di Ezio Partesana
La retorica dei sentimenti è ristretta: chi ha cominciato, i morti, la dismisura; la retorica della ragione non ha chi possa essere convinto; il conflitto è una propaganda.
Gli attori, studiata la parte, protestano uguali e pretendono dal pubblico maggiore attenzione e applausi più forti a conferma che hanno dato tutto e non c’è altro da fare, anche se sono contenti di essere entrati in scena.
Da lontano sventolano le bandiere e gli appelli, se altro non si può fare almeno che ci si indigni; sotto le mura ottuse proclami ufficiali e telegiornali. Con eufemismo si chiamano imparziali quelli che dallo scontro ricavano merce da vendere, perché della grande distribuzione non si fida più nessuno, e gli acquirenti non mancano.
Si ripassano i miti e le favole dei tempi andati, quando non c’era l’aggressore e l’aggredito viveva in pace con se stesso e con il mondo; da qualche parte deve pur avere inizio la storia e in mancanza d’altro una data val bene come un’altra, un secolo o diecimila anni è lo stesso.
L’innocenza serve a dipingere, la colpa alla voce roca. Il terreno è piatto e semplice da comprendere, basta dimenticare ogni collina, fiume, dislivello e la mappa è fatta: due linee e due colori, non serve altro.
Il mercato ha bisogno di una iniezione di fiducia che può essere anche una tragedia; il mercato ha fiducia nelle tragedie. Basta che dalla porta rientri quello che è uscito dalla finestra e il resto son dettagli di poco conto. Non è forse vero che il male è libero di entrare purché se ne vada dalla stessa via?
La nobile arte d’essere due, qui e di fronte allo stesso tempo, è decaduta a gioco degli specchi, e comprasene uno, si sa, è cosa che tutti possono permettersi: insieme al panno per pulire la superficie vendono anche gli occhiali scuri.
Per solidarietà abbiamo smesso di indagare, i testimoni sono tutti oculari, non serve interpretare. Quel che conta è l’immagine che ondeggia gigante sul muro della caverna. E di potersi immedesimare.
La ripetizione è il senso, il dito la soddisfazione. La confusione fa scordare che nel piatto qualcosa dovrebbe pur esserci, per gli invitati, che faccia alzare dalle sedie e uscire a vedere. Invece si alza il tono, per accrescere il coraggio di stare in disparte, persino quando il cameriere sta già sparecchiando e non lo si degna di uno sguardo.
I sillogismi sono per il male maggiore, la premessa minore è uno slogan a effetto; scompaiono i potenti e i potentati, qui come altrove, in una litania dove il nemico del mio nemico è sempre un amico, anche quando ha venduto l’anima al diavolo insieme al resto.
I corpi servono per immaginare il sesso e la violenza, non ospitano altro che questo; come un manifesto appeso in strada devono essere visibili e far da desiderio, meglio se inconscio, dell’esistenza che non si possiede. La voce del sacrificio è bella, ai martiri si fa festa e le reliquie sono al sicuro.
La violenza viene esaltata, negata, sospirata: è una icona senza teologia e senza vergogna. A nessun Dio, politico o astrale, si chiede conto. Non ci sono decisioni da prendere. In un circo i numeri sono esattamente quelli previsti, dal buffone al giocoliere, basta avere pagato il biglietto.
Non si lascia fuori nessuno perché non c’è tempo, e sino a mercoledì prossimo la quarantena è una cosa da prendere sul serio, nonostante il mese gentile e gli altiforni.
Ai tavoli, seduti, una cosa passa per un’altra e dimentica cosa fosse prima. Nessuno balbetta, nessuno stona, nessuno scorda la partitura; il coro è perfetto.
Alle sette dii mattina apro le pagine del giornale, e non trovo altro che questo.
Non so perché, ma non l’avevo letto prima. Bello! Però “nel piatto qualcosa dovrebbe pur esserci, per gli invitati, che faccia alzare dalle sedie e uscire a vedere”, quindi c’è un fuori.
…si’, la testa capogira come su una giostra e chissà se ci sarà qualche fermo-immagine