di Roberto Bugliani
Ho iniziato a leggere il libro di poesie di Gianfranco La Grassa, Luce e tenebra. L’effimero scandire del tempo (Piazza Editore, 2021), con curiosità mista a un certo stupore. Avevo già avuto modo di leggere i racconti che La Grassa aveva pubblicato, sotto pseudonimo, su Poliscritture, quindi raccolti in volume assieme ad altri (La Follia è vita, Piazza Editore, 2020), ma ignoravo il fatto che La Grassa, professore di economia politica alle Università di Pisa prima e di Venezia poi fino al 1996, prolifico studioso di marxismo e attualmente detentore del blog “Conflitti & Strategie”, in cui svolge analisi dei “conflitti nella formazione capitalistica globale”, scrivesse, o avesse scritto, poesia. Di qui la mia curiosità per questa silloge d’una certa consistenza che lo attesta, suddivisa in tre sezioni o parti (“Dolore senza tempo”; “Confini dell’esistenza”; “Orizzonti degli eventi”), che raccoglie nel complesso 68 testi di lunghezza varia ma sempre (o quasi) consistente.
Non recando le poesie data di composizione, non mi è possibile dire se l’esercizio poetico sia stato un compagno di strada di La Grassa, o se il suo eloquio lirico si sia esaurito nella fase detta con vaghezza “giovanile”, com’egli afferma nella prosa poetica in forma di prefazione scritta nella contingenza del rimemorare, “In cammino verso l’irraggiungibile”, e ribadisce nella quarta di copertina (“Queste poesie risalgono a molto tempo fa, quando l’autore era in età decisamente giovanile o all’inizio dei suoi quarant’anni”), anche se questa “strofa” a predominanza di settenari:
"Era giusto lottare per coloro che siedono lontani dalla mensa, privati dei pensieri, dell'intelligenza dei fatti?" (Altri verranno, vv. 6-10)
mi fa pensare a un autore maturo che rivolge a se stesso il quesito preludente a una sorta di bilancio politico-esistenziale. Per contro, invece, la freschezza della passione amorosa e il turbamento sensuale ( “il suo corpo è tepore giovanile”; “vorrei il calore di membra avvolgenti”; Se avessi lei; vv. 4 e 12) espressi dal poeta al pensiero di “lei”, presenza femminile vivificante (“la sete d’amarla” definirà il giovane poeta la propria passione in Sete d’amore, v. 9, istituendo una similitudine tra il suo sentire amoroso e uno dei principali bisogni vitali dell’uomo) farebbero pensare a una sorta di canzoniere degli anni giovanili. Un canzoniere petrarchesco, insomma, alla cui caratterizzazione soccorrerebbero il lessico aulico e lo stile ricercato dei componimenti (valga a titolo d’esempio il distico: “M’è sovvenuta la vetusta giovinezza, / un sopito piacere è corso al cuore”; Senso d’impotenza vv. 1-2; da notare, a corredo, nel primo verso, la fitta trama di dentali e labiali, e, nel secondo, che ha fattura d’endecasillabo classico, la notevole assonanza piacere : cuore e l’iterazione del complesso fonico cor-so : cuor-e), supportati inoltre da figure sintattiche della tradizione come l’anastrofe (“odoroso ti sarà il sentiero / e lontana da te si terrà l’angoscia”; Ancora lontani, vv. 29-30). Ma più che stabilire la prevalenza dell’una o dell’altra ipotesi di lettura nella fruizione delle poesie di Luce e tenebra, credo che sia la commistione di queste due età poetiche, che a risultato dà “la vetusta giovinezza”, per dire col verso sopra citato di Senso d’impotenza (e che ancora nella loro forma antagonista, dicotomica, come “vetusta saggezza” e “isola ridente […] la giovinezza” si presentavano in Lontana gioventù, ai vv. 8 e 11) a conferire a queste composizioni la loro identità complessiva.
La poesia di La Grassa s’iscrive di diritto nell’alveo storico-formale della poesia italiana del secondo Novecento. In quella stagione il discorso poetico lagrassiano affonda le proprie radici e a quella temperie rinvia il corso del suo dettato. Già per quanto attiene all’impianto metrico della raccolta, il verso di Luce e tenebra si apre su un ventaglio di misure sillabiche che va dalle forme metriche tradizionali (dal settenario all’endecasillabo le più frequenti, raro il senario) a misure eccedenti l’endecasillabo, le quali presentano occorrenze sillabiche dal dodici a quattordici versi. Sul piano metrico, dunque, la poesia lagrassiana compone una trama sillabica che alterna misure versali lunghe a misure della tradizione istituzionale. Ma più che una lettura metrica standard, e benché “la millenaria distinzione fra metro e ritmo [sia] uno dei punti delicati e difficili” (Fortini), i testi di Luce e tenebra mi paiono sollecitare una lettura a base accentuale, spiccatamente ritmica cioè, del verso. Difatti, il fulcro della versificazione di La Grassa va rinvenuto, più che nella sua forma metrica, nei suoi valori accentuativi forti, ossia in ciò che per praticità chiamerò qui ictus, ma che rinvierebbe a ciò che Fortini, nel suo saggio “Metrica e biografia” pubblicato sui Quaderni piacentini n, 2 del 1981, ha definito, riprendendo la nozione dagli studi di metrica anglosassoni, “centroide” (ossia “accento cui corrisponde un’enfasi logica o retorica”), perché più adatto a definire lo statuto in fieri della poesia secondonovecentesca. E, per tornare a noi, una lettura di questo tipo porta a individuare nel verso di La Grassa un ventaglio di occorrenze che va da tre a cinque accenti forti (molto meno frequenti sono i versi organizzati su 2 ictus).
Nel suo farsi storico-formale la poesia novecentesca, passata a cavallo tra Otto e Novecento attraverso la rottura dell’impianto metrico-ritmico tradizionale, reca tracce di quella fase di trapasso che si depositano su più livelli testuali. Queste tracce sono indipendenti dalla volontà del singolo poeta, e affiorano nei versi come testimonianze di quell’impianto e di quel passato. Va detto che il fenomeno è in relazione con la poesia novecentesca nel suo complesso, mentre nella poesia del XXI secolo tali tracce mnestiche risultano pressoché inesistenti.
Ora, in Luce e tenebra certe tracce mnestiche emergono in modo così pregnante che si può parlare in senso stretto di memoria inconscia. Qui ne proponiamo due manifestazioni, che riguardano la disseminazione di lessemi appartenenti all’Infinito leopardiano nei versi 5-9 della lagrassiana Apparenze: “Sto seduto con lo sguardo perso / nel Nulla infinito a me davanti; / la dolcezza m’invade, / senso antico di giovinezza ormai / caduta in disuso, ombra sottile / che offusca la felicità dell’ieri”, con l’avvertenza che l’incipit verbale: “sto seduto” è resa prosastica del leopardiano “sedendo”, e che la voce verbale “invade” in clausola al v. 7 sta in rapporto paronomastico col leopardiano “esclude”. Anche l’ossatura metrica endecasillabica dei due testi ottocenteschi è adombrata nell’inarcatura dei versi lagrassiani che, con opportuni accorgimenti di dialefe e sinalefe, si possono considerare endecasillabi (con esclusione, del v. 5 e, naturalmente, del v. 7).
Un secondo esempio di traccia mnestica forte è rinvenibile nel v. 1 di Qualcosa di nuovo: “C’è qualcosa di nuovo nel cielo stellato”, che rinvia al celebre incipit dell’Aquilone pascoliano: “C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole”, e che il v. 5 di Sete d’amore: “nel cielo azzurro alzare l’aquilone”, aveva anticipato, consentendo quella disseminazione testuale di parole e immagini propria della traccia mnestica.
La poesia di La Grassa appartiene al genere lirico. L’io poetico parla di sé con voce personale e toni intimistici come attestano già da subito i versi del primo componimento della raccolta, Se avessi lei: [vorrei] “assaporare il palpito dell’anima schiusa / al bene infinito che irrompe da me” (vv. 14-15). Come ha rilevato il critico letterario Northrop Frye, la poesia lirica finge l’assenza di pubblico, per cui non necessita di testimoni né di interlocutori effettivi perché, al netto della strumentazione retorica, il dire lirico del poeta non è dialogico bensì autoreferenziale. Ma in La Grassa questa caratteristica del genere lirico vale fino a un certo punto in quanto la prima persona singolare dell’eloquio lirico viene spesso controbilanciata, per dir così, dalla prima persona plurale, dal noi che si protende oltre l’ambito della “indivisibile unità” degli amanti (Il nulla tra noi) per compiersi come soggetto sociale, non già “puro spirito” ma membro del consorzio degli esseri umani: “Come puro spirito sarei lontano / dagli esseri umani e solo resterei, / inutile testimone di un amore devoto, / misero avanzo di sentimenti svaniti” (Enigma che attrae, vv. 22-5).
Il corsivo da me assegnato ai vv. 24 e 25 del componimento soprastante serve a richiamare l’attenzione su di un fenomeno piuttosto ricorrente nei versi di Luce e tenebra, che consiste nel far procedere il dettato per incrementi di senso veicolati da sintagmi, emistichi o unità versali e definiti sia in concordanza (dunque per perifrasi) che in contraddizione (per antifrasi) con l’enunciato poetico precedente, di base, come nei modelli seguenti (va precisato che l’enunciato poetico di base, in quanto per l’appunto enunciato poetico, può risultare già connotato da valori simbolici o metaforici): A) l’incremento di senso, che qui evidenzio col corsivo, è riscontrabile nei versi successivi l’enunciato poetico di base, come occorre in questo caso: l’annuncio d’una nascita / culla d’amore universale, / sorriso della notturna felicità” (Un segno del destino, vv. 36-8); oppure, quando l’accumulazione-articolazione di senso è dovuta a più versi successivi: “siamo scintille caduche, / istanti di fatua illusione, / sofferenza di memorie imposte, / intelligenza dello scarabeo” (Misteri insondabili, vv. 46-9). B) L’incremento di senso agisce nel verso successivo l’enunciato poetico di base, dando origine a una sua supplementare articolazione metaforica, come in: “trascino pesante un cumulo di macerie, / ombre cupe che l’orizzonte riflette” (Spenta è la notte, vv. 3-4); talvolta il verso fautore dell’incremento-articolazione di senso non è quello successivo l’enunciato di base, ma si ha una sorta di trascinamento a distanza: “Orizzonte bruno, silente, / s’accendono luci che bruciano in pianura, / gelida distesa di pensieri irrigiditi (Lo sforzo di capire, vv. 1-3). C) L’incremento di senso si manifesta nel secondo emistichio del verso, il primo essendo l’enunciato poetico di base: “la lontana adolescenza, empito di gioia” (Desiderio d’eterno, v. 11). D) Infine, l’incremento di senso converge nel sintagma in clausola di verso, qui a forte valenza simbolica: “mare morto, cupo, olio di pece” (Lontana gioventù, v. 10).
In questo distacco della voce poetante dal lirismo soggettivo, refertato in modo emblematico dal componimento Andare avanti che conclude la prima serie di poesie della raccolta, l’io del verso lagrassiano approda alla nuova dimensione sociale, collettiva, del noi, che è dimensione di lotta e di memoria della lotta: “Non cesserà la memoria della lotta, / della sofferta adesione alla luce / contro le tenebre della regressione” (Al di là della vita, vv.16-8). Ed è su questo livello sociale, e politico in senso lato, del discorso, che hanno luogo i consueti, e persistenti, doveri della quotidianità: “Saremo pronti ancora domani, / nell’incerto chiarore del fato, / al logorio che attende / la nostra vita consueta / in questo tempo grigio” (Multiforme inganno, vv, 13-7) e che si enumerano i motivi delle sconfitte: “Siamo rimasti pochi, / tanti caduti per ignavia, / per viltà, per sordida / smania di prepotenza” (In cammino, vv. 9-12).
Il timbro forte, da poesia civile, di questi versi, che il gioco versale d’assonanze e consonanze sostiene, come nel caso:
"Sarebbe tempo di fermáre il báttito d'áli, ma dobbiamo ancòra chiudere i cònti,
l’impegno d’una vita esige il compimento” (Se avessi lei, vv. 39-41; da notare il rapporto quasi anagrammatico tra i lessemi impegno e compimento), concorre a dar luogo, come suo esito naturale, a un futuro predittivo che con stile sentenzioso, gnomico, si dispone sui due crinali del dettato poetico lagrassiano; il crinale dell'”io” (a mo’ d’esempio: “Continuerò e non porrò domande, / quando calerà il sipario e riposerò / infine privo del materiale dolore”; Sete di solitudine’ vv. 34-6), e quello del “noi” (” Così abbracceremo tutta / l’insipienza possibile, / e il nostro amaro destino / si compirà nell’incoscienza / di evenienze non casuali”; Altri verranno, vv. 23-7).
L’insignificanza della vita (“Bisogna sapere la vita senza senso”; Lottare ancora), l’incapacità o l’impossibilità dell’io poetante di trovare un senso all’esistenza (“Manca la spiegazione all’animo inquieto […] Un significato, un significato manca / che dia senso al puro volare alto”; Oltre l’orizzonte), “l’inutile fatica di vivere” (Seducente inganno) contaminano il dire predittivo di Luce e tenebra volgendolo al pessimismo (in rapida campionatura: “Soli, con piaghe mai curate / trepideremo il nulla che s’approssima”, Senza sapere perché; “Andremo nel deserto / e siederemo quieti, / la gola seccherà, / cesserà la sofferenza”, Dove andremo; “Resteremo soli, miseri avanzi d’una vita”, Qualcosa di nuovo; “Riposeremo nel cielo sfolgorante / d’un tramonto di pura menzogna”, Multiforme inganno; “Dormiremo senza più sogni”; Effimere illusioni).
Ma la lettura da me fin qui fatta del verso di Luce e tenebra risulterebbe inadeguata a dar conto della complessità di senso della raccolta, se non si prendesse in considerazione l’altro versante di cittadinanza del futuro predittivo, ossia quello della visione: “Il notturno chiarore dell’anima stanca / mi orienterà a forzare il nudo limite, / non mi solleverò da quest’arida terra / ma guarderò in cielo la nuova visione” (Spenta è la notte, 25-8). La nuova visione, che il poeta consegue nel “forzare il nudo limite”, se da un lato ha temporalità incerta o, per meglio dire, è incollocabile temporalmente, dall’altro è collocabile spazialmente (in cielo), ma a patto di restare su “quest’arida terra”. E’ in questa visione dell’evento che si manifesta la positività del sentire poetico lagrassiano, il cui climax è espresso dalla poesia Sembravano fiori: “Il mondo sarà infine libero dall’infame / e le campane suoneranno a stormo / annunciando che la bellezza rifiorirà, / rivivrà la verità, il buon gusto, / la pulizia morale troppo a lungo negletta. / Saremo infine liberi, liberi dal marcio, / un nuovo prato di primule gioirà / e sarà festa tutt’intorno, la grande / festa dell’amicizia ritrovata” (vv. 22-30), posta quasi alla fine della terza parte, “Orizzonti degli eventi”, compendio ideale del futuro predittivo delle poesie di Luce e tenebra e trasformazione allegorica della trama metaforica intessuta dalla raccolta lagrassiana.
Il libro termina colla poesia Un segno del destino, non caso il componimento più lungo della raccolta, e sarà proprio la poesia posta a concludere gli “orizzonti degli eventi” e, con essi, la parabola esistenziale dell’io poetante, ad annunciare nel contempo l'”evento fatale”, primigenio, ossia la nascita del poeta. Preso in questa ciclicità dove inizio e fine si inseguono, il destino dell’io poetante si combina, mediante un gioco di ombre sulla superficie lunare che ne deciderà il futuro, con quello della nascita dell’amata, combinazione che è anche compimento: “mentre l’inavvertita ombra / nella Luna annunciava / che quel giorno era nata; / si compiva il mio destino, / dolente ma agognato, / ineludibile e più vero” (vv. 160-5).
Nulla, però, è pre-determinato. Nessun corso teleologico determina il destino tanto del singolo, dell’io poetico in questo caso, come quello collettivo del noi. Il futuro predittivo si dirama su più orizzonti (e non a caso “orizzonti degli eventi” si intitola la sezione finale della raccolta), è voce plurale, è dialettica di visioni, dove il sentire del poeta sta in bilico tra visione pessimista e visione ottimista dell’esistenza, del mondo, dello stesso Cosmo, ed è sbilanciato ora verso l’una ora verso l’altra parte (serenità e tristezza insieme, “serenità che è tristezza”; Un segno del destino). Spetterà dunque al poeta non solo prestar fede alla visione, ma tener fede a essa, a questa sorta di work in progress, e far sì che il proprio sguardo sia sempre orientato dalla visione, come una bussola la è dal nord.
“Io sono come Peter Pan […] Cerco di tenere nel mio orizzonte “l’Isola che non c’è“; perché per me non è una semplice utopia, un’aspirazione ideale (come in genere quest’isola viene pensata). Esiste, invece, è sempre in vista laggiù. E con un potente cannocchiale se ne intravede anche la struttura, e la vita (animale e vegetale) in svolgimento nella parte subito antistante quel mare che ci separa da essa. Solo che la barca in cui siamo non può giungervi perché il mare è in realtà una spessa massa di fanghiglia. E’ in questa che siamo costretti ad arrangiarci per vivere. L’isola si può soltanto guardare nella parte appena ricordata, ma è comunque una vista che solleva lo spirito ed è chiaro che laggiù esiste sul serio, non è un’illusione ortica”. (“In cammino verso l’irraggiungibile, pp. 11-2).