di Rita Simonitto
Tra le piante del terrazzo rigoglia un Rincospermum, arbusto sempre verde detto anche ‘falso’ Gelsomino. In certe giornate, vedere la sua chioma esuberante che deborda dal vaso già abbastanza capiente mi infastidisce. Allora gli dico: “‘ahò, a Rinco, ma ‘ndo vai?”. Ma nello stesso tempo mi rendo conto che lui figura come un mio punching ball su cui riversare i fastidi che provo verso chi, zitto-zitto, quatto-quatto, si appropria di spazi altrui.
Certo che lo so che le piante tendono ad espandersi ed è bene che sia così. Certo che tollero che il mughetto (convallaria majalis) emigri in altre parti del giardino così che, quando me lo ritrovo davanti in un angolo imprevisto, lo saluto con cordialità. Forse perché è così piccolo, indifeso che sollecita la mia tenerezza? O forse perché, a dispetto del cacofonico nome scientifico, mi riattiva un mondo intriso di romanticismo, quell’omaggio che accompagnava una promessa di amore: i tre steli del mughetto con relativa foglia a contenerli? E che poi, molte volte, finivano ingialliti tra le pagine di un libro investito di significati o di un diario?
Vallo a capire perché ho puntato proprio su lui, il Rincospermum.
Eppure, quando arriva maggio/giugno, eccolo lì come una nuvola bianca di fiorellini stellati il cui profumo si preannuncia già da lontano. Nuvola che, soprattutto all’imbrunire, sembra voler trattenere col suo candore l’ultima luce del giorno. In quel momento vorrei annegarmi in quella chioma, immemore di tutto! Mentre oggi, in questo periodo di transito tra inverno e primavera, l’arbusto si ammanta di un turgido rosso-oro: sono le foglie di due anni fa che lentamente andranno a cadere per lasciare più spazio a quelle smeraldine dell’anno scorso, utili a proteggere i nuovi boccioli già in formazione. Lo spettacolo dura abbastanza per poter beare la vista: infatti, esteticamente, trasmette un certo effetto di trionfo, quasi a mistificare la paura della fine incipiente. Pur tuttavia questo scenario non mi sollecita emozioni di accompagnamento come invece sperimento quando, in autunno, l’acero nano, che dimora nel vaso accanto, si trascolora con le medesime marezzature cromatiche. Il “Rinco” al contrario mi dà fastidio, quasi fosse una stonatura, un ‘fuori tempo’ o una nota ‘fessa’! Un po’ come se rappresentasse l’apoteosi della “società dell’apparenza”! (P. Zaoui).
Non so che ipotesi fare in merito a questo mio diverso coinvolgimento emotivo: sarà per il fatto che l’acero tutto si avvia verso il sonno invernale mentre nel caso specifico del Gelsomino, quando mi avvicino, vedo che le foglie sfacciatamente rosse succhiano ancora linfa dalla pianta che, forse, crescerà a rilento a discapito della nuova vegetazione. Non è tanto quella realtà a turbarmi – fa parte della natura del Rincospermum – quanto l’idea che questa ‘realtà’ (ovvero che le foglie cadenti succhino ancora risorse al nuovo che cresce) sia portatrice di una intenzione malevola, al punto che, quasi quasi, quelle foglie, le vorrei staccare anzitempo dal fusto (o forse è solo perché mi richiama il “Le mort saisit le vif” di K. Marx?).
Ma che vado ad arzigogolare, attingendo a quei rigurgiti di cattiveria che ogni tanto riaffiorano, residui arcaici delle dispettose intolleranze infantili? Sì, lo so che la “Rinco…” sono anche io! Sempre, quando parliamo, quando raccontiamo storie, vige il “de te fabula narratur”. E poi dipende se la fabula prende il sopravvento, si autonomizza e acquista una valenza corale, o se invece, ad occupare il tempo e lo spazio della narrazione, è solo il narcisismo del narratore… il quale, ad un certo punto, si dimentica da dove è partito e si concentra sul suo ombelico.
Ma veniamo al dunque. Sì. E’ vero. C’è una parte di me che non tollera né quell’avvicendarsi vita-morte che si maschera da passiva acquiescenza: “è nell’ordine delle cose”, “dopo l’inverno, viene la primavera” (così come tornano le rondini…). Né, tanto meno, quel surrettizio non voler cedere mai il passo, non si muore mai… Così diventa tutto un eterno presente, senza storia (con le sue cesure) e senza memoria. E così bisogna inventarsi continuamente qualche cosa di ‘rivoluzionario’ (magari utilizzando lo strumento del linguaggio che è più plastico per prestarsi a questa bisogna) ma che rivoluzionario non è, in quanto esprime soltanto una forma di ribellione, pur giusta che sia. La ribellione tende a distruggere, mentre la rivoluzione dovrebbe tendere ad un recupero trasformativo.
Ma come si fa? Quale è il passaggio tra Scilla e Cariddi?
C’è poco da fare! Capisco. Sono viziata dalla poca benevolenza verso la mia carcassa che lentamente si spolpa (nel senso che perde polpa e muscoli) e perciò, per tirarmi fuori dal mortifero pantano che via via mi risucchia, cerco di far leva sulla mente, sul pensiero (fantastico o ragionato che sia): però non faccio che ripetere, né più né meno, quello che aveva fatto il Barone di Mȕnchhausen che si tirò fuori dalla palude aggrappandosi alla sua treccia di capelli! Non riesco a ritrovare un equilibrio (qualora questo sia possibile) tra il potere della carne (l’hardware) e quello del pensiero (il software).
Eccomi quindi a dovermi confrontare in prima persona con il significato ‘vivo, sperimentato’, non teorico, del passare del tempo, dei corsi e dei ricorsi. Le perdite, i lavori del lutto, le memorie e i ritorni… I ritorni e le rondini assunte ad emblema di tutto ciò.
Già. Le rondini. Un nome altamente evocativo. Non solo per la sembianza (la loro figura esile, agile ed elegante che volteggia dentro i respiri dell’aria), ma anche (ciò vale, ovviamente, per me) per le narrazioni musicali e poetiche imbastite su questi passeriformi. Da un lato, uccelli simbolicamente di buon auspicio, protettori della casa (un nido di rondine sotto il cornicione ‘porta bene’ in quanto l’animale è sacro ad Afrodite dea dell’amore) e, dall’altro, simboli di allontanamenti, perdite, lutti.
Dalla canzone “Non ti scordar di me” (che cerca di rappresentare i turbamenti e le sofferenze per la partenza dell’oggetto amato), alla famosa “Golondrina” nel film “Il mucchio selvaggio” di Sam Peckimpah (dove le note struggenti cantate dagli indigeni di quel sobborgo messicano accompagnavano tristemente sia il viaggio senza ritorno dei supposti liberatori e sia una “stagione perduta senza poter volare”. Il tragico destino dei popoli sottomessi!)
E come non ricordare la pascoliana poesia “San Lorenzo”? A quel tempo, quei versi mi avevano dato più lacrime di quanto me ne avessero portato i disagi del dopoguerra, la fame e l’isolamento sociale.
Sì, perché quello c’era anche allora, ma lo iscrivevo all’ordine delle cose che potevano essere belle o brutte, gradevoli o spiacevoli. Era un dato, non imputabile a chicchessia né interpretabile. La mia famiglia era approdata per caso in quel paese dopo la fuga dai bombardamenti su Milano: quindi, niente ricongiungimento di parenti e perciò, pur parlando lo stesso idioma, eravamo ‘stranieri’ rispetto al gruppo autoctono. In aggiunta, io, in quanto mio padre a causa della guerra aveva contratto la TBC e veniva spostato da un sanatorio all’altro, ero una possibile “untrice”, una infetta. Ragion per cui dovevo aspettare fuori dai negozi di generi alimentari finché non uscivano tutti gli avventori. Forse se ne approfittavano anche del fatto che ero piccola perché, a memoria, non mi sembrava che a mia madre fosse riservato lo stesso trattamento. Eppure non piangevo. Accadeva così, non mi piaceva, ma intanto che aspettavo osservavo quelle persone, anche loro straniere per me, e cercavo di immaginarmi la loro vita, delle loro storie. E poi a che serve piangere se non c’è nessuno che ti capisce e ti consola?
E non piangevo nemmeno per la paura quando il vento ululava, sì ululava, scorribandando nel sottoportico di casa destinato dal Municipio (ex Regio) a temporaneo parcheggio del nero carro funebre. Maestoso e lugubre, ornato con ghirlande dorate e drappi viola ai lati della carrozza e, a cassetta, i pennacchi piumati che avrebbero bardato i cavalli, neri anch’essi, al momento della cerimonia di commiato. Ululava il vento, e scatarrava (coof, coof) infierendo sul catafalco vuoto e graffiando con insistenza l’uscio della mia casa.
Ma io, invece di spaventarmi, mi immaginavo in viaggio, sulla scia dei racconti deamicisiani, in mezzo a quella tormenta per andare alla ricerca di mio padre ricoverato in non sapevo quale Sanatorio…. E lo avrei curato e sanato dalle sue ferite, dalla devastazione interna legata all’aver patito l’ingiustizia di una insana guerra.
L’ingiustizia. Forse era per questo che piangevo a fronte della poesia pascoliana: piangevo per la ingiusta sorte della rondine… Per qualche cosa che usciva dalle ‘regole della natura’: l’incontro con il diverso pone naturalmente delle difficoltà ma qui vi entrava qualcosa di altro, una intenzionalità, per quanto potesse essere sotterranea.
E se, tornando all’oggi, fossi invece io ad essere l’aliena? La “Rinco[…]”?
Fossi io a insistere nel volermi riappropriare, ‘paro paro’, di qualcosa che ormai non c’è più (una storia è finita), assecondando lo sconfortante intento di poterne modificare passaggi (“se”, “se” e così via), in modo da oscurare le negatività e rendere tutto ‘pulito’? Non è successo niente?
Però allora non sarebbe più vivere per vivere, accettando di fare esperienza di tutto ciò che la vita ci presenta, ma diventerebbe un vivere per non morire, evitare di confrontarsi con le perdite, i fallimenti e, soprattutto, con la nostra finitudine. Ma anche non voler fare i conti con i morti, con quello che abbiamo perduto, interrogandoci su quale è stato il nostro ruolo in quelle relazioni.
E forse è anche per questo che me la prendo, virtualmente parlando, si intende, con una pianta che non c’entra niente, lei segue i suoi ritmi, non si interroga, le domande sono mie e soltanto mie. Però su di essa scarico le mie rappresentazioni intrise di dolore ma anche di tanta rabbia.
Rabbia perché non riesco a gridare al mondo il mio disappunto nei confronti del trattamento di defunti che oggi non possono seguire il loro destino naturale nemmeno rispettando quella cultura della sepoltura che ha caratterizzato la nostra civiltà. Mi si dirà: “è il capitalismo, bellezza” o “la pandemia determina ogni scelta”! No, non si tratta solo di questo.
E’ subentrato qualcosa di altro. Sono morti causate, prodotte dalla (o nella) indifferenza generale: la individualità è scomparsa e un nuovo Golem (“la massa ancora priva di forma”) ha preso il sopravvento. Un robot pilotato che possiede forza ma non intelligenza, un Gigante dai piedi di argilla i cui movimenti possono essere orientati diversamente solo togliendo una lettera dalla impressione originaria stampatagli sulla fronte (*).
O che altro ci può essere oggi, in questo mondo disfatto di progettualità e di ideali, per tenere a freno la mia spinta a voler staccare prematuramente quella doratura dalla pianta che l’ha generata? Perché questo è l’impulso che sento. Ah, ma sì. Il Covid ti ha dato alla testa! Oh, certo può essere! Chi oggi può dirsi esente da questo martellamento ossessivo e persecutorio che megafona nelle nostre prigionie: “non se ne verrà più fuori, sarà così per sempre”, in una sfrenata ‘coltura’ (sì, ‘coltura’, come fossimo prodotti geneticamente modificati) della vita anziché ‘cultura’ della stessa, che invece prevede e contempla anche il senso e il valore della morte. Invece, costi quello che costi, si deve vivere! Paradossalmente, a costo di morire.
Mi torna alla mente il film “The Mist” (del 2007 di F. Darabont e tratto da un racconto di Stephen King) in cui il protagonista, dopo aver cercato disperatamente di contrastare la presenza misteriosa di esseri alieni che succhiano la vita alle persone, prende una decisione drammatica, annientante. E proprio questo finale “bastardo” (uccidere lui i propri cari per non rischiare di farli uccidere dagli alieni) può darci molto da pensare se collegato all’attualità.
E mi tormenta, di converso, il mio essere maldestramente tentata da un desiderio disperante di riprendere contatto con la Bellezza (il faustiano “fermati, sei bello”) di cui oggi nessuno si occupa più, perché essa Bellezza viene pilotata dall’esterno secondo codici di riproduzione che ne travisano il senso. La Bellezza è l’esperienza dello stupore che poi svanisce. Non è di nostro dominio per quanto cerchiamo di riprodurla. Ciò che si può riprodurre è il processo ma non l’esito. Che apparirà inaspettato e, perciò, ‘stupefacente’, così come la Bellezza è.
E pure la natura, con la sua Bellezza, ci illude attraverso i suoi ritorni. Così che noi cerchiamo, utilizzando i puntelli della ritualità, di fermarla: “San Sebastiano, con la viola in mano”. “San Benedetto, la rondine sotto il tetto”.
Ma dal punto di vista della irreversibilità del tempo, non è così. E nemmeno dal punto di vista sostanziale. Le perdite apparterranno ad una mia esperienza, sono mie e soltanto mie. E solo io ci posso fare i conti. Così, le lucciole di maggio… anche se tornassero non tornerò più io, non sarò più quella là, ma un’altra, una Rinco[…], o una intellò, o un flata vocis, chi lo sa.
Eccoci ancora alle rondini. Già.
Ebbene sì. Un tempo c’erano le rondini a fare cagnara nei cieli. Ora a garrire in alto, ora a garrulare in basso a seconda della presenza o assenza di moscerini, appetibili prede e i cui spostamenti erano dettati dalle variazioni meteorologiche.
Nonostante la bellezza delle loro forme, sono passeracei molto aggressivi. Ne ebbi esperienza quando una di esse, scontrandosi in aria con una sua pari, si avvitò e cadde nel cortile di casa. Impossibilitata a rialzarsi in volo, cercai di aiutarla ma ne ricevetti come ricompensa delle profonde ferite di becco (un rostro adunco che non mi sarei mai aspettata) e di unghiate. Il tutto accompagnato da uno sguardo torvo che mi rimase impresso: per la povera bestiola io non ero altro che un aggressore, né più né meno del suo simile con il quale si era scontrata. Inutile aggiungere che io, ancora piccola allora, ne captai soltanto l’ingiusta aggressività a mio danno.
Ora il lettore si chiederà perché l’ho tirato per la giacca in questo lungo excursus nell’attesa di saperne di più (come diceva il buon Totò nella sua arguta macchietta di Pasquale: “macchè, mica so’ Pasquale, io”, e intanto si beccava i manrovesci destinati ad un fantomatico Pasquale), né dove voglio andare a finire.
E’ presto detto. Di quale strumento rappresentativo possiamo disporre per portare agli altri le nostre esperienze? Fotografare la realtà così com’è (fermo restando che anche il fotografo predilige una sua inquadratura) oppure imprimere alla realtà quello snaturamento soggettivo che apre a caleidoscopiche interpretazioni?
Mossa da questi interrogativi, sulla rivista Poliscritture, ero stata invogliata alla lettura del racconto di F.C. “Le rondini” e, successivamente, in seguito ai commenti, alla lettura del lavoro di E. G. “In taberna quando sumus”.
E sono rimasta molto stupita da una particolarità nella singolar tenzone intercorsa tra i due scrittori (si può utilizzare il maschile plurale oppure è d’obbligo il femminile? O, invece, secondo il nuovo ordine del politicamente corretto, devo specificare “scrittrice” e scrittore?).
Ma vengo alla particolarità, che è questa: ognuno dei contendenti (o delle contenditrici) utilizza una sola arma: la convinzione che quella (la propria) e solo quella sia la giusta interpretazione, ovvero assumere la posizione del “ditino alzato”, vale a dire “io so”. Eppure anche nei tornei medievali venivano utilizzate più armi, espressioni di svariate competenze sia artigiane che di scuola strategica. Ciò serviva non solo per testare la poliedrica abilità del contendente al fine di proclamarlo vincitore, ma anche per acquisire nuove informazioni legate alle complessità (umane, tecniche, politiche) presenti in quegli scontri.
Un’altra cosa che mi aveva colpito riguardava il fatto che sia F.C. che E.G., nei commenti ai loro lavori (interrogati su ciò che poteva averli stimolati alla loro produzione e relativa pubblicazione), richiamavano in causa lutti e perdite. Per F.C., la perdita del caro amico A. Ėderle. Per E.G. il lutto dei suoi genitori. Rimembranze che poi ognuno avrebbe trattato a modo suo.
Vediamo infatti (o almeno così io lo colgo) contrapporsi (in senso figurato, si intende) due modelli: la rappresentazione come ripetizione, anche dettagliata, della realtà e la rappresentazione come apertura all’enigma emotivo. Mi perdonino gli esperti, ma è come mettere a confronto l’impressionismo e l’espressionismo nell’arte figurativa. Nel primo caso posso bearmi della raffinatezza della rappresentazione mentre nel secondo lo scossone emotivo subìto non è irrilevante.
Certo. Mi può commuovere il trascolorare della luce nelle ninfee di C. Monet nel mentre posso prendere atto della fallacia del desiderio di fermare puntualmente il tempo, quasi a volerlo possedere per un attimo. Ma poi mi devo fermare lì.
Mentre nell’espressionismo, il tumulto emotivo originato da una scena sembra espandersi come i cerchi nell’acqua di uno stagno.
Non posso dire quale sia meglio o peggio, così come accade quando consideriamo i vari punti di vista, ognuno dei quali ha il diritto di esistenza. E il lettore ha diritto di scegliere la opzione che a lui è più congeniale senza appiccicarci una etichetta di valorialità.
Così, a mio parere, mentre il racconto “Le rondini” sembra essere permeato da sentimenti positivi (“buonisti”?) volti a sanare contraddizioni (apparentemente) insanabili (come la natura aggressiva del compagno o come quella fra suocera e nuora), il focus del racconto di E.G. è incentrato sul mistero, quasi fosse una rappresentazione onirica.
Ma veniamo ai testi.
Le rondini
L’impatto con il racconto “Le rondini” non mi ha suscitato quelle evocazioni che dal titolo mi attendevo. Mi sono trovata di fronte ad una specie di cronaca che si svolge pianamente, senza pretese di sollecitare passioni e perciò didascalica, per certi aspetti ‘elementare’, nel senso che vengono colti gli elementi essenziali per essere usati secondo una vulgata comunemente condivisa, il cosiddetto “luogo comune”. D’altronde lo stesso F.C. scrive “Sono uno scrittore che si è sempre ispirato a tematiche esistenziali, che interessano la gente, cresciuto col popolo e che al popolo si rivolge”. Senza dubbio rappresenta un suo personale taglio prospettico della realtà e di ciò gliene va dato merito. Anche i quadri naif hanno una loro inquietante presa, perché si viene catturati da una particolare concretezza che però ci fa perdere la magia di un sentire che si allarga. Forse per questo, il racconto in questione scorre senza sobbalzi quasi un tentativo, ipotizzo, di non voler addentrarsi nei conflitti legati ai cambiamenti (“Il tempo vola, senza che uno se ne accorga. Non riesco a ricordare quando è stata l’ultima volta che l’ho visto…”, scrive riferendosi all’amico che scopre essersi sposato); la bellezza della donna non sollecita in lui pulsioni inquietanti (sarebbe pur sempre la moglie del suo amico) ma lei si trasforma, romanticamente, in una pulzella da proteggere da un uomo violento e da una suocera dominatrice. Il narratore infatti puntualizza (ancor prima di venire a conoscenza della infelice storia matrimoniale della donna): “In cuor suo si sentiva contento di avere ammirato le rondini, di avere guardato una bella ragazza negli occhi e di averle stretto la mano con piacere. Piccole gioie della vita, innocenti e gratuite.” Tutto nell’ordine della pudicizia.
A differenza di quanto sostiene Cristiana Fischer – la quale trova “falso” il racconto di F. C. in quanto “personaggi come quelli non esistono in realtà” – ritengo invece che i personaggi, proprio perché ‘personaggi’, esistono nella realtà delle nostre proiezioni, emozioni che trasferiamo all’esterno facendole indossare da qualcuno. Così come operiamo quotidianamente, senza averne contezza, sia su persone che su cose.
In un suo commento, F. C. aveva parlato di un lutto che lo aveva molto toccato e che riguardava il poeta A. Ėderle: far parte di un mondo letterario al quale il suo amico dava il suo contributo, gli era sembrato forse un modo per sentirne meno la mancanza?
Si corre però il rischio di negare le perdite e i conflitti ad esse legati: se mi identifico con l’oggetto perduto è come se non l’avessi perduto. Se le rondini tornano sarebbe come se non fossero mai partite?
Osterie
Di tutt’altra fattura il racconto di E. G. che ci introduce subito, in modo quasi plastico, nel tema della morte quando parla del laghetto (“Tutto molto morto”). Altrettando plasticamente, entriamo in contatto con i fantasmi che popolano quella osteria e i cui nomi risuonano in modo onomatopeico (“Arri”, il grido che viene fatto all’asino per farlo avanzare; “Ghiddeon”, che richiama saghe nordiche), oppure figure oniroidi con tratti polimorfi (il Tricheco). Fantasmi che “non hanno tempo per mangiare” (in quanto senza corporeità?). Come in un film espressionista si dilatano storie del passato, stranianti nei dialoghi dove ognuno sembra il narratore di qualcun altro (principalmente di quel Nicco silenzioso che volge le spalle al gruppo).
Un mondo di rappresentazioni, pirandelliano, in cui i ruoli sono funzionali ad esprimere una mancanza di senso, che fa fronte ad una perdita essenziale: la perdita delle origini. E’ quella che ci sgomenta. Quel là dove tracciare il nostro sentiero (il “sentiero ben tenuto” che E.G. cita – sempre in un suo commento – parlando dei figli) non attiene soltanto alla memoria ma anche alla nostra responsabilità, ovvero farci carico di un progetto che ci traghetti oltre il pantanoso luogo.
In questo racconto, le storie sono “terragne” e a ciò si accompagna la torbidità stomachevole della zuppa di rane. Storie tremende intrise di fango e polvere mentre ci sarebbe bisogno, per tornare alla vita, di racconti che presentino non soltanto la nuda realtà (“così stavano le cose”), ma anche delle ‘circostanze’, e cioè dei legami (“yo soy yo y mi circunstancia” come diceva il filosofo José Ortega y Gasset). Perché sono i legami a dare quei sapori intrisi di emozioni, quella “certa luce, una circolazione indisturbata, una linfa” che permette allo sguardo di allargarsi.
Ma il ricordo del lutto dei suoi genitori pervade ancora la scrittrice (che in un suo commento richiama il senso di quella perdita, di quei “racconti che si perdono e svaniscono, il rimpianto per non esserseli fatti raccontare ancora una volta per bene”. E aggiunge “Per me invece i morti sono persi per sempre e i conti sempre sospesi”), così da far trasferire la inanità patita in questa cupa narrazione. Anche se il protagonista cerca di chiamare a testimone la sua bisnonna per affrontare la inquietante zuppa di rane, irrimediabilmente dovrà confrontarsi con la sua solitudine: “Vide suo padre a un tavolo più lontano. Stava facendo le parole crociate e non sollevò la testa.”
*Golem: Vedere su Wikipedia
Conegliano, 25.04.2021
Dopo sei sette anni di rigogliosa beatitudine il mio rinco se n’è andato, ovverosia è avvizzito e poi seccato. Così, senza apparente causa se non forse la mancata annaffiatura invernale, peraltro da anni poco o nulla praticata senza apparenti conseguenze… così ho proseguito la lettura di questo strano racconto di sommessa meditazione, affascinante vuoi per eleganza di scrittura vuoi per pregnanza di pensiero, e infine mi sono felicitato con me stesso per non avere, una volta tanto, sprecato il mio tempo lungo i sentieri della fiorente ma troppo spesso insipida letteratura digitale.
Gent. Rita Simonitto, la ringrazio per il suo interessamento in merito al mio racconto e per le considerazioni che ha espresso con onestà intellettuale.
Voglio tuttavia esprimere il mio disssenso dal fatto che si possano mettere a confronto due racconti tanto lontani e diversi sul piano dei contenuti e su quello formale. Sono due realtà distinte che vanno indagate nella loro specificità. Lei li ha paragonati a un quadro impressionista e a uno espressionista. Ben detto! Ma appunto per questo non si possono mettere a confronto, perché ciascuno andrebbe indagato nell’ambito della propria corrente e del proprio stile. Si può esprimere una preferenza sulla base di un gusto personale, ma non di comparazione.
Comunque, ho già avuto modo di scrivere che ‘Le rondini’ è solo un breve e modesto racconto. Questo non già per falsa modestia, ma per una consapevole autocritica.
‘Breve’, perché lo è rispetto ad altri racconti più complessi ed articolati; ‘modesto’ per il contenuto, perché la trama è solo un semplice supporto alla mia intenzione di focalizzare l’attenzione del lettore sulle rondini. Infatti, i due punti focali del racconto sono all’inizio e alla fine, ed Edoardo (il protagonista) non può compromettersi con la moglie dell’amico Nanni perché la sua funzione, nel racconto, è solo quella di testimone delle rondini.
Mi sono meravigliato che questo racconto abbia sollevato tanto polverone sul piano ideologico. Ennio Abate l’ha perfino definito ‘cattolico’, mettendo la ciliegina sulla torta; a questo punto non ho potuto fare altro che spararla ancora più grossa, affermando che è di ispirazione ‘universale’! Ridiamocela… Spero proprio di non doverne parlare ancora.
Mi ha pesato di più la polemica, dentro la quale sono stato tirato per i capelli, in relazione al blog ‘Dalla mia tazza di tè; nel quale racconti recenti di Poliscritture sono stati definiti come ‘vergognosi’: aggettivo malevolo, gratuito e volgare. Un giudizio legato a un’evidente avversione contro i valori positivi espressi in questi racconti, finalizzato a negarli, in un’ottica di distruttività.
Questa polemica mi ha lasciato tanto amaro in bocca, come capita quando si beve un tè avariato.
Ma torno a lei, gentile Rita; ho apprezzato molto le sue personali riflessioni sui fiori; le ho trovate spontanee e assai significative. Spero di leggere presto qualche suo racconto, che esprima gli stessi valori.
Con sincera amicizia e stima.
Molto ricco e con un andamento sinuoso, da fiume tranquillo, questo racconto- divagazione di Rita Simonitto. Avendo seguito in questi anni la sua ricerca narrativa e poetica, che spesso ha depositato i suoi risultati anche su Poliscritture, mi è facile ritrovare temi esistenziali, estetici e mitici che già conosco.
Ad esempio, ci ritrovo:
– molta nostalgia per un suo «mondo intriso di romanticismo»;
– un estetismo intenso («In quel momento vorrei annegarmi in quella chioma, immemore di tutto!») anche consolatorio («esteticamente, trasmette un certo effetto di trionfo, quasi a mistificare la paura della fine incipiente») e sempre attratto dalla Bellezza («E mi tormenta, di converso, il mio essere maldestramente tentata da un desiderio disperante di riprendere contatto con la Bellezza (il faustiano “fermati, sei bello”) di cui oggi nessuno si occupa più, perché essa Bellezza viene pilotata dall’esterno»);
– un amore fiducioso per la letteratura che si è potuto annidare e consolidare già nel vigore dell’immaginazione infantile («Ma io, invece di spaventarmi, mi immaginavo in viaggio, sulla scia dei racconti deamicisiani, in mezzo a quella tormenta per andare alla ricerca di mio padre»).
Più discutibile (ma in parte giustificabile con l’ abbandono che ha subìto il pensiero di Marx e l’imporsi della Nietzsche-Renaissance, di cui abbiamo parlato di recente (qui: https://www.poliscritture.it/2021/04/10/nietzsche-come-fondamento-della-metapolitica/), trovo – ma ne avevo parlato a proposito della sua raccolta di poesie, «Per ordine di verso» (https://www.poliscritture.it/2020/06/12/su-per-ordine-di-verso-di-rita-simonitto/) – il forte ridimensionamento della sua visione storica (e marxista) a favore di una mitica (« Mi si dirà: “è il capitalismo, bellezza” o “la pandemia determina ogni scelta”! No, non si tratta solo di questo. E’ subentrato qualcosa di altro. Sono morti causate, prodotte dalla (o nella) indifferenza generale: la individualità è scomparsa e un nuovo Golem (“la massa ancora priva di forma”) ha preso il sopravvento»).
Ho trovato invece grande intensità nella sua meditazione sul nesso vita/morte o su quello declino / vitalità aggressiva. Che sono stati tematizzati nel contrasto i tra due simboli dell’acero e del gelsomino (« l’acero tutto si avvia verso il sonno invernale mentre nel caso specifico del Gelsomino, quando mi avvicino, vedo che le foglie sfacciatamente rosse succhiano ancora linfa dalla pianta che, forse, crescerà a rilento a discapito della nuova vegetazione…»).
Altrettanto forte è la drammatizzazione del sentirsi morire e di voler vivere («C’è poco da fare! Capisco. Sono viziata dalla poca benevolenza verso la mia carcassa che lentamente si spolpa (nel senso che perde polpa e muscoli) e perciò, per tirarmi fuori dal mortifero pantano che via via mi risucchia, cerco di far leva sulla mente, sul pensiero (fantastico o ragionato che sia): però non faccio che ripetere, né più né meno, quello che aveva fatto il Barone di Mȕnchhausen che si tirò fuori dalla palude aggrappandosi alla sua treccia di capelli!»).
Il dramma sembra placarsie nell’accettazione del sentimento del perduto, del limite, della finitudine («Però allora non sarebbe più vivere per vivere, accettando di fare esperienza di tutto ciò che la vita ci presenta, ma diventerebbe un vivere per non morire, evitare di confrontarsi con le perdite, i fallimenti e, soprattutto, con la nostra finitudine. Ma anche non voler fare i conti con i morti, con quello che abbiamo perduto, interrogandoci su quale è stato il nostro ruolo in quelle relazioni»).
P.s.
Di fronte a temi esistenziali così vasti l’analisi del confronto che Rita ha voluto fare tra i due racconti – «Le rondini» di Casati e «“In taberna quando sumus”» di Grammann – mi pare si sia mantenuta su un piano strettamente psicologico. Rita ha mirato all’ elemento in comune dei due racconti: il sentimento doloroso da cui sono o sarebbero scaturiti: « sia F.C. che E.G., nei commenti ai loro lavori (interrogati su ciò che poteva averli stimolati alla loro produzione e relativa pubblicazione), richiamavano in causa lutti e perdite».
Ha evitato – mi pare – il terreno letterario e sfiorato appena quello ideologico, dove più acuti si sono manifestati i dissensi tra noi che abbiamo partecipato alla discussione (https://www.poliscritture.it/2021/04/01/su-le-rondini-e-la-polemica-casati-grammann/).
Forse una saggia e distaccata scelta di equidistanza? Così mi pare di capire, leggendo questa frase: «Non posso dire quale sia meglio o peggio, così come accade quando consideriamo i vari punti di vista, ognuno dei quali ha il diritto di esistenza. E il lettore ha diritto di scegliere la opzione che a lui è più congeniale senza appiccicarci una etichetta di valorialità.».
Intanto un grazie a tutti per i commenti. Sono contributi utili che mi danno la possibilità di salvaguardare e allargare (come giustamente sottolineava Elena) “un sempre più salvifico uso del software”, vale a dire la mente, il pensiero.
Parto da quello più complesso di Ennio (che ringrazio, come ringrazio Elena, Franco e Vic e chiedo venia se chiamo tutti confidenzialmente per nome). Il suo percorso a ritroso (dato che ci conosciamo da quel mo’) va a toccare quelle passioni che per me furono fondamentali nel mio percorso personale (verso le quali mi sento debitrice) e che hanno come denominatore comune “temi esistenziali, estetici e mitici”.
Quella che io oggi definisco ”pulsione verso la conoscenza” inizialmente aveva una funzione difensiva (inconscia) per cercare di gestire al meglio le difficoltà e le carenze che pativo, investendo così la conoscenza stessa di un potere quasi taumaturgico. Poi ho scoperto la trappola: più sai e più si allarga il campo del non sapere. Ma non vorrei attivare questi passaggi mescolandoli con quell’alone di nostalgia che Ennio sembra paventare (“molta nostalgia per un suo «mondo intriso di romanticismo»; oppure “un amore fiducioso per la letteratura che si è potuto annidare e consolidare già nel vigore dell’immaginazione infantile”).
No. Niente di tutto questo. Nessuna ombra di Romanticismo (che, peraltro tende alla ricerca dei valori assoluti, degli ideali più alti, modelli dai quali mi sono sentita e mi sento molto lontana). Non vorrei però cadere dalla padella alla brace e sentirmi accusare di Nihilismo.
Stesso discorso vale per il mio intendimento riguardo alla Bellezza che non ha nulla di ‘estetizzante’ bensì quello del ‘fascinans et tremendum’, ovvero l’esperienza di un conflitto: la percezione della Bellezza e la consapevolezza del non poterla possedere ma solo goderne e tutelarla. Non a caso cito il Faust del “fermati, attimo, sei bello”. Quando J. W. Goethe porta il vecchio e cieco Faust nel momento drammatico in cui confonde il frastuono prodotto dai becchini che gli scavano fossa, con quello di lavoratori cooperanti nella costruzione di una diga atta a proteggere il territorio dagli allagamenti, l’agnizione della bellezza di quella laboriosità lo porterebbe a esclamare: “All’attimo direi/sei così bello, fermati”. E pertanto perde nel patto scellerato con Mefistofele. Sarebbe da meditare a fronte della Bellezza degli ideali e il loro confronto con il reale.
Perciò, raccontando delle mie esperienze pregresse, non voglio fare come quei vecchietti che si aggrappano ai ricordi (magari edulcorati) per continuare a tenere loro stessi in vita (come accade al Rinco?), bensì mettere a disposizione quella che è stata una mia storia, attivando delle curiosità (su eventi, su testi, su film) perché solo così, attraverso questo ‘viatico’, si possono passare le consegne e andarsene. Pare che oggi nessuno riesca a fare il lavoro del lutto. Sarà forse per questo motivo (l’inquietante interrogativo che ci si pone rispetto alla fine), che il mio pensiero si è ‘attivato’ a fronte di quanto Elena e Franco avevano ‘buttato là’ nei loro commenti, quasi fosse un aspetto cui dare poco rilievo.
E anche per questo motivo, nel mio racconto, non volevo rappresentare, come scrive Ennio, un “dramma [che] sembra placarsi nell’accettazione del sentimento del perduto, del limite, della finitudine”. Mi sembra che “il dramma” non stia soltanto nel ‘dato’ in sé, bensì in quanto noi investiamo su quel dato con tutto ciò che ne consegue quando lo dobbiamo perdere o trasformare.
Analogamente, entrando nella dimensione storico/politica (giustamente cara ad Ennio), non si tratta di un “forte ridimensionamento della visione storica (e marxista) a favore di una mitica”, né, tantomeno, di un fantomatico ‘salto della quaglia’ passando da “l’abbandono che ha subìto il pensiero di Marx [all’] imporsi della Nietzsche-Renaissance, di cui abbiamo parlato di recente”.
Specifico che non può esserci ‘sostituzione’ storica’ con una ‘mitica’. Si tratta di due ambiti diversi. La storia rappresenta una serie di eventi, di ‘dati’, anche se suscettibili di interpretazioni, mentre il mito appartiene a quella ‘arcaica’ funzione della mente che ha imparato, in modo più o meno maldestro (ai nostri occhi), ad accedere alla istanza interpretativa dei fatti (di origine interiore o esteriore che fossero).
Il “mito” è uno strumento, una funzione orientata verso un tentativo di rappresentazione del reale.
Per questo, nei miei commenti ai lavori di Franco ed Elena, non sono stata motivata da una spinta ‘politica’ (?) a operare “una saggia e distaccata scelta di equidistanza”, bensì dal mettere sul tavolo due diverse modalità di affrontare le perdite. E non c’è una Legge che stabilisca quale sia la migliore ma ognuno sceglierà la sua, quella che gli è, al momento, più congeniale. Poi, se quella scelta risulterà foriera di successo o, invece, di ulteriore sofferenza… o si negherà la sofferenza oppure si cercherà di cambiare. E nemmeno ritengo opportuno, al momento attuale così cambiato nei paradigmi rispetto a quelli conosciuti un tempo, lanciarmi in dispute ideologiche, dato atto che la ideologia nasce come ipostatizzazione di un pensiero, di una teoria sulla realtà. E oggi non vediamo nulla di tutto questo: nessun lavoro che indaghi su questo presente. Quindi gli scontri ideologici mi sembrano non solo inutili ma anche pericolosi in quanto tendono ad attivare solo ‘partigianerie’.
Mai come in questo periodo di pandemia e della conclamata ricerca della immunità di gregge ho sentito la dolorosa importanza di riuscire a sostenere la mia ‘immunità dal gregge’.
@ Vic Detassis
Mi condolgo con lei per la perdita del suo rinco. Le piante, pur appartenendo ad una realtà a noi esterna, sono portatrici delle nostre proiezioni ragion per cui, quando inopinatamente se ne vanno, si portano via una parte dei nostri investimenti emotivi. Di cui noi stessi, molte volte, non siamo consapevoli.
Grazie per il lusinghiero apprezzamento.
@ Franco Casati
“Sono due realtà distinte che vanno indagate nella loro specificità. Lei li ha paragonati a un quadro impressionista e a uno espressionista. Ben detto! Ma appunto per questo non si possono mettere a confronto, perché ciascuno andrebbe indagato nell’ambito della propria corrente e del proprio stile. Si può esprimere una preferenza sulla base di un gusto personale, ma non di comparazione”.
Proprio a fronte di quanto detto sopra non ho inteso mettere a confronto (valoriale?) due modelli rappresentativi. Ognuno configura (= dà figura) ad una realtà sulla base dei propri input interni i quali hanno in ogni caso diritto di cittadinanza.
Grazie comunque per la sua amicizia e stima.
@ Elena Grammann (di cui non vedo più il commento qui ma per fortuna l’avevo copiato)
E’ vero che, nella frenesia, nella rotazione spasmodica dei racconti sul Web possa stupire che qualche cosa di significativo abbia potuto catturare l’attenzione del lettore e che quindi questa venga ripresa e ritorni in circolo. A volte ci sono sollecitazioni che, attraverso alchimie strane, si legano, estensivamente e intensivamente, a storie, vissuti per cui a partire da un piccolo particolare si crea l’effetto proustiano della Madeleine.
Grazie, nel suo commento, per avermi richiamato il concetto di “anagogia” che, in effetti, si presta molto bene alla modalità narrativa che contemplava il Rincospermum.
Sono d’accordo con lei a fronte delle perplessità (molte volte dolorose) riguardo al conflitto fra il “lasciar scorrere” e il “trattenere”. La scelta del “lasciar andare” è un passaggio difficile ma il rispetto dell’altro sarà ciò che ci aiuterà a sopportarla.
RECUPERO COMMENTO DI ELENA GRAMMANN CANCELLATO PER SBAGLIO [E. A.]
Elena Grammann
1 Maggio 2021 alle 10:31 Modifica
Gent. Rita Simonitto,
mi ha fatto piacere – e anche un po’ sorpreso – vedere che il mio racconto entra di nuovo, seppur marginalmente, nel discorso collettivo.
In un’epoca in cui le nuove uscite in libreria attirano l’attenzione per circa due settimane e i racconti sul web forse due giorni, mi felicito di questa inattesa ricomparsa. Tanto più quando è inserita in un discorso veramente ampio – ampio per portata esistenziale e per profondità storica – qual è il suo.
Ho trovato ammirevole la sua “botanica morale”. La lettura anagogica e, direi, dialettica che lei fa del giardino dà spessore e colore al dilemma, sensibile soprattutto a noi un po’ avanti negli anni, fra un impossibile trattenere (con l’immancabile corteo dei “e se… e se… e se…”), e un lasciar andare, lasciar scorrere. Un lasciar scorrere che viene spontaneo e naturale fin che si è giovani, ma che poi, quando, per parafrasare un noto luogo, breve la speme e lungo ha la memoria il corso, difficilmente si dissocia da un sentimento di ansia, come se “lasciando scorrere” si finisse necessariamente per affacciarsi sulla solitudine e sull’ignoto.
Mi dico che è necessario e possibile combattere questo genere di timori, che non sono diversi dai mostri sconfitti dagli eroi. Il mio obiettivo (ambizioso e forse irrealizzabile) sarebbe trattenere e lasciar scorrere, entrambe le cose con uguale serenità. Ma se proprio devo scegliere, allora lasciar scorrere. Trattenere, per quanto apparentemente “bello”, ha in sé, come lei nota, qualcosa di mortifero.
La ringrazio nuovamente di avere “inserito” la mia narrazione nella sua, ben più vasta e complessa, e incrocio le dita, per tutti noi, sia per l’hardware che per un sempre più salvifico uso del software.