è il giorno dopo l’assassinio di carlo casalegno, vicedirettore de “la stampa” a torino, per mano delle brigate rosse. “la repubblica” manda giampaolo pansa, che scriverà, il 18 novembre 1977, un pezzo dal titolo “ai cancelli di mirafiori”: «Le mie domande saranno quasi sempre le stesse. Ha letto dell’attentato al vicedirettore de “La Stampa”? Farà lo sciopero di un’ora proclamato dai sindacati? Che cosa pensa di quel che è accaduto? Non chiedo nomi. Qualcuno mi guarda con sospetto: “Tu, chi sei?” Ma il taccuino non frena le risposte. Ed ecco, per quello che valgono, i miei appunti. “Lo sciopero? Perché non abbiamo fatto anche lo sciopero contro l’aumento di stipendio dei deputati?” […] “Casalegno? I suoi articoli li ho letti, molte volte non ero d’accordo, ma io lo sciopero lo farò, deve servire perché episodi di questo tipo non si ripetano”. “Rossi o neri, io lo sciopero non lo faccio. Ammazzano i borghesi e dobbiamo scioperare, mentre se ammazzano i compagni no! No, non lo faccio: scrivi che sono un crumiro”. “È giusto che lo sciopero si faccia. Ma quando succede qualcosa a un operaio, quella gente lì, dei giornali, non fa neanche un minuto di sciopero”. Uno mi chiede: “Ehi, giornalista, se mi ammazzano me, tu lo fai lo sciopero?” […l “Scrivi: uno, cento, mille Casalegno. A me mi vanno bene!”»
questo era lo stato delle cose. la crudezza operaia non si stemperava di fronte l’omicidio a freddo di un “borghese” – qualcuno, certo si opponeva; qualcuno plaudiva; i più erano indifferenti. lo stesso atteggiamento, ancora più amplificato e dall’eclatanza dell’evento e dalla sua durata, accadde durante il caso moro. dire che le cose non siano andate così, costruire una “retorica” dell’unità nazionale, popolare contro il terrorismo è anti-storico e fragile. la realtà è che a parte i “tifosi” delle brigate rosse, relativamente pochi, e a parte lo schieramento istituzionale (dei partiti, dei sindacati, dei mass-media, di tutte le “forme” costituzionali) molto più largo e potente, la maggior parte degli italiani era – se non politicamente proprio identificato con lo slogan – “né con lo stato né con le br”. se ne fottevano, insomma.
io credo stesse e stia in questo atteggiamento un carattere costitutivo di questo popolo, privatissimo per lo più, ovvero attento ai propri czzi, e disposto a qualunque compromesso e a qualunque illegalità per perseguire i propri personalissimi czzi, e diffidente se non ostile delle élite e dello stato. credo che questo atteggiamento possa spiegare il lungo ventennio fascista come i lunghi secoli di dominazioni straniere – interrotti solo per caso dal congiungersi di eventi, per lo più “esteri”, non sempre fortunati peraltro (la rivoluzione napoletana del 1799 anch’essa un congiungersi di eventi “esteri” non fu fortunata, a esempio).
se c’è stato un “miracolo” in questo paese, non è quello del boom economico degli anni cinquanta e sessanta, ma della “partecipazione pubblica” che dalla fine del fascismo fino a tutti gli anni settanta attraversò questo paese. una cosa, questa della partecipazione alla vita collettiva che potrei definire contro-natura per gli italiani. di certo, non era stato un movimento di popolo il risorgimento, e di certo non fu un movimento di popolo la resistenza.
invece, i movimenti degli anni settanta furono una “cosa di popolo”. io non credo che il terrorismo sia stata la causa determinante della fine di quella cosa di popolo, che finì di suo, in parte perché aveva ottenuto profonde trasformazioni e in parte perché non si riusciva proprio a intravedere un passaggio, una evoluzione. il numero esorbitante dei partecipanti alla lotta armata, in migliaia, in decine di migliaia, è comunque una scheggia di quella cosa di popolo che si contava in milioni. la scelta delle armi fu una scelta militante – come la traiettoria di un percorso che sembrava contenere una sua coerenza, e forse “teoricamente” l’aveva pure, ma che restò “privatissima”.
dirò, per spiegarmi (spero). se domattina – dio non voglia – un bazooka colpisse l’auto blindata del signor draghi e dopodomani si andasse a intervistare le persone nelle piazze dei quartieri popolari, a microfoni e videocamere spente, e solo con un taccuino, la reazione della “gente” sarebbe identica a quella davanti ai cancelli di mirafiori del novembre 1977. e qualcuno direbbe: «draghi? uno, cento, mille, a me mi vanno bene!»
da questo punto di vista, il “fenomeno politico” del terrorismo non ha cambiato nulla di questo paese. non ne ha cambiato proprio per niente l’antropologia. o quella che i più dotti definiscono “la costituzione materiale”. e da questo punto di vista, esso è stato solo una breve parentesi, breve ma zeppa di lutti e dolori da tutte le parti. e non l’ha cambiato non perché sia stato sconfitto – anche perché, francamente, non riusciamo a immaginare quale altra soluzione ci sarebbe potuta essere – ma perché non era e non divenne “cosa di popolo”.
da questo punto di vista esibire i cadaveri di quella sconfitta – come è stato per gli arrestati di parigi – ha un che di macabro. come dovesse restituire agli attuali esercenti del potere una “ragione fondativa”. o anche una “ragione di popolo”. io non vorrei deluderli – ma il popolo se ne fotte.
e confesso di dire questo con estremo dolore.
Il carattere degli italiani: segnaposto per ‘non ci ho capito nulla ma parlo lo stesso’;
mi era piaciuto di più uno scritto precedente sul New York Times che cominciava “la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa”