalismo, contro l’egemonia culturale e l’estetica dominante, contro la mercificazione dell’arte. Però spesso spiazzava i lettori per il suo linguaggio multidisciplinare, i suoi shock verbali, la ricerca di essere originali a tutti i costi. Infine la poesia degli anni settanta con il neorfismo cambiava di nuovo le carte in tavola perché prendeva le distanze sia dalla neoavanguardia che dal neosperimentalismo, ma il linguaggio poetico era sempre oscuro e di non facile decifrazione. Per capirne di più basta leggere due antologie poetiche: “La parola innamorata” e “Il pubblico della poesia”. Il poeta comunque da decenni non ha più alcun status e la poesia contemporanea è divenuta marginale. Molti scrivono. Pochi leggono. C’è anche troppa creazione, ma è scarsa la fruizione. È una poesia talvolta autoreferenziale e non comunicativa. I poeti sono sempre più appartati. Il loro messaggio spesso non è chiaro. Il gradimento del pubblico è scarso. I giornali raramente recensiscono libri di poesia. Nelle Facoltà di Lettere i poeti contemporanei non trovano spazio. I libri di poesia nella stragrande maggioranza dei casi finiscono al macero. I poeti sono stati sostituiti e rimpiazzati socialmente da cantanti e cantautori. Comunque oggi i poeti viventi sono sconosciuti al grande pubblico. Come sono cambiati i tempi da quando Vico scriveva che i poeti sono i primi storici delle nazioni! Oggi è innegabile che la poesia di questi anni sia in crisi e alcuni critici, appunto, l’hanno definita minimalista. La lirica di questi tempi è spesso illeggibile e non memorabile. Comunque non bisogna essere ottimisti né apocalittici. Veniamo alla questione della tematica amorosa. Petrarca è diventato anche egli uno dei più noti poeti italiani per le sue opere in latino oppure per quel Canzoniere in volgare in cui trattava dell’amore per Laura? La maggioranza dei grandi poeti deve la propria fama non tanto al proprio impegno civile o alla propria figura intellettuale quanto alla descrizione nelle opere delle loro vicissitudini amorose. Spesso c’è una figura femminile. Nei casi di Dante e Petrarca l’amore non è corrisposto, le donne muoiono e vengono idealizzate. Ma si potrebbero fare esempi in cui le cose vanno diversamente. Lo scrittore von Sacher-Masoch è diventato famoso non certo per essere un intellettuale asburgico, ma soprattutto per il suo bizzarro amore per la sua moglie Wanda. Salinas non diventò noto per essere un esule spagnolo ai tempi della dittatura franchista oppure per essere un professore universitario, ma per aver scritto soprattutto “La voce a te dovuta”. Nessuno sa con certezza se le muse furono all’altezza della fama alla quale arrisero. Ma in fondo non è questo l’importante. La cosa più importante è il sentimento amoroso. Ci sono anche esempi altissimi di poesia d’amore omosessuale: ai nostri tempi Pasolini, Dario Bellezza, Sandro Penna, Auden (i primi che mi vengono in mente): amori che in certe epoche potevano essere considerati diversi e quindi fonte di contrasti. Ma in poesia vengono descritti anche amori per prostitute oppure per le passanti. In letteratura tutto è possibile e niente fa scandalo. La più bella poesia di amore a mio avviso è questa: “Il più bello dei mari/ è quello che non navigammo./ Il più bello dei nostri figli/ non è ancora cresciuto./ I più belli dei nostri giorni/ non li abbiamo ancora vissuti./ E quello/ che vorrei dirti di più bello/ non te l’ho ancora detto.” (Nazim Hikmet). Ma mi piace moltissimo anche il verso di Cesare Pavese: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Ma nel secondo novecento e nei primi anni del duemila pochi poeti hanno trattato in modo memorabile l’amore, a differenza dei cantautori, che descrivono da sempre i loro sentimenti amorosi senza alcun pudore. Mi vengono in mente alcuni versi riusciti di canzoni. Ad esempio De Andrè: “È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati”. Oppure mi viene in mente una vecchia canzone di Vecchioni: “Io ho le mie favole e tu una storia tua”. Oppure Guccini: “Io non credo davvero che quel tempo ritorni, ma ricordo quei giorni”. Discorso a parte per Lolli. La generazione bolognese del ’77 è l’ultima in Italia che si è posta collettivamente nei confronti della realtà. Ne va preso atto. E la colonna sonora di quel movimento del ’77 era la musica di Claudio Lolli. Ecco perché Lolli, oltre al fatto di essere un poeta prestato alla canzone, è importante da ricordare. Certo era anche malinconico, ma poeta. Fin da giovanissimo scriveva ottimi testi. Ha scritto delle poesie in musica fino alla sua fine. Dispiace che non sia stato compreso e riconosciuto a sufficienza. Era visto come troppo cantautorale, troppo di nicchia. Personalmente mi piace ascoltare la musica che non è intrattenimento ma espressione artistica e Claudio Lolli nel corso di tutta la sua vita ha saputo dimostrare di essere un artista. Le canzoni di Lolli sono soprattutto politiche, ma ce ne sono alcune come “Donna di fiume” oppure “Vorrei farti vedere la mia vita” che sono belle poesie d’amore. Claudio Rocchi era mistico, però sapeva anche scrivere canzoni di amore. Piero Ciampi sapeva descrivere certe zone morte della coscienza, come ha sottolineato Maurizio Cucchi, ma sapeva anche cantare d’amore. Ad ogni modo molto spesso i testi delle canzoni sono stucchevoli e sdolcinati.
Per fare una panoramica “ampia” sulla musica leggera italiana bisogna trattare anche di Sanremo e dei talent show.
Su Sanremo:
Ci sono canzoni eccellenti che non hanno vinto Sanremo e che a mio avviso avrebbero meritato la vittoria come “Ciao amore, ciao” di Tenco; “Ma che freddo fa” , cantata da Nada; “Le mille bolle blu” , cantata da Mina; “Nata libera” di Leano Morelli; “4/3/1943” e “Piazza Grande” , cantate da Lucio Dalla; “L’uomo che si gioca il cielo a dadi” di Vecchioni; “Montagne verdi” , cantata da Marcella Bella; “Vita spericolata” di Vasco Rossi; “Almeno tu nell’universo” , cantata da Mia Martini; “Gianna” di Rino Gaetano; “Quello che le donne non dicono” , cantata da Fiorella Mannoia; “Il ragazzo della via Gluck” di Celentano; “Un’avventura” di Lucio Battisti; “L’Italiano” di Toto Cutugno; “Ancora” di Eduardo De Crescenzo; “Cosa resterà degli anni 80” di Raf; “Signor tenente” di Giorgio Faletti; “E dimmi che non vuoi morire” , cantata da Patty Pravo; “Timido ubriaco” di Max Gazzè; “Spunta la luna dal monte” di Bertoli e Tazenda; “Maledetta primavera” , cantata da Loretta Goggi. Mi scuso per averle citate alla rinfusa. È pacifico dire che molte di queste canzoni siano state vere e proprie vincitrici morali del festival e successivamente siano diventate dei grandi successi. Naturalmente non bisogna sopravvalutare Sanremo, che è una grande kermesse canora e non certo il “Premio Tenco”: la stragrande maggioranza delle canzoni sono semplici, commerciali e trattano quasi tutte di amore nel modo più strappalacrime possibile. Insomma è una grande gara nazionalpopolare e non bisogna aspettarsi di più. Le canzoni sono fatte soprattutto per “arrivare” subito alla gente e non hanno molto spesso la pretesa di essere poesia e talvolta nemmeno di essere espressione artistica. Il rapporto tra canzone d’autore e poesia comunque è problematico e controverso. In America non vengono fatte distinzioni tra Bob Dylan, Lou Reed, Leonard Cohen, Jim Morrison e i poeti della beat generation. In Francia cantautori come Brassens, Brel e Ferrè sono considerati dei veri poeti. In Italia cantautori come De Andrè, Edoardo De Angelis, Enzo Jannacci, Guccini, Battiato, Dalla, Paolo Conte, Edoardo Bennato, Vecchioni, De Gregori, Piero Ciampi, Claudio Lolli, Alice, Ivano Fossati, Giorgio Gaber, Enrico Ruggeri, Tenco, Ivan Graziani, Mario Castelnuovo, Vinicio Capossela, Ligabue sono riusciti a scrivere testi che hanno una certa dignità letteraria. Però non vengono considerati poeti a tutti gli effetti da parte dei critici letterari. D’altra parte in Italia il pubblico della poesia è inesistente e sono gli italianisti a decidere chi deve finire nelle antologie scolastiche. I cantautori invece godono di un grande seguito e il popolo conosce a memoria le canzoni e non le poesie: come già ho avuto modo di scrivere sono i cantanti i surrogati dei poeti al mondo di oggi. Facendo una considerazione a largo raggio ritengo che oltre alla razionalità tecnologica imperante ci sia anche una sorta di irrazionalismo strisciante, che porta tanti a credere agli oroscopi, ai maghi, alle fake news e naturalmente anche ai cantanti.
Comunque, sempre in Italia, in passato sono state fatte cose interessanti per quel che riguarda il rapporto tra poesia e musica. Baglioni ad esempio ha musicato una poesia di Trilussa (“Ninna nanna” ) e Guccini una poesia di Gozzano (“L’isola non trovata” ). Inoltre la canzone “Le passanti” di De Andrè è un testo di un poeta francese. “Il cantico dei drogati” l’ha scritta assieme al poeta Riccardo Mannerini. Lo stesso cantautore genovese ha scritto “Una storia sbagliata” in memoria di Pasolini. “Le lettere d’amore” di Vecchioni si riferisce al grande poeta portoghese Pessoa. Va ricordata anche la collaborazione tra Roversi e Dalla, durata 7 anni. Personalmente ritengo che la canzone, anche quella d’autore, possa essere considerata al massimo poesia popolare e spesso il testo, letto senza musica, non possa essere considerato a tutti gli effetti poesia. Spesso il testo della canzone non è eufonico. Inoltre quando si fanno dei raffronti tra un poeta e un cantante bisogna sempre paragonare non un singolo testo di canzone e una poesia, ma un album, ad esempio di dieci brani e una intera raccolta poetica. In due o tre anni circa infatti un cantautore pubblica un album e nello stesso arco di tempo un poeta pubblica una raccolta. Una singola canzone o una singola lirica sono sempre troppo poco per giudicare. Bisogna invece considerare la totalità delle creazioni di un determinato periodo di tempo. Bisogna considerare non solo il testo ma anche l’unità macrotestuale. Ritorniamo però al festival. La stragrande maggioranza di noi spesso si dimentica chi ha vinto a Sanremo, mentre invece si ricordano di più certi piccoli scandali, verificatesi nell’evento, come ad esempio la vista del seno di P. Kensit e la farfallina di Belen Rodriguez. Sanremo è anche gossip e varietà. Sanremo non è solo cultura pop, ma anche un fatto di costume. I mass media di solito considerano la riuscita o meno di un festival dallo share e in base a questo valutano il conduttore e il direttore artistico, che talvolta sono la stessa persona. Dicevo prima che le canzoni di Sanremo peccano troppo di sentimentalismo. La poesia contemporanea oggi considera invece le questioni amorose come banale autobiografismo e stucchevole diarismo. A mio avviso la verità sta nel mezzo. Non bisognerebbe edulcorare troppo i propri sentimenti come accade nelle canzoni, che sono pensate e scritte per un pubblico adolescente o comunque giovane. Non bisognerebbe però razionalizzare, intellettualizzare troppo la poesia di oggi. Anche grandissimi poeti come Saffo, Catullo, Dante, Petrarca, Montale, Neruda e Salinas hanno scritto poesie d’amore. Molto spesso alcuni poeti e alcune poetesse hanno raggiunto la fama imperitura grazie a canzonieri in cui venivano descritte le loro pene e i loro sentimenti amorosi. Nella poesia odierna forse non si trattano più i sentimenti amorosi perché ancora pesa uno stilema neoavanguardista, ovvero quello di “riduzione dell’io”, come se la poesia dovesse essere sempre neo-oggettuale e ogni componimento poetico non dovesse essere la risultante equilibrata di una interazione tra io e mondo. Nella poesia odierna forse non viene trattato il sentimento amoroso perché sempre per la neoavanguardia bisognava evitare ogni intimismo. Nel frattempo la poesia è sempre più un genere marginale e non è certo colpa della neoavanguardia. Cosa fare allora? Quale è il rimedio? Per il poeta Giovanni Raboni bisogna evitare «l’idea della poesia come valore alto se non addirittura supremo, come sinonimo e emblema di nobiltà, di superiorità, d’eccellenza»[18]. Nel novecento invece la poesia è diventata una signorina algida, fredda, snob e troppo intellettualistica. La poesia per essere tale deve cercare di “toccare il nadir e lo zenith” della sua “significazione”, per dirla alla Luzi, deve cioè descrivere i meandri più oscuri della psiche e nominare il mondo. Ma è anche vero che «niente è così facile come scrivere difficile», come scriveva il filosofo Karl Popper. Chi ha una visione del mondo dovrebbe riuscire sempre a semplificare senza essere semplicistico. Molto spesso invece nella poesia contemporanea vengono complicate persino le cose semplici e rese incomprensibili le cose complesse. I poeti di oggi snobbano Sanremo, ma avrebbero bisogno di piccole dosi omeopatiche di questo festival. Gli farebbe bene ascoltare qualche canzone. Sappiamo che la scrittura a differenza dell’oralità è, per dirla con Vygotskij[19], «un linguaggio per un interlocutore assente» ed è un atto “fonologico”, maggiormente articolato e privo di intonazione. Inoltre la poesia è una forma particolare di scrittura perché già con il Pascoli ad esempio veniva privilegiata la conoscenza alogica e analogica. Insomma i poeti cercavano una strada prerazionale. È altrettanto vero però che molti oggi imitano Zanzotto e Amelia Rosselli, scrivendo più per se stessi che per gli altri; scrivono infarcendo le loro poesie di citazioni colte; scrivono per una ristrettissima cerchia di eletti. Il loro è un linguaggio per allusioni. È un linguaggio criptico. La lirica invece dovrebbe ricercare la validità universale. Per Nietzsche uno solo ha sempre torto e soltanto con due persone inizia la verità. Sempre per il grande psicologo russo Vygotskij «la verità è un’esperienza socialmente organizzata». Da soli si delira. Bisogna rivolgersi agli altri per avere una presa di coscienza. Le canzonette di Sanremo, a differenza di molte poesie di oggi, forse sono scritte da autori furbastri; però hanno una notevole capacità comunicativa, anche se forse la maggioranza di esse non sono arte. Insomma il mattone non è più un investimento. I soldi non sono più sicuri in banca. I cittadini chiedono più sicurezza. La crisi ha impoverito molti. Un titolo di studio umanista talvolta è un ostacolo per trovare un posto di lavoro. Alle elezioni il primo partito sarà senza ombra di dubbio quello degli astensionisti e la vittoria verrà decisa invece da coloro che nei sondaggi si dichiarano indecisi, che solitamente appartengono all’elettorato moderato. I politici, nonostante tutto, continuano a promettere l’impossibile. Milioni di italiani però, nonostante tutti questi problemi, si fermano e si incollano davanti ai televisori per cinque serate per commentare le canzoni. La comunità poetica invece lo snobba totalmente: eppure tutti avremmo bisogno ogni tanto di essere riportati all’essenziale. I poeti in definitiva devono scegliere se mettere un poco di ordine o aggiungere disordine ad una letteratura come quella attuale già troppo confusionaria, caotica e dispersiva. Non chiedo certo di dare una definizione esaustiva della poesia o dell’arte, che sarebbe come assiomatizzare l’ineffabile. A tal proposito ho una unica certezza a proposito dell’arte, ovvero ‒ come scrisse Henry Miller ‒ che «non dovrebbe insegnare nulla, tranne il senso della vita»
Sui talent show[20]:
La prima critica che faccio a questi programmi è che formano ballerini e cantanti ma non autori. Vengono premiati solo gli interpreti e non i poeti prestati alla musica né coloro che possono veicolare messaggi importanti o fare denunce sociali. Talvolta penso che questi format creino degli epigoni, se non degli imitatori. Non viene premiato in alcun modo lo spessore culturale. Inoltre eticamente mi hanno sempre lasciato perplesso. I giudici abbattono sul nascere i sogni e le aspirazioni di ragazzi troppo giovani. C’è il rischio di ferire in modo letale la sensibilità non solo artistica ma anche umana dei giovani. I talent show possono essere un trampolino di lancio, una opportunità, una esperienza formativa, ma anche un supplizio senza fine. Un tempo diventavano famosi dopo anni di gavetta. Oggi questo bagno di folla, questa grande popolarità improvvisa può rivelarsi dannosa per giovani, che devono ancora crescere e maturare. Nei talent gli aspiranti cantanti e ballerini hanno da subito una grandissima visibilità che può montar loro la testa o che può renderli infelici nel caso di riscontri negativi. Ai ragazzi viene data la possibilità di interagire con coach famosi, di duettare con artisti famosi, di essere osannati dal pubblico nel migliore dei casi. E dopo queste grandi scariche di adrenalina cosa resta due o tre anni dopo? Molto spesso niente. La carriera di un artista dovrebbe procedere per tentativi ed errori, ma in questo genere di trasmissione è vietato sbagliare e perciò è vietato variare e sperimentare. In definitiva l’industria discografica è al servizio della televisione. La televisione dovrebbe essere il mezzo ed invece diventa il fine: su tutti e tutto regna incontrastato l’audience. Questi format portano a grandi ascolti; però ciò va a discapito della qualità. Viene da chiedersi se necessariamente un giovane debba passare per le forche caudine della televisione per diventare un cantante o un ballerino famoso. L’eccessiva severità dei giudici, i fischi del pubblico in sala o il televoto possono demoralizzare e deprimere in modo cruciale i giovani. Esiste una parte statica ed una dinamica di noi stessi? Con il tempo si cambia e talvolta si migliora? In giovane età, io penso che tutti abbiano dei margini di miglioramento notevoli, ma il talent sembra voler decretare in modo definitivo il successo o l’insuccesso di un giovane. Il talent sembra voler mettere una pietra tombale sui sogni di alcuni giovani, che dovrebbero essere trattati con più delicatezza e con meno brutalità. Nella vita normale molti si imbattono quotidianamente in colleghi, superiori, familiari, parenti, conoscenti che, a torto o a ragione, non li stimano. All’università alcuni docenti trattano male gli studenti, però questo avviene davanti ad una ristretta cerchia di persone. Anche nella vita quotidiana c’è il rischio del giudizio negativo, del fallimento e talvolta dello stillicidio continuo e della molestia morale. Ma la televisione amplifica tutto. Il talent dura poco. Ma tutto accade davanti a milioni di spettatori. Alle sfuriate di un giudice assistono milioni di spettatori. Le figuracce e le scenate diventano virali: addirittura nazionalpopolari. Non si può prescindere da tutto ciò? Bisogna illudere e poi deludere così questi giovani? Devono essere così sfruttati dalla logica televisiva e dall’industria della canzone? Spesso vengono tarpate le ali sul nascere in modo definitivo. Prima avveniva tutto in modo più graduale: c’erano delle tappe e dei livelli. Sono pochi quelli che ce la fanno. Alcuni addirittura vincono il talent e dopo qualche anno vengono subito dimenticati. Il sistema discografico è sempre più un mondo usa e getta. I talent mi sono sempre sembrati dei tritacarne senza umanità. Eppure tantissimi giovani ogni anno vanno a fare i provini. Vogliono svoltare, come si dice a Roma. Forse non mettono in conto che, oltre agli onori e ai guadagni, essere famosi comporta anche degli oneri, delle responsabilità, dei compromessi e dei sacrifici. Beata la loro incoscienza! A me i talent show fanno malinconia e ritengo fortunati gli ideatori non solo per il successo ma anche perché finora nessun giovane si è fatto del male. La controversa questione se questi format fanno male a chi vi partecipa rimane. Così come resta l’idea in molti che lo spettacolo abbia la meglio sulla musica che, seppur declinata in tutte le sue varianti ed i suoi generi, viene per alcuni critici musicali rovinata. Nessuno però sa dire se era meglio prima, quando aspiranti e sedicenti artisti cantavano ai matrimoni, oppure ora. Mi fanno altrettanta malinconia, a onor del vero, le trasmissioni di vecchie glorie, che rievocano i bei tempi e cantano i loro cavalli di battaglia. Comunque i talent show sono delle minestre riscaldate perché in gran parte dei casi vengono riproposti vecchi brani. Mi chiedo chissà quanta gente lavora dietro le quinte di questi programmi e non vedo i risultati concreti. Mi domando se ci sia qualcosa e qualcuno in questi format che possa veramente allargare gli orizzonti e aprire la mente dei telespettatori. Mi viene il dubbio a tal proposito che sia tutto intrattenimento. Mi viene il dubbio che i telespettatori aspettino la stecca senza alcuna empatia per il giovane più che il virtuosismo. Forse sarebbe più onesto e meno rischioso per i partecipanti fare una nuova Corrida in cui nessuno ha pretese artistiche e in cui ci si può mettere in gioco allegramente con spensieratezza. Inoltre penso che dietro una apparente strafottenza e la rincorsa al successo dei giovani molto spesso si cela l’insicurezza psicologica, l’incertezza esistenziale e la voglia di essere accettati per quello che realmente si è. Questa loro fragilità va tenuta in considerazione e non gettata in pasto al pubblico. I giovani potrebbero non essere ancora corazzati a livello interiore e potrebbero ancora non essere preparati psicologicamente. Il canto e il ballo sono anche delle attività ludiche, ma nei talent show tutto viene prese terribilmente sul serio. Il giudizio dei coach e del pubblico risultano delle sentenze inoppugnabili. I giudizi sono spesso perentori e non ammettono repliche. Qualcuno potrebbe sostenere che non è colpa dei giudici se qualche ragazzo è troppo permaloso, troppo fragile, troppo vulnerabile, troppo delicato. A volte ho assistito a delle critiche destabilizzanti da parte dei giudici, che dovrebbero saper tener a freno la lingua e dovrebbero dimostrare più accortezza. Dovrebbero cercare di non ferire l’animo dei partecipanti. Un requisito fondamentale per essere giudici dovrebbe essere l’umanità, anche se lo show-business è una lotta di tutti contro tutti e bisogna essere agguerriti per sopravvivere. I giudici dovrebbero pensare non solo a selezionare i migliori, ma anche alle conseguenze psicologiche ed esistenziali di chi non ce la fa. Forse in questi talent i ragazzi saranno pure assistiti dallo psicologo, ma dopo il talent che succederà? Quali saranno le conseguenze? Perché sottoporre a tutto questo stress psicologico ed emotivo dei giovani? Perché i giovani continuano ancora a fare da carne da macello a questi spettacoli? Apparentemente sembra un gioco, ma dietro c’è rivalità, malignità ed aggressività tra ragazzi, che vengono messi l’uno contro l’altro. Forse il problema sta a monte: moltissimi giovani sanno che non potranno mai contare qualcosa in questa società e pensano che i talent show siano la loro ultima spiaggia. I talent show quindi sono per coloro che hanno la voce per cantare, ma che non avranno mai voce in capitolo nel mondo. Così ogni anno in migliaia si catapultano alle selezioni. Ci saranno coloro che verranno glorificati e coloro che saranno umiliati. Ogni anno lo spettacolo viene riproposto nel palinsesto. La strategia vincente non viene cambiata. La cosa più saggia è cambiare canale a mio modesto avviso.
Note
[1] Ecco un articolo divulgativo di uno specialista sulla Musicoterapia:
https://www.psicologo-milano.it/newblog/musicoterapia-peculiarita-e-ambiti-di-applicazione/
[2] Le radio Vintage sono radio che trasmettono musica dei decenni passati, di solito dagli anni sessanta agli anni novanta. Per radio Vintage si può anche intendere (ma non è questo il caso) degli apparecchi radio dei decenni passati.
[3] Guardare video di canzoni su YouTube non è reato. Lo diventa se il materiale viene diffuso e commercializzato. Se il materiale su YouTube è protetto da diritto di autore a pubblicarlo sul proprio canale YouTube o a diffonderlo via social si può incorrere come minimo in un reclamo o al massimo in un illecito civile. Non sono assolutamente un esperto. Ho fatto però delle ricerche. Per capire se un video è protetto da copyright ecco un link:
https://www.aranzulla.it/come-capire-se-un-video-e-coperto-da-copyright-1165602.html
Se si vuole convertire il video musicale di YouTube in file mp3 ecco la consulenza di uno studio legale:
https://www.studiocataldi.it/articoli/24102-scaricare-musica-da-youtube.asp
[4]https://it.m.wikipedia.org/wiki/Rimasterizzazione#:
[5] https://www.wireshop.it/magazine/bluetooth-cos-e/
[6] Per major si intendono le principali case discografiche (o etichette discografiche), che promuovono e distribuiscono musica leggera nel mondo. Il mercato mondiale discografico è concentrato in poche mani.
[7] Per musica indie si intende la musica alternativa, indipendente, prodotta dalle case discografiche più piccole. Ecco un elenco di artisti italiani indie:
http://www.musicaindieitaliana.com/lista-incompleta-delle-band-e-cantautori-indie-italiani/
[8] Il saggio breve si intitola “Il carattere di feticcio in musica” in “Dissonanze” di Adorno (Feltrinelli, Milano, 1990)
[9]https://www.losbuffo.com/2018/03/22/canzoni-contrario-satana-droga-illusione/
[10] A proposito di divertimentifici, ho letto che le discoteche sono in crisi, già da prima del Coronavirus. Prima ancora che venissero chiusi per il Coronavirus, i locali notturni erano in crisi in Italia per i problemi/costi legati alla sicurezza e per la tassazione. Ma forse il loro vero problema è che non vanno più di di moda. Sembra che i social network e YouTube abbiano colonizzato gran parte del tempo libero giovanile e secondo gli esperti abbiano mutato radicalmente i concetti di aggregazione ed amicizia. Un tempo le discoteche erano l’unico luogo di ritrovo della mia generazione. I giovani sfogavano le frustrazioni della settimana nelle discoteche. Molti giovani nutrivano grandi aspettative per il sabato sera. In quel mondo contavano soprattutto le belle auto, l’aspetto fisico e l’abbigliamento, visto e considerato che qualsiasi forma di dialogo era soffocata dalla musica. Tutti in pista a fare quattro salti per cuccare la bella di turno. Non potevi non andare in discoteca perché altrimenti eri un emarginato. Per gli altri eri uno sfigato. Ti toccava anche fingere di gradire quella musica. Ti dovevi far piacere quel mondo per non passare male. Come sono cambiati i tempi!
[11] https://it.m.wikipedia.org/wiki/Spotify
[12] https://www.argoserv.it/generazione-x-y-z-c
[13] I trapper, in parole povere e semplificando, sono rapper che usano un linguaggio più crudo. Per alcuni sono diseducativi. Talvolta trattano tematiche di attualità e nei loro testi talvolta ci sono sprazzi poetici. In ogni modo, come per la musica indie, anche i trapper riescono ad avere una certa genuinità. I più conosciuti trapper italiani sono Sfera Ebbasta, Ghali e la Dark Polo Gang.
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Trap_(genere_musicale)
[15] Per showbiz si intende il mondo dello spettacolo, il mondo del business ma anche il web. C’è un elite di influencer ed una gran massa di influenced: questo è il mondo ad esempio dei social media. Sono poche le voci critiche, che vengono sopraffatte dal marasma dei vip, degli hater, dei troll. Non esistono più sfumature di grigio. Si ama o si odia senza riserve senza discernimento. I vip però non dovrebbero lamentarsi troppo degli hater. Grazie allo stesso sistema possono guadagnare grandi cifre su Instagram senza fare niente. Anni fa era peggio. Perfino Tonino Carino fu attenzionato dalle br. E che dire delle contestazioni ai cantautori negli anni settanta? Oggi va molto meglio ai vip. Gli italiani si sono impoveriti, ma i vip guadagnano belle cifre senza particolare meriti. Oggi essere vip è come essere nobili un tempo: si gode di molti privilegi, che vengono ereditati dai cosiddetti figli d’arte. I figli d’arte ad esempio hanno centinaia di migliaia di follower su Instagram senza aver alcun merito e senza aver fatto alcun sacrificio. Non si lamentino troppo i vip. Non solo ma va detto che talvolta il mondo dello spettacolo etichetta/categorizza come hater persone che fanno critiche negative ed ostili senza essere offensive. È vero che su internet non dovrebbe essere garantito l’anonimato. È vero che ci sono anche stalker che perseguitano per anni i vip. È vero che ci sono persone disturbate psicologicamente ossessionate dai cosiddetti vip. Ma è altrettanto vero che anche lo showbiz oltre allo Stato stabilisce il suo ordine del discorso per dirla alla Foucault. Detto in termini semplici, chi critica talvolta i vip viene talvolta considerato un invidioso, un poveretto, un megalomane, un pazzo, un hater oppure un molestatore a prescindere e non è assolutamente detto che lo sia. Chi critica i vip è automaticamente out. Non si guarda alle qualità delle argomentazioni del critico. Lo si attacca subito in modo destabilizzante. Gli si fa causa penale e civile. Ma chi sono i vip? Per Galeazzi i vip sono quelli che stanno nel vippaio. Per lo showbiz i vip sono le vallette e i calciatori. Sono personaggi pubblici coloro che hanno avuto passaggi televisivi. Ma è solo una strategia da parte di chi dirige i mass media per distrarre le persone e non fargli sapere cosa accade nelle stanze dei bottoni. Ci sono persone molto potenti, che sono poco conosciute al grande pubblico. Lo showbiz stabilisce il suo ordine del discorso. Stabilisce cosa è giusto e cosa no, cosa è lecito e cosa no. Lo show business, intriso come è di darwinismo sociale, narra i sacrifici di chi ce l’ha fatta e si dimentica i sacrifici di chi non ce l’ha fatta. Certe showgirl dicono che fare sacrifici sia trasferirsi a Roma o Milano, andare in palestra, tenersi a dieta. Altri personaggi televisivi affermano che non si può criticare negativamente le loro trasmissioni perché in questo modo non si rispetta tutte le persone che vi lavorano dietro le quinte. Seguendo questo principio non si potrebbe criticare neanche Hitler o Stalin, che come si sa davano lavoro a molte persone. Infine la ciliegina sulla torta: viene diffusa l’idea che chi è vip ha qualità straordinarie, quando invece spesso i vip sono tali perché il pubblico si rispecchia nella loro mediocrità. Anche questa è una mistificazione della realtà. Anche questo tipo di narrazione deformata rientra nella istituzione di un ordine del discorso. Lo showbiz pensa per noi. È vietato pensare con la propria testa. Stabilisce i gusti, le mode, gli stili i tormentoni. Personalmente ce l’ho con le idee fisse e contro lo strapotere dei vip, che ancora oggi talvolta si comportano da lestofanti. I vip, ad esempio, spesso non pagano al ristorante ed allo stadio.
[16] Venditti ha dichiarato che talvolta De Gregori e De André andavano ai suoi concerti per criticarlo sommessamente in quanto i suoi testi erano considerati dai due meno letterari e più commerciali. Vecchioni prese in giro De André in “Belle compagnie” (“Chi è il più anarchico del reame?”), anche se poi diventarono amici. E che dire di ciò che cantava in “Via Paolo Fabbri 43” Guccini? In quella canzone prendeva in giro i testi di altri cantautori. Cito testualmente: “La piccola infelice si è incontrata con Alice ad un summit per il canto popolare. Marinella non c’era, fa la vita in balera ed ha altro per la testa a cui pensare, ma i miei ubriachi non cambiano soltanto ora bevon di più e il frate non certo la smette per fare lo speaker in TV”. Malignità oppure ironia e anche autoironia? Jannacci in fondo criticava l’intera categoria in “I poveri cantautori”. Senza ombra di dubbio niente però a che vedere con le cattiverie e l’ostracismo che il mondo dello spettacolo riservò a Mia Martini.
[17] Allo stesso tempo sono sfuggite alla censura canzoni come “Il triangolo” di Renato Zero, “Il Kobra” di Donatella Rettore, “Colpa d’Alfredo” di Vasco Rossi, “Pensiero stupendo” di Patty Pravo, “Comprami” di Viola Valentino, “America” di Gianna Nannini, “Disperato, erotico stomp” di Lucio Dalla. Una canzone reazionaria come “Chi non lavora non fa l’amore”, cantata da Celentano e Claudia Mori, naturalmente vinse Sanremo e suscitò polemiche politiche, ma non venne mai censurata da nessuno.
[18] “La poesia che si fa. Critica e storia del Novecento poetico italiano 1959-2004” di Giovanni Raboni (Garzanti, Milano, 2005)
[19] “Pensiero e linguaggio” di Lev S. Vygotskij (Giunti, Firenze, 2007)
[20] Da Garzanti linguistica.it: “Genere di spettacolo televisivo per la scoperta di nuovi talenti da lanciare nel mondo dello spettacolo, in cui i concorrenti, specialmente cantanti o ballerini, si affrontano in gare a eliminazione”.
https://it.m.wikibooks.org/wiki/Talent_show_in_Italia/Riassunto_schematico_dei_talent_show_in_Italia
@ Davide Morelli
Mi scuso ma ho cancellato sia il mio che i tuoi commenti perché una riflessione storica sugli anni ’70 non si può svolgere sotto un post che parla di canzonette.
Ok. Va bene. Grazie di nuovo per la pubblicazione di questo mio scritto.
La canzone non potrà mai essere poesia perché troppo carica di espedienti che nulla hanno a che fare con la poesia…..ma una canzone, a volte, può dare molto di più di una poesia e forse non solo a volte…
Ho visto il post (di Davide Morelli) del 5 aprile 2021 sulle CANZONETTE e mi sono ricordato del poeta russo Osip Mandel’stam legato al tema della canzonette napoletane. Tema che si conosce pochissimo, e allora rendo noto qualcosa:
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——————————————————————————————————————-” Il ’35 e il ’36 è un’epoca di estrema povertà per loro (i Mandel’stam). Egli (il poeta) fa piccoli lavori a Voronež; all’inizio fa il direttore letterario del teatro locale, e lavorò anche per la radio locale, facendo delle brevi introduzioni per trasmissioni musicali, in particolare per Orfeo e Euridice di Gluck; tradusse persino canzonette napoletane per una cantante e fece piccole trasmissioni per i bambini; soprattutto lo aiutavano gli artisti locali in gran parte esiliati che avevano dato vita a questo teatro.”
(commento di AM Ripellino dal Suo Corso su Mandel’stam del 1974\75, pag- 54)
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mia nota 148, pag. 54
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“Perché Mandel’štam si interessa di canzonette napoletane?. Già nel cabaret Il cane randagio che Mandel’štam frequentò si cantavano queste canzonette; lavorava infatti come cantante Grigorij Fabianovič Gnesin di origine ebrea (i cui fratelli fondarono l’Accademia Russa di Musica). Ritornato in patria dall’Italia “pubblica alcune canzoni napoletane con delle traduzioni dei testi in russo: è il primo divulgatore della canzone partenopea in Russia ”[°]- Entra in contatto col critico K. Čukovskij, con Repin e con Mejerchol’d; viene arrestato nel 1937 e fucilato poco dopo. Suo fratello Michaíl Gnesin lavorò con nuove musiche [°°] al Revisore di Mejerchol’d del 9 dicembre 1926. Ma le prime collaborazioni col regista risalgono al periodo “1913-1916 negli Studi teatrali di via Povarskaja e via Borodinskaja a San Pietroburgo”[*]. È assai probabile che Mandel’štam e Grigorij Gnesin si siano incontrati al cabaret Il cane randagio; o che ne abbia solo sentito parlare di Gnesin; Mandel’štam ne fu attratto, e forse così si spiega il suo interesse per le canzonette napoletane. [°- A. Gullotta, La memoria, il terrore, il terrore della memoria”, in: eSamizdat, 2010]; [°° A.M.Ripellino, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia, op.cit. p. 139]. – Riferisce Nadežda Mandel’štam in L’epoca e i lupi, op. cit. 1971, p. 221, che Mandel’štam ”…aveva ascoltato alla radio Marian Anderson [ soprano americana (1897-1993)] e il giorno precedente era stato a visitare un’altra cantante, espulsa da Leningrado. Per lei Mandel’štam aveva fatto una traduzione libera di certe canzonette napoletane, da cantare poi alla radio, dove in quel periodo tutti e due riuscivano a guadagnare qualche soldo”. Di certo la poesia di Mandel’štam del 12 febbraio 1937 “Sono affondato nella fossa dei leoni” ,che è l’ultima del Secondo quaderno di Voronež, è stata creata dopo quell’ascolto. ///// [*] in:– Lezione del 24/03/2010 – di Dmitry Trubochkin. ////// Si deve sottolineare che, a proposito di canzoni napoletane, la celeberrima O sole mio fu composta in Russia, ad Odessa nel 1898, da Eduardo Di Capua (1865-1917) su parole di Giovanni Capurro. Il Di Capua si era imbarcato su una nave da crociera come pianista; durante un soggiorno a Odesssa si narra che, guardando dalla finestra dell’albergo il sole ucraino nascente riflettere sul Mar Nero, sentisse nostalgia del sole di Napoli, e allora cominciarono a sorgere in lui le prime note di quella canzone, che poi sarà universalmente conosciuta in tutto il mondo.”
Gentile Antonio Sagredo,
grazie davvero. È un piacere alzarsi e leggere questo suo commento.