di Elena Grammann
Se c’è qualcosa di Hegel e di quelli che lo hanno messo in piedi che mi è passato nella carne e nel sangue, è l’ascesi contro l’affermazione immediata del positivo. (Th.W.Adorno)
Credo che possiamo essere tutti d’accordo sul fatto che la letteratura ha qualcosa a che fare con la verità. Naturalmente non al modo del concetto, che desume dai fenomeni elementi simili o costanti e li raggruppa, li organizza, crea sistemi di comprensione formali, cioè adattabili a vasti insiemi di fenomeni individuali, e sovrapponibili a questi come griglie. Ma distinti: i concetti ci aiutano a capire i fenomeni ma non sono fenomeni. Con i concetti lavorano la filosofia e, in generale, la saggistica. Beninteso sia la saggistica che la filosofia potranno riferirsi a fenomeni singoli o prenderli ad esempio, ma il punto non sono questi bensì il concetto.
La letteratura lavora invece con i fenomeni singoli e gli individui. Naturalmente potrà servirsi di concetti, e anzi è inevitabile che lo faccia, poiché il suo mezzo sono le parole; ma il punto non è il concetto. La letteratura – e mi riferisco in particolare all’epica e alla narrativa – parla di individui singoli che hanno fatto questo o quello, ai quali è capitato questo o quello, in punti individuati del tempo e dello spazio. Ma, si obietterà, la narrativa inventa; è vero che parla di individui e situazioni singole, ma sono inventate – è quello che si dice la finzione letteraria. In che senso possiamo parlare di verità? Voglio dire: se qualcuno mi dice che il mio vicino di casa signor Rossi è uscito alle due per andare a prendere il caffè al bar, l’affermazione sarà vera o falsa a seconda che le cose siano o non siano andate proprio così. Ma come si fa a parlare di verità o di falsità in una storia di invenzione, in cui manca la possibilità di raffronto con la realtà?
D’altra parte, gli andirivieni del mio vicino di casa, con relativa certificazione di verità o falsità, potranno essere interessanti qualora, ad esempio, egli sia la vittima o l’autore di un crimine – cioè qualora diventino cronaca; ma al di fuori di questa eventualità rivestono scarso interesse. Lo scopo della finzione letteraria è invece di essere interessante. Un fatto reale – uno delle migliaia di fatti reali che accadono a noi nel corso dell’esistenza, o ci accadono attorno in tempo reale – raramente è interessante; più spesso, o quasi sempre, è banale o insignificante, o troppo lontano per toccarci davvero; una storia di finzione invece deve essere interessante, è pensata per essere interessate; ma, paradossalmente, pur essendo inventata, è interessante soltanto nella misura in cui manifesta una verità. La finzione le serve per concentrare ciò che nella realtà è diluito, disperso, poco visibile, trascurato dalle incombenze del vivere, e farne emergere la possibile verità. La parte di invenzione vera e propria può anche essere minima: l’importante è la concentrazione e organizzazione dei fatti in vista della manifestazione di una possibile verità delle cose. Una biografia non è (o non dovrebbe essere) un’opera di finzione; un romanzo autobiografico sì – perché la prima tende a una fedeltà ai fatti e concentra e organizza il meno possibile, mentre il secondo proprio questo fa.
La letteratura sarebbe dunque il luogo in cui si manifesta una verità del fenomeno nel suo qui e ora. Nel presente, permette di riconoscerla; e anche quando il presente dei fenomeni sia trascorso, la letteratura ne conserva le verità e permette di accedervi anche a coloro che vengono dopo.
Quando la lettura di un romanzo o di un racconto ci lascia soddisfatti, quando abbiamo l’impressione che ci abbia “aumentati” – benché magari durante la lettura abbiamo incontrato difficoltà o anche ribellioni -, diciamo, usando un aggettivo molto di massima, che il racconto o il romanzo sono “belli”. Questo vuol dire che sono riusciti nel loro intento, che hanno fatto quello che si ripromettevano di fare – e, così facendo, hanno aumentato la nostra consapevolezza.
La verità del fenomeno in letteratura, e in generale nell’arte, assume per noi la forma della bellezza[1]. Questo non accade, per esempio, nel caso di un articolo scientifico. La bellezza è dunque l’aspetto proprio della verità nell’arte. Purtroppo questa contiguità e sostanziale identità di bello e vero nell’arte ha creato e continua a creare non pochi fraintendimenti.
Tanto per incominciare dalla parte del vero – dell’assolutizzazione del vero. Chi ha già convinzioni profonde sul vero – sul vero eterno o sul vero adesso, ad esempio i credenti delle varie religioni o ideologie – sarà portato a rifiutare a limine, e quindi considerare “brutto” e non riuscito, tutto ciò che, nella struttura o anche solo nel dettaglio, urti la sua verità concettualmente strutturata, senza nemmeno cercar di capire quale verità del fenomeno si cerchi di far trasparire attraverso strutture o dettagli “urtanti”. Con questo, ovviamente, non si vuol dire che un’opera, per essere vera e “bella”, debba essere necessariamente urtante, e nemmeno che “più è urtante, più è vero, dunque bello”; si vuole unicamente sottolineare come un’idea preconfezionata, strutturata e radicata di vero possa portare a fraintendere, o meglio a non capire affatto, lo specifico dell’arte.
Questo primo fraintendimento, per quanto increscioso, riguarda la ricezione, e soltanto una sua porzione limitata, dunque non ha probabilmente conseguenze rilevanti. Assai più grave è il secondo fraintendimento: quello dalla parte del “bello”, cioè di ciò che sarebbe proprio e adeguato al compito letterario o artistico in generale. Qui ci troviamo sul lato della produzione e le conseguenze sono di maggior peso.
Il problema si presenta quando il “bello” si rende autonomo dalla verità del fenomeno. Quando ciò si verifica, si ha, a un livello raffinato, l’estetismo, a un livello meno raffinato il kitsch. Entrambi nascono negli stessi anni, e, nonostante il disprezzo dell’esteta per il kitsch, la loro differenza non è qualitativa ma di gradi: l’estetismo, in fondo, è sempre un po’ kitsch, e il kitsch ha pretese estetiche. Sembrerebbe che stia parlando di cose vecchie, superate; a dire ‘kitsch’ viene in mente l’orologio a cucù, vengono in mente le buone cose di pessimo gusto (che naturalmente buone non sono); roba passata, fenomeni marginali. Eppure sul kitsch vale la pena di soffermarsi.
Il kitsch è la brutta copia di ciò che qualche tempo prima era considerato bello. La brutta copia perché, se si parla di oggetti, rispetto ai modelli è realizzato in materiali meno nobili, è di produzione industriale, è sfornato in grandi “tirature”. Ma a pensarci bene, e per andare oltre gli oggetti, è una brutta copia soprattutto perché riprende una forma già elaborata in passato, senza più preoccuparsi se sussista ancora una relazione di verità con i fenomeni presenti. Come dicevamo, separa la presunta “bella forma” dalla verità dei fenomeni. Il kitsch è il prodotto di una pigrizia mentale che è anche una pigrizia morale: per soddisfare il bisogno, abbastanza primario nell’uomo, del bello – bisogno che a un certo punto si è fatto di massa – si propone, e si accetta, il già-stato, il già-visto, quello che passa per bello, che ha ricevuto il timbro dell’apposito ufficio. E che naturalmente convoglia il suo contenuto di verità legato al fenomenico del passato, e dunque, quando lo si voglia riproporre così com’è, appare stantio, avariato, tossico. Però comodo, pratico, pronto: prêt à penser. Le cose di pessimo gusto non sono innocenti: sono profondamente colpevoli di connivenza con la menzogna.
Il problema del kitsch sarebbe dunque quello di una pigrizia intellettuale e morale che rifiuta l’oneroso lavoro di ricerca della verità del fenomeno, qui e ora, e ripiega su formule pre-disposte, pronte ad essere replicate in innumerevoli esemplari. Se ora a “kitsch” sostituiamo “retorica”, ci accorgeremo che il fenomeno non è affatto ottocentesco e superato, ma anzi molto attuale. Mai stato così attuale negli ultimi settant’anni. Affondiamo nella retorica come in una melassa paralizzante, le apparenti verità dei suoi proclami sembrano impossibili da rifiutare, eppure i proclami suonano falsi, non ci conducono attraverso nessuna ricerca ma scodellano risultati bell’e pronti per il consumo. Di quale retorica sto parlando? Quale retorica impera senza fatica, semplicemente mettendosi dalla parte “giusta”? E dispensa dalla riflessione e dalla discussione perché, una volta per tutte, ha scelto la parte “giusta”? È presto detto: la retorica del bene.
Ma non è meglio che prevalga una retorica del bene piuttosto che il suo contrario? Non avrà comunque, per quanto retorica, un effetto educativo?
Due cose:
- la retorica del bene non è il bene. Non è neanche, a dir la verità, una preoccupazione del bene. È un mettersi dalla parte di un bene – già un po’ scontato, un po’ kitsch – senza veramente indagarlo e accogliendone acriticamente gli assiomi, le propaggini, i corollari: il pacchetto completo. E un bene non è il bene – tant’è che una retorica del bene confessionale e una retorica del bene laica sono distinte e diverse. Per la retorica il punto infatti non è il bene, ma il previo già mettersi dalla parte di qualcosa che si ritiene e si dichiara essere “il bene”. Quanto all’effetto educativo, sarà, nel migliore dei casi, pervasivo, ma rimarrà superficiale e falso, perché poggiato su un discorso che non mira a indagare i fenomeni, ma a persuadere di una verità stabilita a priori.
- in questo articolo, il mio punto non è la retorica del bene in generale, ad esempio nel discorso pubblico o nel giornalismo, ma la retorica del bene e la letteratura, o – per parafrasare un noto titolo di Bataille – la letteratura e il bene.
Cosa si dovrebbe avere contro un romanzo o un racconto che fa emergere i “valori positivi”? Se ci riesce, proprio niente. Ma è molto difficile, se non impossibile. Lo stesso Manzoni ci parla mirabilmente dell’infanzia e adolescenza di Gertrude, della violenza imperdonabile e folle che le viene fatta. Ma quando conclude: “È una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsiasi congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa. [e via altre dieci righe di valori positivi]. È una strada così fatta che, da qualunque laberinto, da qualunque precipizio, l’uomo capiti ad essa, e vi faccia un buon passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar lietamente a un lieto fine. Con questo mezzo, Gertrude avrebbe potuto essere una monaca santa e contenta, comunque lo fosse divenuta.”, viene voglia di buttare il libro nella spazzatura – o almeno di chiedersi che razza di romanzo siano, questi Promessi Sposi che sono all’origine della nostra narrativa moderna. Ed è Manzoni. Figuriamoci quando i valori positivi li tirano fuori quelli che non sono Manzoni.
Immagino che la frase “viene voglia di buttare il libro nella spazzatura” possa suscitare un moto di ribellione, né voglio passare per una rappresentante del movimento Disrupt Texts. Cercherò di spiegare meglio. Sulla prosa di Manzoni, sulla sua lingua, che ha creato di sana pianta una possibilità narrativa per l’italiano moderno, sulla psicologia dei personaggi, sul lavoro sulla Storia, sulla narrazione, sulla trama perfino, sulla sua arte – niente da dire, né mi verrebbe mai in mente di toglierlo dal canone. Disturbano però, oltre alla cornice fideistica, le ripetute e dirette lodi e apologie della religione cristiana. Disturbano perché, come Manzoni non può non sapere, egli si sposta allora dal terreno della letteratura – che non vuole persuadere nessuno – a quello della retorica, nel senso dell’arte oratoria della persuasione. Perché, di nuovo, Manzoni non può non sapere che nel 1840 egli non può presupporre nel suo pubblico l’adesione alla fede cristiana. Nel 1840 il cristianesimo non è più il presupposto ovvio e tacito che poteva essere in Occidente grosso modo fino alla fine del XVI secolo. Quindi, in un certo senso, Manzoni lavora sporco: utilizza il prestigio letterario per fare proselitismo. Ma, mi si fa notare, la fede cristiana, che pervade e sostiene tutto il romanzo, non è poi così trionfalistica. Ennio Abate mi segnala una pagina di Zanzotto che individua i veri protagonisti in “peste, fame e guerra […] a cui va aggiunto il sopruso gestito mafiosamente”; e Zanzotto conclude: “Se è vero che nei Promessi Sposi esistono anche le «trame» o le «astuzie» della Provvidenza, la scommessa sulla loro efficacia è tanto più insistita, quasi del tipo di un pari pascaliano, quanto il caos realmente descritto deborda. Manzoni è dunque presente sempre e ci sta davanti come una specie di indicatore, talvolta quasi oscuramente beffardo, di paradossi e di enigmi che saranno sempre e dovunque reincombenti. Pochi come Manzoni hanno saputo inscenare quasi una eroica «ipocrisia positiva», e ciò sia detto senza mettere in dubbio l’autenticità della sua fede religiosa”[2]. Sono abbastanza d’accordo, e trovo corretto che qui, con riferimento al Bene, si parli di ipocrisia, seppur positiva ed eroica. A proposito della mia citazione dai Promessi Sposi, Ennio osserva anche che “l’affermazione di Manzoni su Gertrude è coerente con una visione cattolica, che trapela da tutto il romanzo”. Non so se è coerente con una visione cattolica. Per il bene del cattolicesimo vorrei sperare di no. Perché secondo me qui Manzoni, che deve pur salvare capra e cavoli, cioè la verità della storia e la sua propria volontà di teodicea, va perfino oltre il cattolicesimo e l’ipocrisia eroica la fa sulla pelle degli altri[3]. Qui egli afferma che il fatto che la libertà, la dignità, il diritto alla felicità, e alla fine la vita di una persona siano calpestati, non è poi così grave. Infatti basta che quella persona si affidi a Dio, e Dio, già in questo mondo, ci metterà una buona, una buonissima pezza[4]. Può darsi che questo sia cattolico. A me pare una follia della teodicea a tutti i costi. Ricordo che già alla prima lettura in quinta ginnasio, quando ero una brava ragazza cattolica ma non del tutto scema, mi era sembrato un pistolotto rivoltante.
DELL’INDICIBILITÀ DEI VALORI POSITIVI
Mantengo l’espressione “valori positivi”, benché la trovi ridondante e imprecisa, perché è quella generalmente usata dai fautori dei valori positivi. “Valori positivi” non è, né è mai stata, una categoria letteraria. Forse esistenziale. Può darsi che per vivere ci sia bisogno di valori positivi; almeno, a livello psicologico, di una certa spinta, di un interesse di massima. Può anche darsi che sia tutta una questione di serotonina. Comunque non ho niente contro i “valori positivi” nella vita – posto che nessuno voglia appiopparmi i suoi. I problemi sorgono quando li si vuole dire: quando si dicono, suonano falsi. Che sia un discorso elettorale, un sermone domenicale o una liturgia, li subiscono e se li sorbiscono, con maggiore o minore entusiasmo, gli adepti del rito in blocco; gli altri storcono il naso. E non necessariamente perché i valori non gli vadano bene; bensì perché c’è uno scollamento evidente, sospetto, fra la parola e la cosa, come se le parole non arrivassero veramente a toccare la cosa, o, toccandola, la falsificassero.
Nel rito collettivo, politico o religioso, si fa finta di niente. Far finta di niente fa parte del rito, cioè di una cosa che si ripete sempre uguale e dalla quale sarebbe fuori luogo aspettarsi attualizzazioni. Ma fuori dal rito, ad esempio in letteratura, il cui compito è la verità attuale e individuale del fenomeno? Lì l’affermazione del positivo ha generalmente un effetto che va dal ridicolo al patetico, dallo sprovveduto al tartufesco. Nel migliore dei casi, come per l’osservazione di Manzoni, si avrà l’impressione che stiamo uscendo dalla dimensione letteraria e che l’autore sta cercando di convincerci di qualcosa.
Perché accade questo? C’è nella letteratura qualcosa di malvagio che non tollera l’affermazione del bene? Certo che no; però la letteratura non può che occuparsi del suo bene, che è la verità del fenomeno individuale nel qui e ora. Ogni bene che, venendo da altro ambito – politico, religioso, morale – pianti le tende nel suo accampamento, è un intruso che la deforma: quando va bene in direzione della retorica, quando va male dritto in quella del kitsch.
Oltretutto, il Bene è una cosa particolare; ha uno statuto particolare. Si può desiderarlo, si può forse viverlo – in particolari stati di grazia; ma difficilmente lo si può dire. Nella normale conversazione è avvolto in un velo di pudore. Solo chi manca di tatto ne parla apertamente, con una certa volgarità, come di un personaggio importante di cui ha la fortuna di essere intimo.
Se ne parla in filosofia, come di un concetto. Non c’è problema, di un concetto si può sempre parlare. Ma in letteratura, dove il discorso è attorno al concreto-individuale, dove, e sia il testo fantastico quanto si vuole, si parla di un’esperienza, si individua la struttura di un’esperienza e su quella si costruisce un caso in qualche modo esemplare – in letteratura, pretendere di individuare la struttura del bene e dei “valori positivi” e spiattellarla in un exemplum, non è segno di ingenua presunzione, che la realtà delle cose sanziona col ridicolo? Non a caso si parla di letteratura agiografica – e non si intendono solo le vite dei santi. ‘Letteratura agiografica’ nel senso che è qualcosa di scritto e pubblicato, non certo nel senso che sia qualcosa di letterario.
Come dovrebbero sapere i fautori dei “valori positivi”, viviamo in un mondo caduto. Il Bene è un’idea, un desiderio, una nostalgia. Raramente un’esperienza. Nel caso, è qualcosa di puntuale, di tendenzialmente estatico. Un bagliore improvviso, se sei fortunato una pacificazione poco prima di morire. Ritroviamo queste esperienze, beatificanti e pacificatrici ma limitate all’attimo, nelle epifanie di inizio Novecento; le ritroviamo, a un altro livello di qualità, in certa narrativa soprattutto americana del secolo scorso. Benissimo. Ma partire dal Bene e dai valori positivi come strutture note, esperite e replicabili a volontà, e costruirci sopra edificanti apologhi è imperdonabile. E infatti il Bene non perdona: non appena l’apologeta si prova a dirlo, il Bene si sbriciola; dalle briciole emerge l’orologio a cucù e svergogna l’incauto.
[1] Non sto ora a parlare delle metamorfosi che la “bellezza” ha subito nel tempo, soprattutto a partire dalla metà del XIX secolo. Sempre, nel senso giusto, bellezza è. E i Fiori del male si intendono pur sempre come fiori.
[2] A. Zanzotto, Manzoni tra “Inni Sacri” e “I Promessi Sposi”, in «Fantasie d’avvicinamento», pp.211-212, Mondadori, Milano 1991.
[3]Ci si chiede se l’Alessandro, nel medesimo caso, avrebbe fatto un monaco “santo e contento”. A quel che si sa di lui, pare di no.
[4] Equivale a dire che se a Don Rodrigo fosse riuscito di portarsi Lucia nel palazzotto, e di violentarla mattino mezzogiorno e sera, e, quando si fosse stufato, di metterla a disposizione dei bravi – be’, in quel caso bastava che Lucia si affidasse poi alle mani del Signore per diventare una ragazza pluriabusata santa e contenta. Perché la violenza che giorno dopo giorno viene fatta a Gertrude, e che Manzoni descrive così bene, non è di natura diversa da quella che sarebbe fatta a Lucia. E allora, se I Promessi sposi nell’intenzione dell’autore dovevano esser l’anti-Justine, finisce che in fondo diventano invece una conferma di Justine.
La lingua batte dove il dente duole.
Ah sì? Mi dispiace.
Anche a me dispiace per lei.
Bello; interessante il modo di vedere e anche l’esposizione.
Verrebbe da approfondire sul tema verità..ma forse avremo un seguito.
Confesso che non per vizio di formazione l’appagamento di cui parla l’ho provato anche nella scienza..e questo forse rimanda all’approfondimento di cui sopra: ho avuto piaceri non solo della stessa intensità ma similari a leggere Q e Black Holes and Time Warps di Kip Thorne; forse anche per una somiglianza di struttura, chè non è la solita inutile divulgazione (l’analogo forse dell’agiografia) ma la condivisione di una ricerca e insieme un dibattito.
La ringrazio molto dell’apprezzamento. Approfondire sul tema verità… una bella sfida; ma, appunto, bella, a cui mi piacerebbe dare seguito, contando soprattutto sugli apporti della discussione e di competenze più vaste della mia.
Poiché lei parla di scienza – ambito che purtroppo mi è poco familiare – mi verrebbe da rimandare alla vecchia distinzione, di radice romantica, delle due verità (scientifica e poetica), autonome e “con pari dignità”. Ma a parte il fatto che è una teoria vecchia, ha il grosso inconveniente di promuovere l’atteggiamento “da liceo classico”: non importa occuparsi di scienza, noi prendiamo l’altra strada, che è più bella e porta comunque alla verità – oltretutto una verità più onnicomprensiva e gratificante delle parziali e specialistiche verità scientifiche. Un atteggiamento che fa dei bei danni.
Più ragionevole e concreta un’affermazione di Walter Siti, tratta dal suo ultimo saggio: “Credo […] che la letteratura, come la intendo io, sia un modo di conoscere la realtà non surrogabile da altri tipi di conoscenza; se sparisse dal mondo sarebbe come dover far senza la chimica, o la storia”.
Credo che l’appagamento che lei ha provato anche nella scienza sia analogo all’appagamento del “bello”, nel senso che entrambi derivano da un avvicinamento alla verità. “verità” con la minuscola: la verità letteraria è una verità del fenomeno qui e ora, dunque, per usare un’immagine proustiana, la scoperta e mappatura di un nuovo territorio nell’Atlante potenzialmente infinito dell’esperienza umana; ma nemmeno per la scienza si può parlare di verità assoluta – non nel senso, di Feyerabend, che una verità scientifica sia tale soltanto all’interno di una teoria sostanzialmente interscambiabile con un’altra e non abbia nulla a che vedere con la “cosa”, ma nel senso kantiano o neokantiano di un infinito avvicinamento alla verità della “cosa in sé”: infinto, ma avanzamento, avvicinamento – nel senso che, ad esempio, quello che sappiamo ora della materia è più “vero” di quello che se ne sapeva duecento anni fa. In entrambi i casi, immagino, è il “soffio” del vero che si libera nella ricerca a creare la sensazione di appagamento.
Mi limito io pure a telegrafici appunti, che pubblicherò qui mano mano in modo anche disordinato; poi, alla fine della discussione, li riprenderò.
APPUNTO 1
La questione sollevata è fondamentale ma oggi più ingarbugliata che mai. Aspetti etici, politici, estetici: tutti insieme e sempre più aggrovigliati. Difficile sbrogliarli in un saggio breve. Quindi, prima cosa: grande apprezzamento per la chiarezza, la capacità argomentativa, la cautela, i distinguo e la problematicità, con cui Elena [Grammann] li ha affrontati. Per come oggi sento questa questione, su cui sono intervenuto spesso su Poliscritture, per rimetterla bene a fuoco, in una situazione dominata dalla cultura (o incultura?) dei social, ci vorrebbe un vastissimo studio. Forse si dovrebbe partire dalla ‘Poetica’ di Aristotele (era lui che parlava di ‘catarsi’, no?) per arrivare a Sartre, a Pasolini, a Fortini (e non solo a Bataille!) e poi a quelli sulla scena: Saviano, Murgia, D’Avenia e Siti col suo «Contro l’impegno» appena pubblicato.
APPUNTO 2
Può servire fare un paragone tra letteratura e sogno. E riflettere sui meccanismi storicamente consolidatisi e affinatisi della prima e sulla turbolenza caotica, a-morale, a-storica dell’altro fenomeno, che nella cultura del Novecento la psicanalisi, a partire da Freud, ha sottoposto ad interpretazione “scientifica”.
P.s.
« lo, comunque, non credo che l’operazione del narrare resti inalterata quando
entrano nella narrazione certi dati grezzi invece di altri; quando, insomma, Svevo dà più spazio ai sogni (o alle ambivalenze di un inetto alle prese con uno psicoanalista …).
Il ricorso a forme tradizionali e secolari di comunicazione letteraria (razionale?) impone un filtro al magma pre-verbale dell’esperienza e il “testo-prodotto” ha comunque il “marchio di fabbrica” della letteratura. Ma nessuna abilità retorica garantisce un pieno «dominio sulla propria materia» o può sbarrare l’accesso a dati più inquietanti o informi – che sono poi quelli di solito più sottolineati dalla ricerca psicoanalitica in genere.
A negare la possibile emersione dell’inconscio anche nei testi letterari (magari non si tratterà del Desiderio ma delle sue macerie … ) si rischia – secondo me – di condannarli ad una pericolosa insolazione di Coscienza.
Lo scrittore non può pretendere – come mi pare faccia Svevo – di sottrarre il
frutto che egli ha colto e abilmente camuffato (e direi: “normalizzato”) alle supposizioni che lettori, critici ed ogni tipo di interpreti, compresi gli psicoanalisti, affacciano per capire anche in quali campi lui l’ha coltivato o – perché no – rubato.
Come vede, mi colpisce molto in Svevo questo duello (lo è poi?) fra scrittore e
psicoanalista. Ma sarei restio, alla fine della competizione, a schierarmi con lo scrittore».
(da una mia lettera a Sandro Briosi su Svevo, 10 gennaio 1994 )
APPUNTO 3
Condivido (con qualche riserva “psicanalitica” e “politica”) la tesi fondamentale del saggio: il “bene” (ma ciò vale anche per il “male”) non entra tale e quale né automaticamente, in letteratura. Se uno scrittore lo vuole far entrare, non può saltare, trascurare, aggirare lo ‘specifico’ della letteratura, qualunque sia il suo grado di consapevolezza degli strumenti che usa.
Ci sarebbe poi da avere le idee chiare su cosa intendiamo per ‘specifico’ in letteratura (da distinguere, inoltre, da altri specifici: pittura, cinema, audiovisivi, musica, ecc.).
Si potrebbe ricorrere alla linguistica e ai formalisti russi del primo Novecento. E capiremmo meglio cosa intendere per linguaggio e funzioni del linguaggio (Jakobson). O come si è costruito e che peso ha oggi (coi mass media e i social poi!) lo scarto tra ‘parole’ e ‘cose’, che si è determinato ed s’è accresciuto in tempi storici precisi. (Ha forse a che fare con lo sviluppo del capitalismo?).
Ma, se non potessimo imbarcarci in tali studi, il modo in cui Elena [Grammann] ha definito lo ‘specifico’ della letteratura mi pare un ottimo punto di partenza: «La letteratura lavora invece con i fenomeni singoli e gli individui […] una storia di finzione invece deve essere interessante, è pensata per essere interessante; ma, paradossalmente, pur essendo inventata, è interessante soltanto nella misura in cui manifesta una verità. […] l’importante è la concentrazione e organizzazione dei fatti in vista della manifestazione di una possibile verità delle cose».
APPUNTO 4
Forse si potrebbe anche dire che la letteratura non è a disposizione del primo arrivato. (È un’istituzione, ricordava Fortini!). Ha una sua “tradizione”, una sua “morale” (delle regole che continuamente decadono e si rinnovano), una sua “autonomia”. Non può essere forzata e messa al servizio di un‘ idea o di un’autorità superiore ad essa (“buona” o “cattiva” che sia) se non fino ad un certo punto. A ridurla a “voce del padrone” (di turno) o a “grido dell’oppresso” (di turno), impallidisce, sviene, si trasforma in propaganda o in registrazione più o meno banale o commovente del lamento o dell’urlo o del “corpo”.
Elena [Grammann] ne difende il valore (è un ‘bene’, no?) e ne ha una concezione alta (non so se assoluta): «La letteratura sarebbe dunque il luogo in cui si manifesta una verità del fenomeno nel suo qui e ora. Nel presente, permette di riconoscerla; e anche quando il presente dei fenomeni sia trascorso, la letteratura ne conserva le verità e permette di accedervi anche a coloro che vengono dopo».
(Mi verrebbe da dire, collegando questo discorso a quello che spesso faccio su io e noi (e io/noi) che la letteratura è il luogo non solo dell’io (che è spuntato ad un certo punto della storia umana) ma anche il lungo (ambiguo?) dell’io/noi, cioè di un io che si è aperto al noi e di un noi che non fa a meno dell’io (e quindi evita di essere un Noi alla Zdanov).
P.s.
Per tenere i piedi nell’oggi, a questa concezione alta della letteratura accosterei – in contrappunto – i tanti lamenti sulla ‘letteratura postuma’ (alla Ferroni) di qualche decennio fa. O quelli odierni, scanzonati e “disincantati”, che l’amico Adriano Barra distribuisce sulla sua pagina Facebook nella rubrica ‘La questione della letteratura’. Proprio oggi ne leggo uno a commento della recensione che Claudio Giunta, accademico rampante incrociato in passato su “Le parole e le cose”, ha dedicato al libro di Siti: « Io preferisco pensare qualcosa di molto radicale o forse molto semplice: che la letteratura non c’è più. C’è qualcosa d’altro. Ci sono le facce, i vestiti, i gesti. Ci sono i colori. Il viola, ad esempio, dei coltelli di Saviano [quelli che compaiono sulla copertina di “Gomorra”. Nota di E. A.]. Io, che non sono un professore, penso così.» . Non è un’ipotesi da scartare a cuor leggero, visti i tempi.
Grazie Ennio dell’apprezzamento e degli appunti. Dico alcune cose che mi sono venute in mente in proposito, sperando magari in un’esposizione più strutturata.
Su Appunto 2: Siti (mi scuso di riferirmi spesso a lui, ma sul suo testo sto lavorando al momento e il tema, pur non essendo lo stesso, è simile) indica appunto nell’inconscio tutta quella materia inconciliabile che sfugge alla ragionevolezza, ai risanamenti in forma di sanatorie, in una parola a un discorso troppo di superficie che priva il testo di “abissalità”, cioè di reale profondità. Siti va anche più in là: per lui è grazie all’inconscio se il testo letterario dice più o dice altro da quello che l’autore coscientemente crede di dire. Scrive ad esempio a proposito della leopardiana Sera del dì di festa: “Quel che non potrà mai sapere [il soggetto è il giovane lettore che reperisce tutte le informazioni necessarie su Google], perché ha ottenuto tutti gli input dall’esterno e non ha avuto pazienza di ascoltare il testo, è che questi collegamenti li faceva già il testo stesso, mediante il “posa” del terzo verso ripreso nel “posa” (musicalmente “pianissimo”) del verso trentotto; e, quel che più importa, lo faceva all’insaputa di Leopardi [corsivo dell’autore]. Gli sfuggirà cioè che le poesie possono dire quel che l’autore non sa di voler dire, e Google l’avrà derubato della fiducia nell’inconscio.”
In linea di massima sono d’accordo col fare del testo, scritto e licenziato, qualcosa di autonomo dall’intenzione cosciente dell’autore. Ma dall’altra parte evidenziare eccessivamente questo aspetto mi pare ci porti troppo nella direzione del “caso oggettivo” dei surrealisti, col rischio di produrre, e recepire, una messe di cadaveri squisiti…
Su Appunto 3: Lo scarto fra parole e cose. Storicamente comincia a farsi sentire col decadentismo (Mallarmé, Hugo von Hofmannsthal, e, in un tentativo di rifondazione, Rimbaud e il surrealismo). La stampa (in senso lato, quindi anche televisione ecc.) non l’ha mai avvertito – e questa è la differenza fondamentale fra stampa (giornalismo) e letteratura. Con la letteratura negli anni ’70 il problema era talmente acuto che, nella narrativa, si ipotizzava, come unica possibilità di continuare a “narrare”, il modo ironico. Il postmoderno ha risolto in modo diverso, ma non poi tanto.
Che lo scarto, o scollamento, “abbia a che fare” con lo sviluppo del capitalismo, soprattutto oggi dove la forbice fra parole e cose si è talmente allargata che le cose sono uscite di scena e al loro posto abbiamo un immaginario bidimensionale del desiderio seriificato, mi pare innegabile. Non mi sentirei di affermare (non ne so abbastanza) che il capitalismo sia la causa, diretta o indiretta.
Su Appunto 4: Se l’io vuole essere anche solo tendenzialmente comprensibile deve tener conto del noi (ma i romanzi – sempre brevi! – dei giovani autori sembrano puntare invece sull’incomprensibilità, o ambiguità a oltranza, già a partire dalla grammatica e sintassi), senza che il noi (l’istanza “morale”, il dover essere) prevalga e soffochi l’io. Siti critica duramente certi scrittori e una certa moda, ma, fra i contemporanei, ne apprezza altri.
Quella di Adriano Barra è una scelta (e anche un po’ una posa…)
Stamattina ho un po’ di tempo da perdere, così faccio qualche appunto al testo ‘saggistico’ (proviamo a definirlo così, tanto per capirci) della Grammann. Partiamo…
Perché un articolo scientifico non può comportare un’espressione di bellezza? Solo per il fatto che lei non sa coglierla?
Perché un credente deve considerare ‘brutto’ tutto ciò che “urti la sua verità concettualmente strutturata” e non, poniamo, semplicemente ‘diverso’ od ‘originale’?
A proposito del kitsch, non si è ancora accorta che intelligenti creativi lo hanno saputo trasformare in un’opera d’arte? Questo processo vale anche per la letteratura…
Veniamo alla ‘retorica’ dei valori positivi ( e perché no di quelli negativi?). Sono d’accordo anch’io che se questi valori vengono esplicitati in un racconto o romanzo possono diventare ‘retorica’, difetto nel quale potrebbe essere caduto anche il Manzoni, ma il segreto sta proprio in questo: nel nasconderli all’interno della narrazione, lasciando che si esplicitino in forma di temi e argomenti letterari. Le faccio un esempio eclatante, perché anche lei possa capire: prendiamo il Vangelo, al quale si ispirava Dostoevskij, consideriamo che la parabola del ‘Buon samaritano’ sia un semplice racconto: secondo lei è retorico?
Non c’è niente di sbagliato se uno scrittore si ispira a valori religiosi, l’importante è che li sappia esprimere, appunto, senza cadere nella retorica.
In quanto alla ‘verità’, ancora il Vangelo ci insegna che Gesù, alla specifica domanda di Pilato, rispose col silenzio; forse voleva semplicemente significare che quello è lo strumento per indagare la Verità.
Ma di sicuro ‘verità’ specifiche le possiamo indagare; lei è sulla buona strada, continui così!
Negli “appunti di risposta” a Ennio Abate ho dimenticato una cosa che mi era venuta in mente stamattina a proposito di dicibilità e in generale rappresentabilità del Bene. Negli scrittori cattolici un minimo avvertiti, ad esempio Giulio Mozzi e il suo entourage, ma anche Alessandro Zaccuri e altri, il Bene, se mai compare, si disegna rigorosamente ex-negativo, appare come un’assenza – la quale, essendo un’assenza, ovviamente non si esplicita. Cioè quello che viene (variamente) rappresentato è l’assenza di bene, dunque, agostinianamente, il male. (E a quel che ricordo anche in Dostoevskij le cose non stanno molto diversamente.)
La raccolta probabilmente migliore di Mozzi si intitola Il male naturale e uno dei racconti, “Amore”, ebbe l’onore di fare l’oggetto di un’interrogazione parlamentare da parte del deputato leghista Oreste Rossi, con minaccia di denuncia dell’editore (Mondadori).
Questo per dire che anche i credenti, quando sono scrittori, il problema lo vedono eccome. Un problema grosso così.
APPUNTO 5
Per Elena [Grammann] un altro tratto per individuare lo ‘specifico’ della letteratura è la bellezza, «aspetto proprio della verità nell’arte». Sulle difficoltà di coglierla e su equivoci e travisamenti di chi – comune lettore o critico – di essa discute fa considerazioni condivisibili.
Ho qualche perplessità, però, quando scrive che «chi ha già convinzioni profonde sul vero – sul vero eterno o sul vero adesso, ad esempio i credenti delle varie religioni o ideologie – sarà portato a rifiutare a limine, e quindi considerare “brutto” e non riuscito, tutto ciò che, nella struttura o anche solo nel dettaglio, urti la sua verità concettualmente strutturata». Non mi pare, infatti, che uno scettico abbia più probabilità di non prendere cantonate, anche perché credo che una nebbiolina ideologica avvolga – Althusser docebat – anche le menti dei più lucidi intelletti. E, dunque, le difficoltà di comprensione del «vero» per costoro non mi sembrano minori.
Un dubbio ho anche sull’unico criterio che viene proposto per distinguere la bellezza: il bello deve avere « una relazione di verità con i fenomeni presenti». Conseguenza: se allora uno scrittore «riprende una forma già elaborata in passato, senza più preoccuparsi se sussista ancora una relazione di verità con i fenomeni presenti», fallisce.
Dovrei capire meglio quali «fenomeni presenti» ha in mente Elena. Ma mi chiedo:«il già-stato, il già-visto, quello che passa per bello, che ha ricevuto il timbro dell’apposito ufficio» – mettiamo l’arte greca o la pittura degli impressionisti – avendo «il suo contenuto di verità legato al fenomenico del passato» e non ai «fenomeni presenti», è inevitabilmente «stantio, avariato, tossico»?
Certo, Elena ha precisato: «quando lo si voglia riproporre così com’è»; e cioè come unico bello da godere o capire e per giunta indiscutibile e oggi imposto come surrogato mercificato.
Eppure quel che non mi convince del tutto è che la verità avrebbe a che fare solo coi «fenomeni presenti». E se questi fossero del tutto stravolti, indecifrabili, caotici, orrendi, falsati? Dove si coglierebbe in essi il «bello»? E dove troveremmo la «relazione di verità»?
Queste obiezioni le muovo perché intuisco che ci possa essere più verità persino in un’opera bella del passato. E anzi ritengo che, nel discorso sulla verità, andrebbe tenuta presente anche la sua (possibile e non precisabile) dimensione futura. Insomma, qualcosa mi fa respingere l’idea di una bellezza come semplice adeguamento – se ho ben capito – ai soli «fenomeni presenti». (Qui echi in me del discorso adorniano-fortiniano sull’ arte come «promessa di felicità»?). Ma il discorso è complicato e lo rimando.
Sull’arte come “promessa di felicità” non dico niente perché non conosco il discorso e dovrò informarmi, cosa che non posso fare su due piedi.
Il mio discorso mi sembrava invece piuttosto semplice. Il punto è «quando lo si voglia riproporre così com’è». Non penso affatto che la pittura degli impressionisti non sia più bella. E’ e rimarrà bella perché esprime esattamente un modo autentico di essere e di percepire proprio dell’epoca, che ci rimarrebbe sconosciuto se non ci fosse stato qualcuno che l’ha colto e restituito quando era il momento. E certo frammenti di ricordo, non personali, ma ancora “dispersi nell’aria”, ci raggiungono e ci toccano e li riconosciamo. (Già più complicato andando indietro nel tempo. L’arte greca, se non ci fermiamo all’ohhh! di prammatica, non è affatto facile da capire e da godere). Ma la pittura impressionista che si fa adesso, la vendono in piazza ai mercati settimanali. O al massimo, se è di qualità un po’ migliore, avrà un migliore effetto decorativo (e magari un po’ ironico, se no diventa facilmente tossico) sulle pareti di casa. Ma non credo conoscitivo relativamente al presente, perché quello che ha conosciuto è già andato.
Sul “prendere cantonate”: niente di più facile che prenderne sull’arte e la letteratura che ci sono via via contemporanee, appunto perché non sono già certificate e canonizzate, perché dovrebbero svelare quello che non siamo ancora abituati a vedere e, spesso, che non vogliamo neanche vedere. Penso però che sia meno facile prendere cantonate per una mente libera da preconcetti piuttosto che per una occupata da preconcetti, dunque facilmente “normativa”.
Questo non ha nulla a che vedere con lo scetticismo. Non capisco perché, se uno non è ideologico, debba essere per forza scettico. L’ideologia, in senso lato, offre riferimenti necessari senza i quali saremmo del tutto disorientati (senza un qualche tipo di ideologia non saremmo nemmeno esseri storici); il punto è essere disposti a modificarne dei pezzi, o anche tutta, se è il caso. Questo non è essere scettici, è non essere dogmatici.
“E se questi (i fenomeni presenti) fossero del tutto stravolti, indecifrabili, caotici, orrendi, falsati? Dove si coglierebbe in essi il «bello»?”
A questo punto dovrei chiedere io a cosa stai pensando. In linea di massima, la letteratura dovrebbe precisamente decifrare, svolgere il caos, mostrare l’orrore e, ove ci sia, la “falsatura”. Il risultato non sarà sicuramente decorativo ma, se riesce nel suo intento di arrivare alla verità di quei fenomeni, sarà esteticamente valido, cioè “bello”. Nemmeno la carogna nauseabonda di un cane che compare in una poesia di Baudelaire è decorativa, però…
Lasciando da parte una certa moda letteraria attuale dell’ “orrido, più orrido”, che è appunto una moda, ci sono in Italia due autori che hanno affrontato seriamente il problema. Uno è Antonio Moresco, l’altro Massimiliano Parente. Moresco credo che stia simpatico anche ai vescovi, perché tutto l’orrore, ampiamente (e ripetitivamente) descritto, finisce poi in gloria. Parente è radicale e decisamente catto-incompatibile. Dei romanzi della sua trilogia non ho mai avuto lo stomaco (né l’interesse) di andare oltre la pagina cento. Ma ad esempio il suo quarto romanzo, “Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler”, è un buon romanzo – il che non vuol dire che io sia d’accordo con lui; gli riconosco che ha visto bene certe cose, cioè le ha rese conoscibili. E’ andato un pezzetto oltre le (varie) ideologie. Ma da quando ha cominciato a fare l’ideologo di se stesso ha perso ogni interesse.
Mi fermo qui. Spero di essermi spiegata un po’ meglio.
Dostoevskij non rappresenta il bene ‘per assenza’, ma semmai ‘per contrasto’; un protagonista simbolo del bene al quale si oppongono gli altri. Vedi il romanzo ‘L’idiota’, che è quello che maggiormente lo caratterizza. Rappresentare il bene ‘per assenza’ o ‘in presenza’, comunque, è solo questione di ‘scelte’ da parte di uno scrittore. Il punto fondamentale, semmai, è come queste scelte si realizzano nella narrazione.
A volte mi viene da invidiare quelli che sparano sentenze, la loro beata innocenza e il loro auto-compiacimento.
Grande romanzo L’idiota. Ricordo che mi era piaciuto moltissimo. Mostra in tutti i modi possibili che il Bene non è di questo mondo. Infatti, se non vado errata, finisce incapsulato in una casa di cura.
Qualche nota sparsa:
sull’io/noi/chi? mi viene subito in mente Nagarjuna, con cui Rovelli in Helgoland discute appassionatamente: e mi appare una bella donna in un salotto di antan che a uno fa languidi sorrisi, con un altro si fa smorfiosa, con un terzo vereconda e altezzosa.
E, dice Rovelli, anche gli elettroni, i fotoni, le particelle quantistiche tutte si comportano allo stesso modo.
Ma se non sono immutabili gli elettroni tanto meno possiamo veder così i soggetti, nè possiamo definirli una volta per tutte: tanto che per i seguaci della ‘via di mezzo’ solo la poesia, che non descrive ma evoca, ha senso.
Se vogliamo giocare con queste regole allora anche l’io del romanzo non può che essere un io/noi mutevole, un nodo in un insieme di relazioni il cui scorrere lungo quei fili è il percorso del romanzo.
Il bene, assoluto esterno, ne viene automaticamente cacciato.
Come nella fisica moderna anche il tempo esce in punta di piedi, chè solo di configurazioni diverse si tratta. Ma non lascia solo la poesia e i suoi brevi bagliori.
Non a caso la descrizione classica del romanzo rimanda ai termini della tessitura, e il suo essere interessante a percorrere quegli stessi paesaggi che l’intreccio dei fili produce.
A volte si vedono nuovi orizzonti. Ma non è essenziale.
Non so come mi emerge un brevissimo racconto forse di Brown, forse ‘la sentinella’, dove un soldato in trincea su un pianeta lontano riflette sulla sua condizione, e torna sempre col pensiero al crudele nemico che ha di fronte, così orribile: con due sole gambe, due braccia, e una testa rotonda e pelosa.
APPUNTO 6
Consiglio la lettura di questo articolo: “Perché la letteratura preferisce rappresentare il Male?” di Andrea Tarabbia (https://www.illibraio.it/news/dautore/letteratura-male-1394826/ ).
Affronta gli stessi temi del saggio di Elena [Grammann] e dà una sua spiegazione del perché quello del male prevalga di gran lunga in letteratura. E richiama anche alcuni esempi della presenza in letteratura del tema del bene: «Per quello che mi è dato di sapere e narrare, i casi in cui, nella letteratura degli ultimi due secoli, si è tentato di rappresentare il Bene sono pochissimi; e uno solo è il caso in cui un racconto incentrato sul Bene è risultato un capolavoro: era il 1869, e Fëdor Dostoevskij si era prefisso di scrivere il ritratto di un “uomo assolutamente buono”; quest’uomo, un po’ angelo e un po’ derelitto, è un ingenuo, un Cristo minore incapace di fare il bene davvero»
Vengono citati anche altri due grandi personaggi “buoni”: Don Chisciotte e il Pickwick di Dickens.
La spiegazione del «perché chi tenta di rappresentare la bontà fa quasi sempre fiasco» o del perché «il Bene, la bontà e la purezza d’animo non sono raccontabili» è per Tarabbia questa: la letteratura sarebbe «più capace di raccontare il Male perché, alla radice stessa dell’arte del raccontare, sta una rottura, qualcosa che va storto: raccontiamo insomma ciò che non funziona».
Non saprei dire al momento se per gli antichi la questione si ponesse nei termini in cui si è posta nella modernità. Ci dovrei pensare e indagare, ma introdurrei lo stesso nella riflessione il dato storico e mi chiederei: da quando la letteratura ha cominciato a parlare (o è stata costretta a parlare) più spesso del male? da quando nella nostra cultura (europea, occidentale) la storia ha prodotto più “male” e i dominatori hanno usato sempre più spesso la retorica del bene?
L’articolo richiama utilmente anche la posizione di Bataille: «A metà degli anni Cinquanta del Novecento, un grande pensatore francese, Georges Bataille, dedicò a La letteratura e il male un famoso libro costituito da otto ritratti di autori – da Emily Brontë a Charles Baudelaire, dal marchese de Sade a Franz Kafka.
Sentite cosa scrive Bataille nella brevissima prefazione a questi ritratti: “La letteratura è l’essenzialità o non è niente… Il Male – una forma acuta del Male – che si esprime in essa, ha per noi, credo, valore sovrano”. Per Bataille, pensatore radicale, la possibilità di accedere al Male è la condizione stessa della libertà umana: siamo esseri umani perché possiamo trasgredire le regole e violare divieti sapendo che li stiamo violando; l’espressione più acuta di questa violazione e di questa libertà è la letteratura, perché la letteratura, quando è autentica, mette in discussione tutte le norme, va contro le leggi della convivenza civile, sta dalla parte dei colpevoli e ritrae il lato oscuro e indicibile dell’umanità. Come fece, appunto, il marchese de Sade nei suoi libri, in cui, per perseguire una forma totale di libertà, si commettono turpitudini spesso ai danni di persone innocenti, si trasgredisce ogni regola e si disprezza e si deride apertamente la morale corrente».
Vorrei precisare, prima che qualcuno tenti la facile equazione Grammann = fan del marchese di Sade, che il divin marchese ha un’interessantissima teoria della natura, ma che i suoi romanzi, monocordi e ripetitivi, sono di una noia assoluta.
Le citazioni fanno sempre un bel vedere, se ne trovano finché si vuole a personale uso e consumo, ma esprimono un pensiero altrui; servono da rattoppo per chi non sa elaborarne di propri.
Che la letteratura si esprima in un regime di totale libertà, sondando il male o il bene, è risaputo. Ma appunto per questo chi sostiene che non possa esprimere anche valori ‘positivi’ (che non sono quelli dei boy-scout) nega, alla radice, questa libertà.
La letteratura si fa producendo testi, e non con interventi critici discutibili e tendenziosi, da sfascia carrozze. Le teorie critiche o le ideologie applicate alla narrativa trovano il tempo che trovano.
Per me il discorso finisce qui. Attendo, ancora, semmai una risposta agli appunti critici mossi in una mia precedente nota.
Gentile Casati,
nei suoi appunti critici, lei esordisce con “Stamattina ho un po’ di tempo da perdere”. Siccome io tempo da perdere invece non ne ho, già questo mi esimerebbe dal risponderle. Tuttavia, poiché lei insiste, eseguo.
Le faccio intanto notare che a alcuni appunti critici ho già risposto in altri commenti che probabilmente non ha avuto tempo di leggere. E nello specifico:
– “Perché un articolo scientifico non può comportare un’espressione di bellezza? Solo per il fatto che lei non sa coglierla?”
Mia risposta a Paolo Di Marco (prima ancora di leggere le sue obiezioni): “Credo che l’appagamento che lei ha provato anche nella scienza sia analogo all’appagamento del “bello”, nel senso che entrambi derivano da un avvicinamento alla verità.[…] In entrambi i casi, immagino, è il “soffio” del vero che si libera nella ricerca a creare la sensazione di appagamento.”
E in ogni caso gli scopi e le funzioni dell’articolo scientifico sono diversi dagli scopi e le funzioni del testo letterario. La sua obiezione è speciosa.
– “Perché un credente deve considerare ‘brutto’ tutto ciò che “urti la sua verità concettualmente strutturata” e non, poniamo, semplicemente ‘diverso’ od ‘originale’?”
La frase nell’articolo è: “Chi ha già convinzioni profonde sul vero – sul vero eterno o sul vero adesso, ad esempio i credenti delle varie religioni o ideologie – sarà portato a rifiutare a limine, e quindi considerare “brutto” e non riuscito ecc.” “Sarà portato” indica una tendenza, non una necessità – ci sono anche credenti intelligenti.
Una tendenza tuttavia spesso riscontrabile nella storia, lontana e recente, e che mi è confermata ad esempio dal primo commento in assoluto al mio primo articolo su Poliscritture, in cui esaminavo, seriamente e attentamente, L’estensione del dominio della lotta di Houellebecq, sulla cui statura letteraria esiste un consenso piuttosto unanime. Il suo commento – il mio primo impatto con Poliscritture – fu il seguente: “In effetti, nel successivo sviluppo di questo realismo epidermico [aggettivo aggiunto da lei] l’autore, in ‘Sottomissione’, sembra interessarsi prevalentemente di ricette di cucina e di rapporti anali.”
Cfr. anche su questo punto una mia risposta di ieri sera a E.A. : “Sul “prendere cantonate”: niente di più facile che prenderne sull’arte e la letteratura che ci sono via via contemporanee, appunto perché non sono già certificate e canonizzate, perché dovrebbero svelare quello che non siamo ancora abituati a vedere e, spesso, che non vogliamo neanche vedere. Penso però che sia meno facile prendere cantonate per una mente libera da preconcetti piuttosto che per una occupata da preconcetti, dunque facilmente “normativa”.”
Veniamo ai rimanenti appunti critici:
– “A proposito del kitsch, non si è ancora accorta che intelligenti creativi lo hanno saputo trasformare in un’opera d’arte? Questo processo vale anche per la letteratura…”
Mi meraviglio (ma non troppo) delle sue scarse capacità logiche. Se il kitsch è trasformato (cioè utilizzato come materiale) per la produzione di un’opera d’arte, ovviamente non è più kitsch, è kitsch trasformato in un’opera d’arte, cioè è un’opera d’arte. Ma ci vuole la trasformazione.
– “ma il segreto sta proprio in questo: nel nasconderli all’interno della narrazione, lasciando che si esplicitino in forma di temi e argomenti letterari.” Non capisco cosa lei intenda per “temi e argomenti letterari”, mi suona come “il grande poeta Dante Alighieri”, formule contro cu viene messo in guardia ogni studente della quarta ginnasio. In ogni caso il punto è il “segreto”, che mi ricorda molto la pietra filosofale. Se mi perdona la citazione, persino Dostoevskij riteneva che “niente, secondo me, può essere più difficile di questo, al giorno d’oggi soprattutto”. Figuriamoci quelli che Dostoevskij non sono. Al giorno d’oggi soprattutto.
– “Le faccio un esempio eclatante, perché anche lei possa capire: prendiamo il Vangelo, al quale si ispirava Dostoevskij, consideriamo che la parabola del ‘Buon samaritano’ sia un semplice racconto: secondo lei è retorico?”
Non possiamo considerare che la parabola del Buon Samaritano sia un semplice racconto, perché la parabola del Buon Samaritano non è un semplice racconto. Non si pone obiettivi letterari, ma di altro tipo. Se fosse un semplice racconto, un’opera letteraria, il punto sarebbe lo stile (in senso complessivo), cioè un certo tipo di soggettività, ma il punto è precisamente il contrario: fare astrazione da ogni soggettività (letteraria – lo specifico così speriamo di evitare gli equivoci).
Spero di aver posto fine alla sua attesa. Per correttezza, la avverto che non ho, né avrò, altro tempo da perdere – come lei, immagino.
No comment.
APPUNTO 7
Il paragrafo intitolato « Dell’indicibilità dei valori positivi» è quello più “militante” contro i «fautori dei valori positivi» in letteratura e il suo tono duro, quasi da invettiva, un po’ sorprende e incuriosisce.
Ha torto Elena [Grammann]? Perché la letteratura non potrebbe sondare allo stesso tempo il male e il bene? O perché non si dovrebbe sforzare almeno di farlo, anche se non le riconoscessimo , visti i tempi di predominio della comunicazione massmediale, di operare in «un regime di totale libertà» (Casati) davvero improbabile?
Provo a ragionare. Non mi pare che Elena abbia fatto una scelta etica luciferina: scelgo il male contro il bene e non so se ne subisca il fascino. Sembra tollerante verso chi voglia affermare i valori positivi nella vita ( « Comunque non ho niente contro i “valori positivi” nella vita »), ma ci tiene a starsene alla larga. Come se dicesse: volete propagandarli (discorso elettorale) o predicarli (un sermone domenicale o una liturgia)? Fate pure ma non in nome mio (« posto che nessuno voglia appiopparmi i suoi ». E però non tace o sorvola sugli effetti comunque negativi di ogni propaganda o predicazione: quei valori sono al massimo subìti o sorbiti dai seguaci dei politici o dei religiosi; ed è palese lo scollamento tra valori (parola) e fatti reali (cosa), che quelli – dirigenti e diretti – fanno finta di non vedere. Insomma, se «gli uomini [vogliono ancora oggi] / piuttosto le tenebre che la luce» (Giov, III, 19), lei pare abbandonarli al loro destino; e resta a difendere quel che per lei conta: la letteratura, « il cui compito è la verità attuale e individuale del fenomeno» dal tentativo di chi vuole introdurvi di soppiatto i «valori positivi». E lo fa con un’unica motivazione: «quando li si vuole dire: quando si dicono, suonano falsi». E dunque inquinerebbero o oscurerebbero il compito che la letteratura ha di cogliere (solo e soprattutto?) la verità.
Ora con tutta la simpatia che provo per un atteggiamento così “militante”, a me viene da obiettare che:
1. non tutta la letteratura è stata o è questo luogo in cui si persegue così eroicamente la verità (della letteratura);
2. la letteratura è anche istituzione; e ha anch’essa i suoi riti, non diversi in fondo da quelli della politica o della religione. (Mi vengono in mente vecchie riflessioni sul «riuso» della letteratura, di cui parlarono verso la fine degli anni Novanta del ‘900 sui Quaderni Piacentini, di non so che numero, Brioschi, Fortini, forse Di Girolamo ed altri);
3. esiste anche – l’ esempio da Elena fatto di Manzoni – una letteratura che potrebbe dirsi “impegnata”, la quale, senza uscire del tutto « dalla dimensione letteraria» ( se per essa non s’intende quella zona importantissima ma minoritaria che sta a cuore ad Elena), cerca di convincere i lettori «di qualcosa». E, del resto, si può dire che anche gli scrittori che perseguono più decisamente la verità (della letteratura), sono a loro modo “impegnati” nell’affermare un valore positivo, quello appunto della letteratura che vuole «occuparsi del ‘suo’ bene, che è la verità del fenomeno individuale nel qui e ora» . E i loro libri, se sfondano certi veti corporativi o politici o religiosi, contengono questo messaggio “positivo”: la letteratura dev’essere autonoma o, in altre parole, non deve compromettersi col mercato, con la propaganda, con la religione;
4. questa difesa della «verità del fenomeno individuale nel qui e ora» a me pare una implicita rinuncia (ascetica?) sia a cercare un di più di verità, che potrebbe trovarsi – non ne sono certo, però – anche altrove, cioè fuori della letteratura, sia ad una sua più ampia circolazione;
5. non si capisce se la verità (della letteratura) è stata da sempre lì (nella letteratura e solo nella letteratura). O se – cosa che tendo a ritenere più probabile – si sia dovuta rifugiare o recludere lì (nella letteratura), quasi come in un convento, magari per qualche invasione barbarica, da una certa epoca in poi [1];
6. se il mondo attorno a noi è falso (o è diventato sempre più falso e ci sarebbe da capire per quali cause), perché non intervenirvi più per cambiarlo? È impossibile? Sicuro?
7. se non c’è, come dice Elena, «nella letteratura qualcosa di malvagio che non tollera l’affermazione del bene», cosa impedisce alla verità racchiusa nella letteratura di poter uscire da essa con una certa baldanza o persino spudoratezza per tentare di influire anche su politica, religione, etc, come qualche volta nella storia (delle rivoluzioni) pur si è tentato di fare? Perché dovrebbe fare la “vergine” o la “suora” e ritenere che «ogni bene che, venendo da altro ambito – politico, religioso, morale – pianti le tende nel suo accampamento, è un intruso che la deforma»?
8. forse la letteratura si è venuta a trovare in uno stato d’emergenza? Io pure ho parlato una volta, nel lontano 2005, di poesia finita nel pozzo[2]? Qualcosa (la mercificazione, l’avvento della società borghese, le nuove tecnologie)) ha tolto spazio alla letteratura e l’ha confinata in un ghetto, magari dorato, di verità solo “sua”, unicamente letteraria, appunto?
Insomma, poiché concordo che il Bene non sta in nessuna parte e manco nella letteratura, mi chiedo perché, però, non dovrebbe essere cercato anche dalla letteratura. Elena sostiene che «il Bene è una cosa particolare; ha uno statuto particolare. Si può desiderarlo, si può forse viverlo – in particolari stati di grazia», ma non lo si può dire. Vorrei approfondire di più la questione (che magari è stata posta anche nel libro appena uscito di Walter Siti). Cosa ha di così fragile il Bene (o il “bene”) da non poter essere detto o poter essere detto solo «– in particolari stati di grazia»? E «nella normale conversazione [deve essere] avvolto in un velo di pudore»? Perché c’è da vergognarsi a dire il Bene? E non vergognarsi invece a dire il Male? Perché il Bene (o la retorica del Bene) è ormai apertamente solo sulla bocca di « chi manca di tatto» e di esso si può parlaresoltanto « con una certa volgarità»? Condivido che in letteratura « il discorso è attorno al concreto-individuale» e che essa non va confusa (o ridotta) a filosofia, dove « di un concetto si può [e quindi anche del bene]sempre parlare». Non capisco perché nella «realtà delle cose», di cui comunque la letteratura vive, non si possa individuare non tanto « la struttura del bene e dei “valori positivi”», ma qualcosa che *poi* possa anche essere riconducibile al concetto di bene, senza lasciarsi bloccare dal timore di cadere nella retorica o di fare della letteratura agiografica o “impegnata” o che vuole spiattellare «in un exemplum» un messaggio “buonista”. (Cose che io pure ho criticato. Cfr. https://www.poliscritture.it/2011/04/05/sullantologia-calpestare-loblio/).
La vera domanda che mi farei è: perché siamo «in un mondo caduto»? O perché siamo arrivati a un punto della storia in cui « Il Bene è un’idea, un desiderio, una nostalgia. Raramente un’esperienza»? In altri termini: perché non possiamo più lottare per un Bene( o bene) e dobbiamo rassegnarci a pensare al Bene al massimo come « qualcosa di puntuale, di tendenzialmente estatico. Un bagliore improvviso, se sei fortunato una pacificazione poco prima di morire»?
NOTE
[1] Come sosteneva Fortini in un suo ragionamenti in una intervista incentrata sulla poesia ma estensibile alla letteratura tout court: Effettivamente con la successione delle tendenze letterarie e delle tendenze culturali o, diciamo ideologiche, degli ultimi due secoli a partire pressappoco dall’età della Rivoluzione francese, la scrittura in generale e la scrittura poetica in particolare sono diventate uno strumento di introspezione, sono diventate una via alla ricerca della propria identità. Insomma ogni scrittura che non abbia delle finalità puramente pratiche, sembra guidare alla scoperta di se stessi: allora scrivere versi diventa, in misura minore, anche tenere un diario o scrivere delle lettere reali o immaginarie. Scrivere versi diventa un modo rapido, un modo economico e, ahimé, un modo illusorio di risparmiarsi una crescita psicologica o un trattamento psicanalitico. Per esempio è diffusa l’idea che le scritture poetiche private siano alcunché di gratuito che uno può fare o può non fare, invece ci si accorge che questa è la conseguenza del fatto che le classi dominanti a partire dall’inizio dell’Ottocento avevano investito la categoria degli intellettuali di quelle funzioni che erano state nei secoli precedenti propri della casta sacerdotale, e esaltarono all’interno di questi intellettuali i letterati e i poeti come dei portatori di qualcosa di particolarmente rilevante, libero, gratuito, sublime e hanno continuato a mantenere questa sorta di illusione attraverso l’educazione di massa, attraverso i media audiovisivi, nonostante che appunto l’educazione di massa e i media audiovisivi, l’industria culturale dei nostri tempi, abbiano tolto ogni mandato sociale, ogni compito collettivo al letterato. So benissimo che mi si dirà che questo non è del tutto vero. Certo, fittiziamente vengono mantenuti, ma vengono mantenuti con una funzione analoga a quella che hanno i corazzieri al Quirinale.»
( RAI EDUCATIONAL Interviste, Franco Fortini, Che cos’è la poesia?. 8/5/1993)
[2]« Da alcuni anni penso a un’ipotesi poco letteraria che qui sintetizzo brutalmente: la poesia (italiana, quella che riesco a seguire…) sta faticando per uscire da una consunta dialettica tutta interna alla tradizione nazionale (o europea) e, sotto l’urto della mondializzazione, sta esodando, uscendo da quei confini consolidati; ma tale esodo, come tanti altri materiali e mentali, è oggi bloccato dalla guerra permanente (per ora in Irak) e dai suoi deleteri effetti in tutti i campi, fin negli interstizi della nostra vita quotidiana e in quella inconscia. Ne deduco un’indicazione etica, politica e poetica: bisogna mettersi almeno sulle tracce di questa esodante finita nel pozzo della guerra in Irak. Non si sa bene – come per il ragazzo di Vermicino (ricordate quel fanciullino d’epoca ancora industriale caduto nel pozzo?) – a quale profondità si trovi; e di essa, da qui, appena riusciamo a immaginare i lamenti, i sospiri, i gridi mescolati a quelli di torturati e torturate ad Abu Ghraib e in altre terre di nessuno. Se come poeti o poetesse accorressimo presso quel pozzo, faremmo la fine di Giuliana (Sgrena), che è generosamente corsa in Iraq per sentire più da vicino il lamento della poesia caduta nel pozzo della guerra e ci è caduta pure lei; e ne è uscita malconcia, senza averla potuto tirare fuori.
Tirare fuori da lì la poveraccia è davvero arduo. I poeti e le poetesse non sono dei rambo. Ma riconoscere che la poesia nel presente del Capitale è nel pozzo della guerra (in Iraq per ora) ci dovrebbe almeno indurre a esodare dai nostri orticelli o parcheggi culturali, a non cercare la poesia sempre nelle vicinanze di casa nostra, nella passioncella amorosa a portata di cuore, nell’intimo delle lenzuola, nel quotidiano più soporifero»
(E. A.. Intervento al convegno organizzato dalla rivista “QUI. Appunti dal presente” di Massimo Parizzi)
Caro Ennio, tu continui a mettere carne al fuoco e io cerco di starti dietro, ma comincio a avvertire una certa lassitudine.
Proviamo.
Il tono militante. Infatti io milito, esattamente come te. Se vuoi un tono irenico dovrai rivolgerti altrove.
L’invettiva. Non ce la vedo. In ogni caso meglio un tono duro che un colpo al cerchio e uno alla botte, pratica che trovo odiosa.
L’alone luciferino (dici che non ti pare, ma lo nomini). Se (una certa) radicalità è luciferina, benissimo, l’importante è non finire fra gli ignavi.
– “ma ci tiene a starsene alla larga “(dai valori positivi nella vita). Esistenzialmente, no. Ho solo detto che non voglio che qualcuno mi imponga i suoi.
-“E lo fa con un’unica motivazione: «quando li si vuole dire: quando si dicono, suonano falsi». E dunque inquinerebbero o oscurerebbero il compito che la letteratura ha di cogliere (solo e soprattutto?) la verità.” Puoi togliere “solo e soprattutto”. Sull’unica motivazione: è una motivazione di esperienza. Comunque Siti ci scrive sopra un intero libro, pieno di acume e di analisi accurate. Per il momento rimando a quello.
1. Dipende dalla definizione di letteratura. Io penso che la buona letteratura, cioè l’unica degna del nome, dica una verità delle cose – una verità che normalmente senza la letteratura si farebbe fatica a vedere. Questo non ha nulla a che vedere con una letteratura autoreferenziale e solipsistica. (“la verità (della letteratura)” ?)
2. mi dispiace, non conosco la letteratura come istituzione. Se ha dei riti, non mi interessano.
3. La letteratura di cui parlo io non è affatto minoritaria. Chi lo dice? In base a cosa?
Chi fa letteratura non è impegnato a difendere il valore positivo della letteratura. Fa letteratura e basta. O ci riesce, o non ci riesce.
4. Non ho mai detto che la letteratura esaurisce tutta la verità. Intrattiene rapporti con la verità scientifica, filosofica, politica, religiosa, ma è indipendente e deve badare a non tradire la sua modalità di ricerca della verità.
5. Non capisco. Rimando al punto 1. Per quel che ne so, la letteratura ha sempre funzionato così. Dice una verità delle cose (non la “sua” verità. E che vorrebbe dire?)
6. Non mi pare di aver detto che il mondo intorno a noi è falso. Come fa la realtà a essere falsa? E’ realtà punto. Se il mondo è su una china pericolosa, certo sarà bene intervenire per cercare di cambiarlo. Ci sono vari livelli di intervento. La politica è uno, purtroppo sempre impastato con la menzogna, ma basta saperlo. La letteratura avrà il compito di chiarire le idee. Ma al suo modo, non mettendosi al servizio della politica o della religione.
7. La verità di cui parlo (la verità che indaga la letteratura) non è “racchiusa nella letteratura” e non so cosa voglia dire “uscir fuori”. E’ lì, a disposizione di tutti. Ognuno può rifletterci e eventualmente trarne delle conseguenze. Il teatro è forse la forma che più di altre mira a un effetto. La valutazione dell’opera sarà comunque letteraria, non basata sull’efficacia. E non ce la vedo (la letteratura) a arringare le folle.
8. Se avere il proprio ambito significa “ritirarsi in un ghetto dorato”, non so…
Con questo, è un fatto che grosso modo a partire dalla metà dell’Ottocento la letteratura si scorpora dall’andazzo sociale perché, con la più buona volontà del mondo, non può in nessun modo ritrovarsi nelle strutture fattuali e valoriali che lo innervano. La verità che, autonomamente, trova non corrisponde a quelle strutture, né, come era successo invece in secoli precedenti, ne vede di nuove all’orizzonte.
Sul resto: non mi pare di aver detto che il Bene non possa essere cercato, anzi. E’ sul trovarlo (magari, appunto, già definito) che avrei qualche cautela. E mi sento di affermare che la letteratura non può trovare un Bene generale.
Sulle altre domande che ti fai e mi fai, mi spiace dover dire (mi spiace perché suona presuntuoso) che l'”invettiva”, come la chiami, ha carattere letterario, aforistico, e così dovrebbe essere letta.
La vera domanda. Che il Bene sia “un’idea, un desiderio, una nostalgia. Raramente un’esperienza” vale, mi pare per tutte le epoche. Il “mondo caduto” è una metafora cristiana. Se vogliamo tradurla in termini laici, diciamo che è male organizzato – a livello biologico. Storicamente, sembra che l’Occidente sia alla frutta. Vedremo. Alla mia età non me la sento di mettermi a esplorare qualcos’altro. Ma sono molto aperta a quello che verrà.
“Ho solo detto che non voglio che qualcuno mi imponga i suoi” (i valori positivi della vita). Elena Grammann.
E’ il contrario, semmai. Lei vuole impedire agli altri di esprimersi liberamente, sulla base dell’ideologia culturale di una sinistra forcaiola che oramai ha fatto epoca. Se uno scrittore non vuole preferire le tenebre alla luce, è una sua scelta (meditata e sofferta), che dovrà esprimere senza retorica nell’ opera. Esiste la luce e l’ombra, così come esiste il bene e il male.
Anche un grande scrittore come il Manzoni (uno che ha posto delle solide basi alla nostra tradizione culturale) qualche volta, può essere caduto, in buona fede, nella retorica; ma il suo concetto di ‘provvida sventura’ è diventato un valore universale; condiviso da tanti che, sul piano umano, hanno fatto questa stessa esperienza.
Rileggendo l’APPUNTO di Ennio mi pare che ci sia una certa confusione di piani (letteratura, vita, estetica, etica), oltre che una contrapposizione Bene-Male che non è il mio tema, se non per dire che un’estetica non riuscita non è buona, è cattiva, e non può avere effetti buoni.
Già una frase come questa: “Non mi pare che Elena abbia fatto una scelta etica luciferina: scelgo il male contro il bene e non so se ne subisca il fascino” la trovo estremamente fuorviante. Perché dovrei aver fatto una scelta luciferina del male contro il bene o subire il fascino del male? Perché nomino di striscio (ma veramente di striscio) Bataille a proposito di un tema: la letteratura e il bene – che non può non ricordare, antifrasticamente, un titolo famoso? Ma io da nessuna parte sostengo le tesi di Bataille (e resterebbe da dimostrare che Bataille era luciferino).
La mia tesi: che rappresentare il bene in letteratura (dirlo) sia estremamente rischioso se non quasi impossibile, se non con modalità molto indirette come ad esempio l’ironia, è un dato di fatto letterario, constatazione condivisa, al limite del banale. Che ostinandosi a volerlo rappresentare si finisca quasi sicuramente nel feuilleton e nella letteratura rosa è altrettanto scontato. Io ho cercato di indagare i motivi di questo fatto, che come fatto è indubbio e sotto gli occhi di tutti. (Vedi l’articolo di Tarabbia, che non è un gran articolo, ma limita a due i campioni letterari del Bene, v. sotto Postilla)
Sulla vita: “il Bene” è fragile. Certo che lo è: è continuamente insidiato, oltre che dalla debolezza umana (e se non piace debolezza perché termine troppo religioso possiamo usare il termine più preciso di biologia), dall’ipocrisia e dall’amor proprio, come hanno scoperto i moralisti francesi del Seicento, ripresi poi da Proust – tanto perché non si dica che vado troppo indietro.
Poiché il Bene è fragile, anche nella vita ci vuole grande cautela per dirlo – e questo non nelle discussioni filosofiche o para-filosofiche, ma proprio nella vita di tutti i giorni. Il Bene partecipa del Sacro – io direi anzi che è il Sacro – e è avvolto da pudore. Si fa, se si può, ma non si dice (anche questo non è niente di nuovo, direi).
Il Bene nel rito religioso e politico. Il rito serve a rassicurare. Perciò deve avere una struttura, anche verbale, anzi, soprattutto verbale, fissa e ripetitiva. Nel rito, il “detto” non ha funzione estetica né comunicativa, bensì performativa: rassicura. Che le parole aderiscano alla cosa, o anche solo a qualcosa, che dicano una verità, viene presupposto ma non esperito. Che questo valga per il rito religioso sono pronta a sostenerlo contro il mondo. Per il rito politico, dove ho decisamente meno esperienza, la cosa mi sembra analoga, ma forse lì, oltre all’aspetto rituale/rassicurante, interviene in maniera massiccia la retorica, che, giustamente, è all’agguato non appena l’oratore (anche il prete nell’omelia) si rivolge a una folla.
Oltretutto, parlare di Bene in politica mi sembra errato. Si parlerà, e sarà già molto, di “struttura migliore” – non necessariamente in senso “socialdemocratico”, anche nel senso di una ristrutturazione radicale. Sarà sempre, al massimo, qualcosa di migliore.
Spero di avere chiarito. Adesso vado giù a fumare una sigaretta così dissipo l’odore di zolfo che mi circonda.
Postilla: L’articolo di Tarabbia cita due casi di Bene letterario a cento carati: Don Chisciotte e il principe Myškin. Ma la lettura che diamo noi del Don Chisciotte è una lettura che si è affermata in epoca romantica, non è quella di quando fu scritto. All’epoca, e per l’autore, Don Chisciotte è il “fuori di testa” di cui è corretto ridere e a cui è corretto giocare tiri anche feroci, e riderne, proprio perché è fuori di testa, non ha capito che certe cose (la cavalleria errante) sono finite, non ha fatto il passaggio d’epoca richiesto. Poi ognuno lo legge come preferisce, ma Cervantes non lo intendeva certo come un campione del Bene. Quindi, dei due, già uno lo possiamo stralciare.
@ Elena [Grammann]
Solo una precisazione. Ho scritto: «Non mi pare… e non so» a proposito della scelta luciferina, quindi al massimo ho espresso un dubbio non ho messo un’etichetta. (Tra l’altro solo per alcuni infamante. Ricordo che Rossana Rossanda rivendicava per sé l’aggettivo. E trovo la conferma sul Web qui: «“Luciferina” sempre, come amavi dire di te. “Luciferona”, come traducevo io, scherzosamente.Lea Melandri» (https://www.femminilemaschileplurale.it/antologia-per-rossana-rossanda/)
“E’ il contrario, semmai. Lei vuole impedire agli altri di esprimersi liberamente, sulla base dell’ideologia culturale di una sinistra forcaiola che oramai ha fatto epoca.” (Casati)
Ma perché fare un’insinuazione del genere? Perché attaccare sempre personalmente Elena Grammann e spingere verso la rissa una discussione seria?
Caro Franco, o cambi tono o, se insisti, cancello i tuoi commenti.
@ Elena grammann. Vero, Bello e Bene (con il Giusto) sono quei principi generali che, da Platone, hanno la funzione di regolare e ispirare l’agire e i comportamenti umani. Sono principi regolativi, ispirativi, e non fatti, e sono solidali tra loro così che cercare un livello di vero produce una soddisfazione, un riempimento che chiamiamo bello. La letteratura, e l’arte, è un campo di attività in cui si esercita una particolare funzione conoscitiva: “La letteratura sarebbe dunque il luogo in cui si manifesta una verità del fenomeno nel suo qui e ora”, e “La verità del fenomeno in letteratura, e in generale nell’arte, assume per noi la forma della bellezza.”
Riguardo al bene però il post accende un atteggiamento che piuttosto è “critico”, limitante e circoscrivente. Il bene non viene inteso come guida personale e collettiva, o come ispirazione regolativa dei comportamenti. Piuttosto ti rivolgi a coglierne l’aspetto fattuale, quello della realizzazione/alienazione storica. Ispirata dalla secolarizzazione, vedi il bene come solidificato nella tradizione religiosa, in particolare per noi nel cristianesimo.
Circa metà del tuo post è dedicato a svuotare di verità e di bellezza il bene identificato in due aspetti: quello dei valori positivi consolidati e trasmessi, quello della retorica con cui quei valori sono ribaditi. Qui la letteratura svolge una primaria funzione critica, in quanto, come conoscenza dell’individuo situato, relativo a uno specifico qui e ora, è conoscenza di esperienza e non di principi assoluti.
Che non esistono, fuori dalla esperienza terragna e individuale/generalizzante con cui fabbrichiamo i concetti.
Ma infatti, ti obietto, vero bello e bene non si danno mai come sostanze compiute, sempre come principi regolativi, formali, categorie, non contenuti realizzati. In questo non differiscono vero e bello dal bene, e la letteratura, che li cerca e indaga, li usa allo stesso modo.
Prendo il tuo stesso esempio di Manzoni che commenta come autore il comportamento del suo personaggio Gertrude, facendo presente a chi legge una possibilità insita nel cristianesimo che la sventurata avrebbe potuto cogliere. Mentre tu Elena leggi in quel commento di Manzoni una sterile opposizione dei valori positivi alle scelte concrete della persona/personaggia Gertrude.
Tu stessa però riporti la lettura fatta da Zanzotto: “Manzoni è dunque presente sempre e ci sta davanti come una specie di indicatore, talvolta quasi oscuramente beffardo, di paradossi e di enigmi che saranno sempre e dovunque reincombenti”. Lettura che non evoca gli eventuali valori positivi del confessionalismo cattolico, ma i paradossi e gli enigmi che ci stanno, a tutti, sempre davanti.
Per lui la proposta religiosa cristiana appare come quel particolare tipo di conoscenza messo in campo dalla/dalle religioni, rivolto ai paradossi e agli enigmi eccetera.
Il che allineerebbe la letteratura e l’arte alla religione come campo di conoscenza, e perfino alla scienza stessa, se la definisci “nel senso kantiano o neokantiano di un infinito avvicinamento alla verità della cosa in sé”.
Infatti Paolo Di Marco conferma la letteratura come una “bella donna in un salotto di antan che a uno fa languidi sorrisi, con un altro si fa smorfiosa, con un terzo vereconda e altezzosa”, come in fisica, per Rovelli, “anche gli elettroni, i fotoni, le particelle quantistiche tutte si comportano allo stesso modo. Ma se non sono immutabili gli elettroni tanto meno possiamo veder così i soggetti, nè possiamo definirli una volta per tutte … anche l’io del romanzo non può che essere un io/noi mutevole, un nodo in un insieme di relazioni il cui scorrere lungo quei fili è il percorso del romanzo. Il bene, assoluto esterno, ne viene automaticamente cacciato”.
Perché tutto, perfino il tempo in cui si è prodotta la cesura tra cultura religiosamente fondata e laicamente indipendente dalla religione, come la ha prodotta la secolarizzazione, risiede, alla pari, solo nelle nostre teste, quel “crudele nemico … così orribile: con due sole gambe, due braccia, e una testa rotonda e pelosa”.
p.s.: Il tuo post mi ha sollevato un interrogativo: che rapporto c’è tra letteratura fiorita negli ultimi secoli come verità di individui situati e la storia moderna, agita da particolari individui eccezionali? Esemplari, tuttavia, in un rapporto di omogeneità con le masse (anche oggi nell’anonimato dell’uno vale uno)?
Cara Cristiana,
grazie del commento, che evidenzia molto bene certi aspetti con cui sono assolutamente d’accordo (es.il Bene e il Vero come principi regolativi. Sul Bello dovrei pensarci).
Su altri punti invece non sono del tutto d’accordo:
“Riguardo al bene però il post accende un atteggiamento che piuttosto è “critico”, limitante e circoscrivente. Il bene non viene inteso come guida personale e collettiva, o come ispirazione regolativa dei comportamenti. Piuttosto ti rivolgi a coglierne l’aspetto fattuale, quello della realizzazione/alienazione storica. Ispirata dalla secolarizzazione, vedi il bene come solidificato nella tradizione religiosa, in particolare per noi nel cristianesimo. ”
Non so perché, sembra che si pensi che ho parlato del Bene. Io non ho parlato del Bene, io ho parlato della rappresentabilità del Bene in letteratura e, più marginalmente, della sua espressione verbale in genere. Non mi pare nemmeno di aver particolarmente tematizzato il cristianesimo, se non nell’esempio di Manzoni, dove è lui che identifica il bene col cristianesimo. Quando parlo di riti è chiaro che la mia esperienza si riferisce a riti cristiani, poiché solo quelli conosco, ma credo che il discorso riguardi il rito in generale e così lo intendo.
“Circa metà del tuo post è dedicato a svuotare di verità e di bellezza il bene”. No, vedi sopra.
“quello della retorica con cui quei valori sono ribaditi. Qui la letteratura svolge una primaria funzione critica, in quanto, come conoscenza dell’individuo situato, relativo a uno specifico qui e ora, è conoscenza di esperienza e non di principi assoluti.” Sì, è così.
“Ma infatti, ti obietto, vero bello e bene non si danno mai come sostanze compiute, sempre come principi regolativi, formali, categorie, non contenuti realizzati. In questo non differiscono vero e bello dal bene, e la letteratura, che li cerca e indaga, li usa allo stesso modo.”
Che la letteratura cerchi e indaghi il vero, sono d’accordo; che indaghi il bello, cosa vuol dire? Per me il bello è il prodotto di una riuscita (anche se ovviamente mai definitiva) indagine sul vero (a meno che non si parli del bello naturale, ma questo è un altro discorso); che indaghi il bene, non so. Come fenomeno fra gli altri. Forse (forse) come orizzonte generale, ma non dicibile.
“Prendo il tuo stesso esempio di Manzoni che commenta come autore il comportamento del suo personaggio Gertrude, facendo presente a chi legge una possibilità insita nel cristianesimo che la sventurata avrebbe potuto cogliere.”
Cioè Manzoni dice al lettore che un’innocente condannata all’ergastolo dovrebbe rassegnarsi. Scusa ma mi sembra inaccettabile.
“Tu stessa però riporti la lettura fatta da Zanzotto: “Manzoni è dunque presente sempre e ci sta davanti come una specie di indicatore, talvolta quasi oscuramente beffardo, di paradossi e di enigmi che saranno sempre e dovunque reincombenti”. Lettura che non evoca gli eventuali valori positivi del confessionalismo cattolico, ma i paradossi e gli enigmi che ci stanno, a tutti, sempre davanti.”
Ma il passaggio che ho citato è appunto uno di quelli in cui Manzoni pretende di uscire dal paradosso e dall’enigma – a spese di una povera disgraziata.
“Per lui la proposta religiosa cristiana appare come quel particolare tipo di conoscenza messo in campo dalla/dalle religioni, rivolto ai paradossi e agli enigmi eccetera.”
Bene, allora lo faremo leggere nelle scuole confessionali, come lettura edificante. Uno scrittore non può fare astrazione dall’orizzonte generale del suo tempo, che non è il XIV secolo. Questo non significa ovviamente che Manzoni doveva scrivere un romanzo libertino, significa che un romanzo che, a un certo livello, è basato sulla Provvidenza è, a quel livello, un romanzo falso. (Scarsa o nulla importanza dei Promessi Sposi a livello europeo nonostante l’ottima qualità, superiore a quella di molti e più famosi romanzi europei coevi. Leopardi lo esportiamo, Manzoni no).
“Il che allineerebbe la letteratura e l’arte alla religione come campo di conoscenza”.
No, e in ogni caso non per le religioni rivelate o positive. Attualmente, e già ai tempi di Manzoni, la religione è un fatto individuale; l’arte e la scienza si pongono come universali o intersoggettive. Non nego affatto che la religione possa essere uno strumento di conoscenza individuale, ma se questa conoscenza deve essere utilizzata a livello intersoggettivo (letteratura), deve tener conto dell’orizzonte intersoggettivo del momento storico e possibilmente andare oltre, ma non sulla base visibile di un’ideologia individuale.
“Perché tutto, perfino il tempo in cui si è prodotta la cesura tra cultura religiosamente fondata e laicamente indipendente dalla religione, come la ha prodotta la secolarizzazione, risiede, alla pari, solo nelle nostre teste, quel “crudele nemico … così orribile: con due sole gambe, due braccia, e una testa rotonda e pelosa”.” Confesso che non ho capito.
Sul p.s. (e che p.s.): ci vorrebbe molta più riflessione (e conoscenze), ma direi che l’esemplarità sussiste e deve sussistere anche oggi. Non però una esemplarità di individui (come dici, tramontata), ma delle reti in cui gli individui sono presi. Con indicazione di una possibilità di uscirne? Non so. Io sono un’individualista feroce, ma è anche vero che sono vecchia (a proposito di de senectute…)
Non ribatto più di tanto, però…
Alla metà del tuo post dedicato a svuotare: ho contato le righe del testo. “Svuotare” perchè il bene idea regolativa è trattato *solo* sotto l’aspetto di retorica e ripetizione. Nulla invece sul bene come idea da perseguire nell’esperienza umana, se non come il bene della letteratura. Ma se la letteratura come campo di attività conoscitiva -è la mia tesi- vale quanto la filosofia, la scienza e la religione… non esiste il bene della letteratura ma il bene in generale.
Tanto innocente Gertrude non era: assassina, invece?
La religione come fatto individuale: è il portato della secolarizzazione. E’ senz’altro stata per noi una svolta culturale rilevante. Che poi oggi sia religiosa la politica internazionale, con il ruolo del vaticano in cui il papa attuale cerca intese con gli altri capi religiosi, islamici e ortodossi, per non parlare della politica difficile con la Cina, ti pare rinchiudere la religione nella coscienza individuale? O piuttosto farne, della religione -grandi rischi, concordo!- una faccenda politica di primo piano? (Della religione come atteggiamento verso gli enigmi e i paradossi…)
Quello che dici di non aver capito: mi pare che De Marco insinui, attraverso Rovelli, che anche la letteratura, come la scienza, e il tempo stesso (ne tratta Rovelli in Helgoland), sono costruzioni nella varietà conoscitiva, e quindi la letteratura -conoscenza dell’individuale situato- piuttosto che la filosofia (i concetti) o la scienza (le approssimazioni all’oggetto) … rimandano solo a noi, alle nostre forme e categorie.
Ma il mio tema non è il bene. E’ se e come il bene possa essere rappresentato letterariamente. Mi pare un’altra cosa. (Ma evidentemente la differenza la vedo solo io).
Quando Gertrude viene condannata all’ergastolo – cioè a una vita in convento, quello intendevo – non è un’assassina – anzi, è la condanna al convento a farne un’assassina.
L’idea che la religione sia o diventi una faccenda politica di primo piano mi dà i brividi. Per me fa parte degli incubi distopici. Ma ci si adatta a tutto.
De Marco-Rovelli: capito.
OK
@Cristiana Fischer
“Circa metà del tuo post è dedicato a svuotare di verità e di bellezza il bene identificato in due aspetti: quello dei valori positivi consolidati e trasmessi, quello della retorica con cui quei valori sono ribaditi.”
Scusa Cristiana, io proprio non capisco. Dov’è che io identifico il bene (il bene autentico) con la retorica del bene o con i valori consolidati e trasmessi?
Io dico che siamo infestati dalla retorica del bene, che il bene rappresentato in letteratura scade quasi inevitabilmente nella retorica (kitsch). Ma del bene in quanto bene non parlo neanche, se non per dire che in letteratura è difficilmente dicibile, o addirittura indicibile. E infatti il bene in sé non era il mio tema.
Io non ho mai sostenuto che il bene ha necessariamente la forma della retorica o dei valori positivi consolidati e trasmessi. Perché dovrei aver svuotato il bene di verità e di bellezza (che è un’obiezione abbastanza pesante)?
È proprio questo che volevo dire: che del bene in quanto bene non parli neanche, mentre di vero e bello ne tratti, per quanto riguarda la letteratura. Restando proprio nella letteratura, scrivi che “parlare” del bene scade nella retorica, non solo: parlarne “ripete”, come accade nei riti. Opponi cioè esperienza (eventuale: puntuale e estatica, scrivi) a rito. Non lo invento, lo scrivi tu. Del bene come valore regolativo, come di verità e bello, non tratti. Ma forse posso aver letto male.
Ok, adesso ho capito, grazie.
Mi dispiaceva, per aver criticato la retorica dei valori positivi in letteratura, passare per l’accoppatrice del Bene.
:- )
SEGNALAZIONE
Dalla pagina FB di Doriano Fasoli
Ho imparato che è troppo difficile da capire dove tracciare una linea tra l’essere gentile, per non ferire gli altri, e il sostenere le tue opinioni.
Octavian Paler, Abbiamo tempo per tutto (Novi Ligure, Joker 2014).
Non convengo: ricordando le vecchie “contraddizioni in seno al popolo”, e contro l’individualismo neoliberista dell’opinionismo selvaggio, il confronto dialogico mi pare la migliore strada praticabile.
“Dopo avere lungamente combattuto al servizio di Minamoto no Yoshitsune, il monaco Musashibō Benkei si ritirò a vivere in solitudine sulla cima di una montagna. Un giorno un viaggiatore curioso si inerpicò fino al suo rifugio e gli chiese perché mai rifiutasse il commercio con gli uomini e il civile scambio delle parole. «Perché» rispose Benkei «le parole sono inaffidabili e cambiano significato nel tragitto da chi le pronuncia a chi le ascolta». Poiché il viaggiatore taceva, intento a commisurare ciò che aveva detto Benkei con la propria esperienza, il monaco continuò: «Ma la cosa più grave non è nemmeno quella. Il guaio grosso» disse «sono tutte le cose che partecipano alla conversazione all’insaputa dei parlanti». «E quali sono quelle cose» chiese il viaggiatore stupito «che possono partecipare a una conversazione all’insaputa dei parlanti?» «La lista è infinita, ma te ne elencherò qualcuna:
le rane che gracidano nello stagno del giardino
un’ombra improvvisa gettata dalla luna
un dolore acuto all’alluce destro
l’acciottolio dei piatti lavati dalla sguattera
quello che ha detto poco prima tua moglie
il canto del merlo che imita l’usignolo
un formicolio all’alluce sinistro
una crepa sottile nella porcellana della tazza, che ieri non c’era
il sakè che stai bevendo
il sakè che non stai bevendo
una cosa che ti viene in mente all’improvviso
una cosa che non ti è venuta in mente durante la conversazione, ma dopo
le cicale agostane
l’aglio nel pasto della sera
troppa cipolla
una sensazione sgradevole perché l’acqua del bagno non era sufficientemente calda
una sensazione gradevole perché l’acqua del bagno era alla temperatura giusta
i parassiti sui crisantemi del giardino
la neve che cade e quella che deve ancora cadere
le mestruazioni di tua figlia
la stitichezza
un coltello che non taglia
un coltello troppo affilato che ti ha tagliato un dito
un’infinità di altre cose».
Il viaggiatore capì che Benkei aveva ragione e che la comunicazione fra gli uomini non poteva che essere qualcosa di distorto. Chinò il capo e si volse per andarsene.
«Non andartene» disse Benkei. «Mi fa piacere parlare con te».”
(Evaristo Duarte Palacio, Historias improbables, Buenos Aires 1931, traduzione mia)
Aggiungerei la vecchia fiaba sul re che nessuno riusciva a sentire perchè le sue parole venivano catturate dall’orecchio dei sordi….
Ma tornando al Bene, Male, Vero c’è tutto un filone di letteratura plebea che se ne occupa: il fantasy.
Il più noto è certo Tolkien col Signore degli anelli, ma fra un anno arriverà sugli schermi di Amazon anche una serie tratta dalle 14.000 pagine della Ruota del tempo di Jordan. Al centro c’è sempre la lotta tra Bene e Male, ma ha un carattere particolare: non c’è nulla di metafisico e non ci sono precetti.
I protagonisti da entrambe le parti agiscono il bene (o il male), non ne sono agiti.
Una morale molto laica quindi, dove sono le scelte degli uomini a contare.
E non a caso non ci sono chiese nè sacerdoti, neppure pagani (anche se ci sono altre serie dove riti pagani compaiono, ma dentro la stessa logica).
Più sottile una serie complessa come i Nove principi in Ambra di Zelazny, dove Bene e Male vengono sostituiti da ordine e caos, ed è anche, come la gran parte, un romanzo sull’ iniziazione e la crescita. E dove il risultato finale non è la vittoria dell’ordine ma la comprensione della relazione sinergica che ha col caos.
Mi sono dilungato perchè in questo ambito quello che chiami Vero mi sembra dinamico, come l’aderenza a una linea geodetica che attraversa un paesaggio frastagliato.
di cui la nostra coscienza è una dimensione
una delle dimensioni
Sono stata una fan del Signore degli Anelli fin dall’edizione Rusconi in tre volumi. L’ho letto e riletto infinite volte. Per me rimane un unicum, difficile da definire. Non avrei mai detto che avrebbe dato luogo a un “genere”; infatti qualcosa di fantasy che ho letto in seguito mi ha deluso, per cui ho abbandonato.
Quello che non mi ha mai convinto nel Signore degli Anelli (intendo filosoficamente, perché narrativamente funziona benissimo) è Sauron, il Male e gli Orchetti creature completamente malvage. Anzi mi sono stupita quando ho scoperto che piaceva moltissimo ai vescovi proprio per la lotta fra Bene e Male. Boh. Come si fa a pensare l’esistenza di un essere completamente malvagio? Misteri della teologia – e del fantasy. (Nel Silmarillion Tolkien dà dell’origine del male (di Sauron) una spiegazione analoga al mito degli angeli caduti).
Il Vero messo in luce dalla letteratura è senz’altro un vero mutevole, non condensabile in proposizioni; è legato a una varietà di rappresentazioni che sono arte, cioè artefatti – ma devono dare l’impressione del genuino, del non-artefatto. E’ così che acquisiscono un carattere di esemplarità.
Sulla coscienza come una delle dimensioni del “paesaggio”: temo di essere ancora troppo affezionata alla mia coscienza per mollare le redini. Insomma una specie di reperto archeologico…
Tolkien ha più che altro focalizzato un filone preesistente. Ma altrettanti lettori ha avuto Jordan (c’è chi sta rileggendo per la terza volta imsuoinquattordici volumi).
Si è sempre detto che Tolkien avesse riportato nel fantasy una sorta di metafora della guerra; ma lui non è il primo del genere nè l’ultimo; ognuno del male e bene dà una definizione propria, ma fondamentalmente hanno un ruolo di forze, senza ulteriore definizione. Come i campi di forza della fisica, solo che qui gli uomini scelgono dove stare..e cambiano anche parte (in Tolkien il mago bianco che poi si schiera con Sauron).
Ma c’è anche chi, come Martin del Trono di spade, bene e male li lascia tutti proprietà degli uomini.
E non è ancora tempo di buttare la coscienza sulle ortiche di paesaggi immaginari , basta che teniamo conto che anche noi siamo parte di quel vero che leggiamo.
E che forse il bello nasce anche dalla tensione fra la mutevolezza del vero e il gioco di specchi dell’illusione del sè.
C’è un volumetto (di Urania?) di tanti anni fa intitolato ‘trenta dî conta settembre’ (di Brown?) con una serie di racconti brevissimi deliziosi: tutti incontri che si svolgono di notte sulle panchine del Central Park.
In uno il protagonista è seduto vicino a un signore molto elegante e demodé dall’aria straniera che dopo qualche insistenza gli racconta la sua vita: ‘E’ una storia simile a molte altre: un paese lontano, un gruppo di amici brillanti e affiatati che si libera delle pastoie di un vecchio regime e prende il potere. In due, amici da sempre, sono il cuore del gruppo. Poi a poco a poco l’altro inizia ad accentrare il potere su di sè ed emarginare i vecchi amici, le tensioni si accentuano, i valori degli inizi si perdono. L’epilogo è drammatico, con la cacciata di tutti i dissidenti e una propaganda serrata che li dipinge a tinte fosche.’ Il protagonista pensa a un paese noto e si azzarda a chiedere il nome: ‘Mi chiamavano Lucifero’.
Quindi stiamo ben attenti quando scegliamo tra bene e male…..
Sì, c’è da stare attenti, e difficilmente la scelta è scontata…
Nell’ambito della grande letteratura Victor Hugo è uno fra gli scrittori che si sono sempre ispirati a valori positivi.
Mia madre, nata in Francia, sua grande lettrice, mi ha educato a questi valori.
Detto ciò, prendo congedo da Poliscritture, e volgo la prua del mio ‘vasel’ verso differenti approdi letterari.
Un sincero augurio.
Mi spiace, perchè punti di vista e sensibilità diverse sono preziosi.
Sono veramente dispiaciuta sia per il ritardo di questo mio intervento e sia perché avrei voluto fosse più corposo, o comunque adeguato alla ricchezza degli stimoli presenti in questo articolo di Elena Grammann di cui ho apprezzato la chiarezza e la precisione nonché l’evitamento di quelle ridondanze che oggi vanno di moda quando si ha poco da dire.
Il motivo è legato a problemi contingenti (di salute) ma anche ad una inquieta disposizione di animo per cui preferisco evitare, alla mia non più verde età, di entrare in querelle che lasciano il tempo che trovano.
Ho scelto quindi di selezionare questi cinque passaggi per esprimere il mio pensiero.
A)
E. G. “Lo scopo della finzione letteraria è invece di essere interessante.
La finzione le serve per concentrare ciò che nella realtà è diluito, disperso, poco visibile, trascurato dalle incombenze del vivere, e farne emergere la possibile verità. La parte di invenzione vera e propria può anche essere minima: l’importante è la concentrazione e organizzazione dei fatti in vista della manifestazione di una possibile verità delle cose.”
R.S. Sono perfettamente d’accordo. Annoto con una citazione (1) e una integrazione (2) tratta da un’altra disciplina, la psicoanalisi:
1) È del poeta il fin la meraviglia…», scriveva circa quattrocento anni fa Giambattista Marino, massimo tra gli esponenti della poesia barocca (e continuava “parlo dell’eccellente e non del goffo, / chi non sa far stupir, vada alla striglia!»). Correvano gli anni di Caravaggio, i Carracci, Reni, Domenichino, Guercino, e quella rima sarebbe stata valida anche sostituendo la parola “poeta” con il binomio “ogni artista”.
[Poi, con il correre del tempo, “il fin” sarebbe mutato, diventando dapprima “la sorpresa”, “il sentimento”, “l’emozione”, “l’ideale” (comunque espresso), “la realtà”, “il sociale”, “la pittura stessa”, per arrivare, ai nostri tempi, al “gioco dell’intelligenza”, “la riflessione”, “il far pensare”, con approfondimenti senza fine e senza confini]: questa citazione fra parentesi quadra è tratta da Wikipedia.
Spesso però oggi la maraviglia suscitata ha poco a che vedere con quello stupore, quell’intimo contatto con la bellezza fuggevole eppur presente, bensì con l’eccentrico, ovvero tutto ciò che esce dalla routine quotidiana. Presero così piede i virtuosismi di parole (e il settimanale “L’Espresso” ne fu un antesignano) con il risultato che – lo vediamo anche oggi – sotto l’attraente gioco dei calembour veniva a mancare lo spessore di contenuto. O, quando, come riporta Grammann stessa, i “giovani autori sembrano puntare invece sull’incomprensibilità, o ambiguità a oltranza, già a partire dalla grammatica e sintassi”. Oppure lo vediamo anche nel cinema, con l’abuso dell’effetto speciale fine a se stesso. Ciò porta, quasi inevitabilmente, verso gli scivolamenti (come la Grammann spiegherà più oltre) nell’estetismo (il bello per il bello) e nel kitsch (la non accettazione della caducità del bello e la sua temporalità).
Interessante anche la ulteriore sottolineatura che Grammann fa in un suo commento all’interno del quale (rispondendo a Paolo Di Marco) afferma: “anche nella scienza [è] analogo l’appagamento del “bello”, nel senso che entrambi [letteratura e scienza] derivano da un avvicinamento alla verità, verità con la minuscola. La verità letteraria è una verità del fenomeno qui e ora, ma nemmeno per la scienza si può parlare di verità assoluta”, poiché dopo un certo numero di anni la scienza deve cambiare i suoi paradigmi (Thomas Kuhn).
2) La finzione letteraria avrebbe – tra le altre cose – anche una funzione peculiare: illuminare una particolare verità, implicita ma non percepita. Ma non si tratta di raggiungere un “fine premeditato” (e, men che meno, educativo) bensì, attraverso una modalità specifica della produzione artistica, di entrare in contatto con l’inconscio, palesare territori sconosciuti. Perciò detta finzione è permeata sia dalla ‘condensazione’- quel concentrare citato più sopra – (dove una rappresentazione si appropria dell’investimento di parecchie altre), e sia dallo ‘spostamento’ (dove si crea una specie di ‘qui pro quo’ tra rappresentazioni). Queste sono le operazioni che, secondo S. Freud, intervengono nel lavoro onirico per accedere ad una ‘possibile’ verità profonda della mente.
D’altronde, come scriveva W. Shakespeare – La Tempesta (atto IV, scena I) -: “Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è raccolta la nostra breve vita”.
B)
E.G. “Tanto per incominciare dalla parte del vero – dell’assolutizzazione del vero. Chi ha già convinzioni profonde sul vero – sul vero eterno o sul vero adesso, ad esempio i credenti delle varie religioni o ideologie – sarà portato a rifiutare a limine, e quindi considerare “brutto” e non riuscito, tutto ciò che, nella struttura o anche solo nel dettaglio, urti la sua verità concettualmente strutturata, senza nemmeno cercar di capire quale verità del fenomeno si cerchi di far trasparire attraverso strutture o dettagli “urtanti”.
R.S. Concordo. C’è alla base una necessità di ‘assoluti’, radicata nella nostra esperienza evolutiva di “umani”, inizialmente inermi e pertanto bisognosi di certezze e di tutele a fronte delle nostre fragilità, sospettosi dei mutamente legati alle diverse contingenze della vita. Poi, in teoria, si cresce e si scopre che quell’assoluto, così investito di fiducia mescolata a ‘fede’, presenta anche una doppia faccia, quella del renderci prigionieri e che viene ben riassunta dal “Non avrai altro Dio all’infuori di me” di biblica memoria e, successivamente, Deus vult, o Gott mit uns, o la Chiesa (o il Partito) rappresentano un potere inappellabile.
Ben adeguata, a questo proposito, la notazione di Grammann la quale, a proposito della “volontà di teodicea” manzoniana, scrive:
“Qui egli [Manzoni] afferma che il fatto che la libertà, la dignità, il diritto alla felicità, e alla fine la vita di una persona siano calpestati, non è poi così grave. Infatti basta che quella persona si affidi a Dio, e Dio, già in questo mondo, ci metterà una buona, una buonissima pezza[4]. Può darsi che questo sia cattolico. A me pare una follia della teodicea a tutti i costi.
C)
E.G. A proposito del kitsch. Illuminante la riflessione introdotta: “Il kitsch è il prodotto di una pigrizia mentale che è anche una pigrizia morale” … E che naturalmente convoglia il suo contenuto di verità legato al fenomenico del passato, e dunque, quando lo si voglia riproporre così com’è, appare stantio, avariato, tossico. Però comodo, pratico, pronto: prêt à penser. Le cose di pessimo gusto non sono innocenti: sono profondamente colpevoli di connivenza con la menzogna.”
R.S. Ulteriore significativo passaggio che mi trova d’accordo: E.G.: “se ora a “kitsch” sostituiamo “retorica”, ci accorgeremo che il fenomeno non è affatto ottocentesco e superato, ma anzi molto attuale.
Quale retorica impera senza fatica, semplicemente mettendosi dalla parte “giusta”? E dispensa dalla riflessione e dalla discussione perché, una volta per tutte, ha scelto la parte “giusta”? È presto detto: la retorica del bene”.
E in questa comodità del prêt à penser (correlato del prêt à porter) viene a perdersi ogni connotazione di individualità e di pensiero libero.
D)
E.G. La verità del Bene. Rispetto alla (presunta) verità del Bene o del ‘bisogno’ di “Valori positivi” concordo con l’osservazione che “I problemi sorgono quando li si vuole dire: quando si dicono, suonano falsi”. E questo perché c’è uno iato, “uno scollamento evidente, sospetto, fra la parola e la cosa, come se le parole non arrivassero veramente a toccare la cosa, o, toccandola, la falsificassero” (E. Grammann).
R.S. E anche quando questi “Beni” vengono esibiti come ‘assoluti’ e ci sono i sacerdoti che ne attestano la ‘verità’, gli stessi “Sacerdoti” non sono più coloro che tutelano il sacro (sacerdos) dalle incursioni del profano (la protezione della intimità, la difesa dei limiti, il rispetto delle regole tutelandole dalla violazione) bensì i propagatori di una sola visione del mondo. E, anche sotto questo profilo legato alla protezione dell’intimità (del ‘sacro’) oggi assistiamo ad una specie di regressione, un mondo dove tutto viene esibito, mostrato né più né meno (ovviamente mutatis mutandis) di come fanno i bambini piccoli che disinvoltamente mostrano le loro pudenda.
E)
E.G. “Ma il mio tema non è il bene. E’ se e come il bene possa essere rappresentato letterariamente”. Invece “la letteratura non può che occuparsi del suo bene, che è la verità del fenomeno individuale nel qui e ora. Ogni bene che, venendo da altro ambito – politico, religioso, morale – pianti le tende nel suo accampamento, è un intruso che la deforma: quando va bene in direzione della retorica, quando va male dritto in quella del kitsch.”
R.S. Infatti, Il “Bene” non può essere rappresentato come valido “erga omnes”, altrimenti diventa un arbitrio, come si affermava più sopra, ma si piega ad una costrizione di massa (al basso) e a un potere (all’alto). E la letteratura non può prostituirsi a questo modello. Il ‘bene’ (così come il ‘bello’) attinge – o dovrebbe attingere – ad una esperienza personale, anche se passa attraverso una rappresentazione fruibile da tutti. Ma la omologazione a cui oggi siamo costretti ci impedisce ogni espressione di individualità confusa (e quindi ostracizzata) con l’individualismo.
Gentile Rita Simonitto,
la ringrazio moltissimo dell’attenzione. Le sue riflessioni e i suoi contributi, venendo, oltre che dalla frequentazione della letteratura, anche da un’altra esperienza e da un’altra pratica e disciplina, offrono un prezioso sostegno alle mie considerazioni.
Ho trovato in particolare interessante il discorso su “condensazione” e “spostamento” come operazioni che permettono di “palesare territori sconosciuti”. In effetti a me pare che il compito e la funzione della letteratura sia proprio di “palesare territori sconosciuti”, legati all’unicità dell’io ma resi fruibili per tutti.
Di condensazione parla anche Walter Siti, nel recente Contro l’impegno, a proposito dell’episodio di Cacciaguida (nella Commedia: “il testo più engagé della letteratura italiana”), per mostrare come “un groviglio di opposte tensioni tra sdegno politico e speranza di gloria, tra sangue e oro” diventi “pura bellezza” grazie al “mistero della condensazione per analogia”. E questo non perché, ovviamente, Dante conosca Freud, ma perché “da tempo si è abituato a sottomettere l’architettura dei testi all’ispirazione, cioè all’ascolto di un «dittatore» che gli «ditta dentro»”. Siti vede in questo una ineludibile caratteristica dell’autentica letteratura: “ammettere una subordinazione e una passività dell’impegno rispetto al farsi concavi per accogliere una Parola che non conosciamo ancora e non ci appartiene.” Mi pare che per Siti questa Parola sia la Parola dell’inconscio – dell’inconscio individuale e dell’inconscio collettivo della lingua.
Trovo anche molto ben individuata la “necessità di ‘assoluti’, radicata nella nostra esperienza evolutiva di “umani””. Necessità che si dovrebbe superare maturando, e anzi nel cui superamento consiste, a ben vedere, la maturità.
Un’osservazione, o meglio preoccupazione, sulla “omologazione a cui oggi siamo costretti [che] ci impedisce ogni espressione di individualità confusa (e quindi ostracizzata) con l’individualismo.”
Credo che i giovani sentano moltissimo il fascino dell’omologazione – del clone, dello stormtrooper senza volto, del Borg di Star Trek. Mi sembra che desiderino essere gestiti e pilotati. Ma a fronte di questa situazione preoccupante (a parte ogni alta considerazione: un impoverimento dell’umano), mi pare anche che quello che possiamo offrire come stimolo e spinta all’individuazione appartenga al passato, sia vintage… Dovrebbe emergere qualcosa di nuovo. Ma da dove?
La ringrazio ancora di avere condiviso con tutti le sue riflessioni e mi auguro di leggerla presto di nuovo.
Elena
SEGNALAZIONE
Su Contro l’impegno di Walter Siti
Scritto da Romano Luperini
https://laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/1437-su-contro-l%E2%80%99impegno-di-walter-siti.html?fbclid=IwAR3PCUd7-wKc20CyfMsyjreRoeLHh2z3AH2a4Op1YYMxseCCk89c6ZgrrTE
Stralcio:
Chiuso il libro, vorrei parlarne, se posso dirlo, all’ingrosso, senza entrare nel dettaglio, senza citazioni (se non di passi che mi sono rimasti impressi in mente), ma confrontandomi direttamente con la sua tesi di fondo, che ho riassunto sopra brevemente. Ho l’impressione che questa opera brillante e per molti versi intricante e acuta si fondi su una contraddizione non risolta. L’autore afferma di continuo che la letteratura, quando è artisticamente ben risolta, sta non nel contenuto, ma nella capacità della forma di conoscere il mondo, sempre in modo ambiguo, complesso, problematico. La vera letteratura insomma non offrirebbe convinzioni, ma smarrimento. E tuttavia poi l’analisi di Siti è sempre contenutistica: sembrerebbe, per esempio, che occuparsi delle vittime, farle parlare o far parlare i loro aguzzini, mettere in scena gli esuli e così via, sarebbe uno dei tratti più esecrabili del cosiddetto “neoimpegno”. La vittima sarebbe usata, ohibò, per una “visione sentimentale” del mondo, scrive Siti. Ma non è da secoli che la letteratura si occupa di questi temi, dall’Odissea e dalla Eneide ai Miserabili di Hugo sino a oggi? Rosso Malpelo incoraggia una “visione sentimentale” del mondo? Siti sa bene, e lo scrive a chiare lettere, che un testo può sostenere cause etiche e politiche “senza avvilire” (la litote è dell’autore) le potenzialità conoscitive della letteratura. E d’altronde la Commedia dantesca (opera incomprensibile senza pensare alla lotta del Bene contro il Male) sta lì a dimostrarlo. Rosso Malpelo è una vittima perseguitata tanto dal padrone, quanto dalla comunità; ma la grandezza del racconto sta nello stravolgimento per cui la sua vicenda è narrata dalla prospettiva dei suoi aguzzini. In quegli anni (in cui bisognava, fatta l’Italia, “fare gli italiani”) raccontare la storia dei bambini che dovevano imparare a lavorare e a integrarsi nel mondo degli adulti era un topos presente in Collodi, de Amicis, Capuana e molti altri, ma Verga lo riprende solo per rovesciarlo. Eppure Siti, quando passa dalla teoria alla pratica critica; sembra dimenticare la prima e seguire solo il proprio istinto di polemista. Così, per esempio, reso omaggio a Gomorra, intende ridimensionare la figura complessiva di Saviano scrittore. Ma che Saviano, dopo Gomorra, non abbia più scritto opere di sicuro valore letterario lo hanno dimostrato in molti (e io stesso fra questi), senza per questo avvertire la necessità di attaccare l’impegno che infesterebbe la letteratura contemporanea e limiterebbe fatalmente questo autore.
Non so come Luperini abbia letto Siti. La tesi di Siti mi pare essere che l’impegno non fonda la letteratura, che non è sufficiente a giustificarla – come è invece un po’ l’idea attuale di molto pubblico -, che ci vuole altro, categorialmente altro, per fare letteratura. Con questo sono perfettamente d’accordo.
Che l’analisi di Siti sia sempre contenutistica, come dice Luperini, non è vero, Luperini distorce scientemente.
Comunque, io leggo quello che mi piace. Se i patiti dell’impegno e Luperini, coerentemente, vogliono leggere il divino D’Avenia, facciano pure.
Segnalazion non porta pena. Ci dice solo che altri pensano diverso. (P.s. D’Avenia non è neppure nominato nell’articolo).
Segnalazion non pota pena, giusto, ma bisogna vedere quanta malafede e distorsione c’è nel segnalato.
P.s: infatti, non è nominato praticamente nessuno, a parte i big big big del passato, che così, un tanto al chilo, offrono la sponda praticamente per tutto. Comodo.
Unico nominato Camilleri: “Siti parla del poliziesco e attacca Carofiglio ma non nomina neppure Camilleri, che pure introduce nel “giallo” un problematicismo pirandelliano non privo di complessità”.
Ovviamente il poliziesco in quanto tale, e dunque Camilleri, non c’entra un tubo col discorso di Siti.
Luperini invece dovrebbe parlarne di D’Avenia, e dire cosa c’è che non va. O magari, appunto, non ci trova niente che non vada. Magari lo trova omerico.
D’altra parte la logica di Luperini è un po’ traballante. Es.: “Infatti, se una letteratura popolare e di consumo pensata per intrattenere e divertire è sempre esistita, a maggior ragione una critica aggiornata non può ignorare né le scritture di consumo né quelle di nobile intrattenimento più recenti perché, ci piaccia o no, proprio queste oggi vengono scritte, vendute e lette in abbondanza.” (qui: https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/793-%C2%ABla-letteratura-circostante-narrativa-e-poesia-nell%E2%80%99italia-contemporanea%C2%BB-di-gianluigi-simonetti.html)
Se qualcuno mi spiegasse il legame logico fra quel “se….” e il seguente “a maggior ragione”, gliene sarei grata.
Nel mio commento del 20 Maggio 2021 alle 9:50 scrivevo: «ci vorrebbe un vastissimo studio. Forse si dovrebbe partire dalla ‘Poetica’ di Aristotele (era lui che parlava di ‘catarsi’, no?) per arrivare a Sartre, a Pasolini, a Fortini (e non solo a Bataille!) e poi a quelli sulla scena: Saviano, Murgia, D’Avenia e Siti col suo «Contro l’impegno» appena pubblicato».
Da un articolo che mi era sfuggito vengo a sapere adesso che questo studio fatto da Gianluigi Simonetti, discutibile quanto si vuole, c’è e che Romano Luperini l’ha segnalato con una certa simpatia. Non mi sento di condividere il giudizio che Elena né dà (malafede, distorsione, logica traballante), specie se leggo l’intero articolo, che a me pare prenda atto: 1. dell’utilità di mappare o « osservare e descrivere la letteratura che ci circonda» compresa quella che non ci piace (o a me non piace) per cui condivido l’esigenza che «una critica aggiornata non può ignorare né le scritture di consumo né quelle di nobile intrattenimento più recenti perché, ci piaccia o no, proprio queste oggi vengono scritte, vendute e lette in abbondanza»; 2. della necessità di tener conto che sta prendendo corpo « l’idea di una letteratura che tende a velocizzarsi e a ibridarsi per mimare l’immediatezza e l’efficacia della comunicazione di massa e allo stesso tempo riprodurre quella contaminazione di linguaggi e materiali eterogenei»; 3. che non ci si può nascondere «la letteratura italiana degli ultimi decenni si è gradualmente e irreversibilmente allontanata dalla tradizione del Novecento».
P.s.
Se si ha voglia, con Luperini si può interloquire direttamente sul sito La letteratura e noi. E’ uno che risponde alle obiezioni.
dov’è il link simonetti? takke!
Il link all’articolo di Luperini sul libro di Simonetti è nel mio commento precedente. Avevo anche un pdf di Simonetti sullo stesso argomento en raccourci ma non lo trovo più.
Qui https://www.researchgate.net/publication/307815426_Come_e_cosa_desidera_la_narrativa_italiana_degli_anni_Zero
c’è un lungo saggio di Simonetti con una panoramica esaustiva: da Moccia a Trevi, a Siti…
Grazie, ci manca solo che mi metta a interloquire con Luperini.
Non condividi il mio giudizio sulla logica traballante, ma il nesso non me lo hai spiegato.
Su 1.2.3.:
1. Siamo sempre lì. Può darsi che la critica senta come proprio dovere di non ignorare nulla di quello che viene scritto, per la buona ragione che viene venduto (ma allora perché ce l’avete tanto col capitalismo? Stessa cosa è, no?). Il problema è che queste cose che non sono ignorate dalla critica, per il fatto stesso che non sono ignorate, visto che poi molto raramente vengono stroncate come dovrebbero, e non vengono stroncate perché vendono, e questo qualcosa vorrà pur dire, per il fatto quindi che non sono ignorate e non sono stroncate (ma sarebbe meglio ignorate) si trovano nobilitate, si trovano, i vari Moccia, Cardella ecc. nello stesso saggio con Trevi e Siti ecc. Questo è esiziale per la nazione. Se non lo capite non so che farci.
2. Questo punto non c’entra nulla con la qualità.
3.” «la letteratura italiana degli ultimi decenni si è gradualmente e irreversibilmente allontanata dalla tradizione del Novecento».” E per forza, e ci mancherebbe, e chi vuole tenerla nella tradizione del Novecento? Ma, di nuovo, questo non c’entra nulla con la qualità.
Però mi sembra che ci stiamo allontanando dal punto. Poi a me non piace parlare in astratto. Siti critica un certo fenomeno, molto ben caratterizzato, con nomi e cognomi. Mi dispiace di essermi lasciata trascinare da una segnalazione che riferisce in modo a parer mio inesatto il punto di Siti e ingloba un fenomeno che ha determinate e precise caratteristiche nel generico calderone della decadenza delle lettere:
“Una mutazione probabilmente c’è stata assai prima dell’ultimo ventennio, a partire dal postmodernismo, ma riguarda la scomparsa dello scrittore-intellettuale, la mercificazione ormai totale del genere romanzo e, di conseguenza, l’abbassamento drastico della qualità letteraria. Si vedano i nomi dei finalisti allo Strega negli anni sessanta del Novecento (Fenoglio, Volponi, Primo Levi, Natalia Ginzburg…) e quelli degli ultimi dieci o quindici anni, e si capirà quale mutazione genetica ci sia stata.”
Chi è qui il nostalgico, il crociano e il rassegnato? E soprattutto quello che fa di ogni erba un fascio?
@ Elena [Grammann]
1.
In passato su Le parole e le cose ho polemizzato varie volte con Simonetti ma, per quel che qui si sta discutendo, condivido con lui e con Luperini che la critica debba fare una mappatura preliminare la più completa possibile dell’esistente letterario (e paraletterario); e se una tale ricerca fa capire meglio quanto il capitalismo abbia sottomesso a sé la letteratura, è un buon risultato, indipendentemente dall’atteggiamento anticapitalista o filocapitalista dell’autore della ricerca e dalle scelte che faranno autori e lettori.
2.
Stroncature. Teniamo i piedi per terra. Se la parte più influente della critica non stronca certi libri («i vari Moccia, Cardella ecc») « perché vendono», vuol dire che è d’accordo con il mercato, approva soprattuttoi libri che vendono e fa da supporto alla produzione capitalistica di libri indipendentemente dalla loro qualità.
3.
Le stroncature alla Siti fondate sulla difesa della qualità letteraria e della visione di una letteratura mirante alla conoscenza e non al consolidamento del risaputo hanno inevitabili tratti corporativi e nostalgici, presenti anche in filigrana in Luperini e forse in tutti noi. E’ comunque la tradizione del Novecento che in fondo si ha presente. O una funzione alta della letteratura oggi messa in crisi.
P.s.
In una scambio su FB è venuto fuori il nome di Kundera e il richiamo ad un suo famoso discorso del 1985, da cui stralcio:
“Un’ottantina d’anni dopo che Flaubert aveva immaginato la sua Emma Bovary, negli Anni Trenta del nostro secolo, un altro grande romanziere, Hermann Broch, parlerà dello sforzo eroico del romanzo moderno che si oppone alla marea del Kitsch ma è destinato a esserne sopraffatto. La parola Kitsch designa l’atteggiamento di chi vuole piacere ad ogni costo e al maggior numero di persone. Per piacere, bisogna confermare quello che tutti vogliono sentir dire, bisogna confermare quello che tutti vogliono sentir dire, bisogna mettersi al servizio dei luoghi comuni. Il Kitsch è la traduzione della bêtise dei luoghi comuni nel linguaggio della bellezza e dell’emozione. Ci strappa lacrime di intenerimento su noi stessi, sulle banalità che pensiamo e sentiamo. Oggi, dopo cinquant’anni, la frase di Broch è ancora più vera. Data la necessità imperativa di piacere e di ottenere così l’attenzione del maggior numero di persone, l’estetica del Kitsch; e a mano a mano che i mass media avvolgono e infiltrano tutta la nostra vita, il Kitsch diventa la nostra estetica e la nostra morale quotidiana. Fino a non molto tempo fa, l’essere moderni significava una rivolta non conformista contro i luoghi comuni e il Kitsch. Oggi la modernità si confonde con l’immensa vitalità dei mass media, ed essere moderni significa uno sforzo accanito per essere aggiornati per essere conformisti, per essere ancor più conformisti dei più conformisti. La modernità ha indossato la veste del Kitsch.”
( da https://mabastainsoma.blogspot.com/2018/09/larte-del-romanzo-milan-kundera.html?fbclid=IwAR17-BinST2v5mDYlopapIWvdK4xbZ_Sqae64tdtxxDIEw29cEqoofuMVac)
Ma tu il libro di Siti l’hai letto? Solo per informazione, perché mi sembrava di aver capito che non lo avessi letto.
Potrei rispondere punto per punto. Oppure cedere alla pseudo-scientificità democratica delle mappature – una parola che suona bene. Ti mette subito sul piano giusto. Fra parentesi anche Siti mappa. Mappa eccome. Mappa e poi valuta. Ahi, questo non lo doveva fare. Questo è corporativismo. Mappare corretto – valutare scorretto. Mappa mappa mappa mappa ma non valutare.
Francamente mi sono stufata. Di fermarmi ai preliminari. Alle mappature preliminari che non vanno più in là. Grandissima delusione, capirai.
Vado a rileggere il tuo narratorio a-nostalgico, post-novecentesco e kitsch (ma cristo, ci fosse mai uno che predica come razzola).
Se può consolare sul N.Y.Times di oggi A.O. Scott in ‘Movies are back. But what are movies now?’ riprende temi analoghi per il cinema, sottolineando come la pandemia abbia esaltato il predominio del cinema online (da Netflix ad Amazon a…) e con esso il trionfo del kitsch in tutte le sue varianti, ivi compresi i raffinati adattamenti ad personam . Rispetto a questo moloch certa letteratura fa molta tenerezza. Anni fa mia sorella faceva la revisione delle traduzioni di Harmony, di fatto riscrivendole da capo a piedi. Oggi non sarebbe necessario.