di Luca Ferrieri
Durante le due stagioni pandemiche che abbiamo attraversato – e che più probabilmente rappresentano un’unica lunga stagione che non è ancora finita –, la lettura è stata frequentemente invocata come l’ultima dea, la redentrice del confinamento, il porto sicuro per eccellenza. Tutte le volte che assisto a queste investiture angelicate, magari sostenute da autorità ed enti pubblici che hanno sempre avuto scarsa cura della lettura, tremo dal profondo, domandandomi se lei (la lettura) sarà in grado di sopravvivere all’inevitabile fiotto di retorica e alla nuova chiamata alle armi. L’esortazione stantia a chiudersi in casa a leggere ha avuto lo stesso afflato dell’”andrà tutto bene” appeso ai balconi: roba da meritare una serie di gesti scaramantici.
In realtà le prime rilevazioni sulla lettura nel lockdown hanno mostrato subito un quadro molto diverso. Prevedibile e previsto (come il virus), ma non da chi avrebbe dovuto farlo: i medici da tempo chini al capezzale della grande malata, i lanciatori ministeriali dell’hashtag #iostoacasaaleggere, i professori in dad ma non sazi di schede e interrogatori, i social-attivisti sciamanti da una videopresentazione all’altra.
La prima inchiesta condotta da Cepell e Aie nel maggio 2020 riscontrò una situazione inattesa, nel senso che era contraria alle attese dei promotori: la lettura stava ohimè calando, proprio lì nelle tiepide case in cui era amorevolmente rinchiusa, accentuando il trend negativo che negli ultimi dieci anni l’ha contraddistinta. Se i lettori (i famigerati lettori di “almeno un libro” all’anno, i lettori made in Istat) nel 2010 rappresentavano il 46,8% della popolazione, a un passo dall’agognato sorpasso nel derby contro i “non lettori”, nel 2018 erano scesi al 40,6% (ciao sorpasso), e nell’aprile 2020 andavano ancora più giù. Quanto giù non è facile dirlo, perché per uno dei molti paradossi delle nostre statistiche sulla lettura, esse seguono metodologie diverse che spesso non consentono la confrontabilità. Inoltre la stessa Istat si occupa di lettura in diverse indagini, come quella quinquennale su “Tempo libero e cultura” e quella annuale su “aspetti della vita quotidiana”, che spesso danno risultati non convergenti. Proprio per l’insufficiente inclusività della categoria di lettore utilizzata dall’Istat, dal 2017 l’associazione italiana degli editori (AIE) e il Centro per il Libro e la Lettura (Cepell) hanno iniziato a classificare e contraddistinguere i lettori in un altro modo, sommandovi per esempio anche quelli che leggevano ebook o materiali diversi dai libri propriamente detti. Così i “lettori di almeno un libro” dell’Istat sono diventati i “complessivamente lettori” dell’Aie-Cepell, e il loro numero è aumentato arrivando al 62% della popolazione nel 2017 per scendere al 58% durante la pandemia; ma non è facilmente confrontabile con i dati delle inchieste Istat degli anni precedenti.
Qui sotto potete vedere la linea di crescita e di decrescita dei “lettori di almeno un libro” (Istat) nel corso degli ultimi vent’anni.
L’aspetto più critico di tale categorizzazione statistica è che, visto il carattere abbastanza lasso della definizione di lettore, il livello percentuale di questi ultimi manifesta un andamento fluttuante e perfino occasionale. Di contro, la tipologia dei lettori forti (“almeno” 12 libri all’anno), che sarebbe più ragionevole chiamare lettori tout court, mostra una maggiore stabilità nel corso degli anni, anche se ultimamente è anch’essa in calo, soprattutto nelle generazioni più giovani. In Italia ci sono comunque circa un milione e trecentomila persone che leggono più di 25 libri all’anno. Non è poco: come ha osservato una volta Citati, abbiamo livelli di lettura mediamente molto bassi, ma un manipolo di lettori forti e fortissimi (anzi, lui li chiama solo “buoni lettori”) che andrebbero trattati come una risorsa nazionale. Ma i lettori forti non piacciono molto all’editoria e alla industria culturale italiana, forse perché esse sono monotematicamente impegnate nella sfida di aumentare di qualche unità percentuale il numero dei lettori deboli o purchessia. Spesso i lettori forti sono considerati lettori “scontati”: qualunque cosa si faccia o non si faccia, ci saranno sempre, fedeli nei secoli.
Ma non è così: pensate cosa succederebbe se di fronte a certe malefatte editoriali, libri sciatti e mal curati, prezzi esorbitanti, specie nel digitale, ecc. ecc., i lettori forti scendessero in sciopero d’acquisto (lo so, non lo faranno mai…). Una diminuzione del 10% degli acquisti dei lettori forti, circa un libro in meno all’anno, “produrrebbe una perdita complessiva sul mercato del 3,6%”. Per molto meno gli analisti del mercato si sono stracciati le vesti. Questi dati, come i grafici riportati sopra e sotto, sono tratti dal Libro bianco sulla lettura (2020-21) prodotto e pubblicato da Cepell e Aie, e scaricabile gratuitamente qui. Ci troverete molte cifre, molti spunti interessanti, anche se probabilmente non una visione del futuro. Quella dovrete mettercela voi, e non è un male. Altre e ancora più recenti notizie in quest’articolo pubblicato sul blog “Libreriamo”.
Non è questo il tempo e il luogo per fare un’analisi critica delle italiche statistiche sulla lettura (per chi fosse interessato, ho provato a farlo nelle pagine 75-88 de La lettura spiegata a chi non legge; ma cose più autorevoli le ha dette Giovanni Solimine, per esempio qui e qui). In estrema sintesi e senza entrare nei tecnicismi, si può dire che il percorso disegnato da queste cifre mostra un andamento fortemente altalenante, coincidendo (e ribadisco che si tratta di una coincidenza, eh) con le ideologie che nelle successive fasi storiche hanno dominato il “discorso” sulla lettura. Così il paradigma delle magnifiche sorti e progressive del nuovo millennio, della cultura da bere, condito con la necessità di disporre di una crescente alfabetizzazione di massa per ragioni economico-culturali, corrisponde alla lenta ascesa statistica, punteggiata da continue cadute e ricadute, che culmina nel già citato risultato del 2010. Dopodiché la progressione si interrompe e inizia la discesa, anch’essa a zig-zag. Sembra la rimonta degli apocalittici sugli integrati. Infatti sulla scena è apparsa, anche se certo non per la prima volta, l’ombra della crisi e soprattutto la mutazione digitale. Per lungo tempo però l’ortodossia sociostatistica ha negato la relazione tra i due fatti e chi parlò di “fuga dei lettori verso il digitale” lo fece a suo rischio e pericolo. Tuttavia, il bisogno di un orizzonte culturale di “sviluppo illimitato” che l’editoria italiana, nelle sue componenti egemoni, ha tenacemente nutrito (basti pensare alla fede in “più libri più liberi” e all’ostilità sempre manifestata verso un’ecologia della lettura come “disinfestazione […] della biblioteca immaginaria e intimidatoria che ronza tra una parola e l’altra”, per dirla con Fortini, p. 288), ha portato finalmente ad accogliere nelle statistiche di lettura anche i lettori digitali e i cosiddetti lettori “morbidi” (sono quelli che leggono testi eccentrici o di serie B: opuscoli, harmony, ricette, istruzioni per l’uso ecc.) che prima sfuggivano alla conta.
La cosa curiosa è che, se confrontate l’inizio e la fine della parabola statistica, vedrete che, più o meno, siamo sempre lì: dal 36,5% del 1973 si passa (attraverso alti e bassi) al 40,6 del 2018, e guardate nel grafico seguente come si appiattisce la linea altalenante di quello precedente. Vista in questo modo, l’impressione è quella di un grande immobilismo sostanziale: naturalmente non è così, perché in mezzo ci sono stati corsi, ricorsi, tentativi e battaglie di ogni tipo, ma resta vero che quella statistica, in questo caso più che mai, è una semplificazione, una pacificazione di una realtà complessa e conflittuale che oltre ad essere poco conosciuta spesso è anche scomoda, soprattutto per gli “addetti ai lavori”.
Ma adesso torniamo al punto di partenza di questo post, che è quello della lettura pandemica. All’origine del sostanziale insuccesso delle strategie di promozione basate su un presunto potere salvifico della lettura, c’è innanzitutto il fatto è che la lettura non è un’attività inducibile a comando, non coincide con la decifrazione di un testo e nemmeno con la sua pronuncia mentale, per stare a due estremi della sua fisica. La lettura non si improvvisa, richiede anni di apprendistato e di artigianato, chiama a raccolta ragionamenti, sensi ed emozioni diversi tra loro. Non la si impara sul banco ma sotto il banco. L’idea che siccome siamo chiusi in casa e “c’è più tempo disponibile” (cosa tra l’altro rivelatasi falsa) si possa leggere di più; l’idea stessa che abbia senso leggere di più senza un che-cosa, un come e un perché; l’idea che la lettura possa funzionare come una medicina, uno scacciapensieri (anche se la lettura ha sicuramente degli effetti “biblioterapici” di cui parleremo un’altra volta); l’idea che la lettura sia meccanicamente “utile” contro un lutto, l’angoscia, la paura; la considerazione della lettura come un dispositivo disciplinare; ecco tutto ciò mostra la visione semplificante e riduttiva che abbiamo della lettura, e che è spesso tipica non dei lettori ma dei promotori.
Per chi ha la memoria lunga, o allenata, un equivoco simile era già sorto in alcune occasioni belliche, o forse in tutte, chissà. Era già successo, per esempio, con la prima guerra del golfo nel 1990, quando sullo schermo nero delle televisioni lampeggiavano piccole luci danzanti nel cielo, e la voce fuoricampo e il super-io ci avvertivano che erano bombe e non stelle. Anche allora ci fu qualcuno che intravide, incoraggiò, auspicò un affondo di lettura collettiva per capire, informarsi, sopravvivere all’imbarbarimento. Ma la gente non si precipitò in libreria a comprare Guerra e pace, diede l’assalto ai forni come è successo nei giorni della pandemia. E infatti, su twitter e social, nei mesi di marzo del 2020 è stato tutto un dilagare di messaggi allarmati: anche tu non riesci a leggere? come va con i libri? Le testimonianze dei lettori pandemici (si veda ad esempio: Francesca Borrelli, Il virus infetta l’inconscio della lettura; Chandra Livia Candiani, Con delicata cura; Ildefonso Falcones, Quanto vale un malato come me?; Wu Ming, Sisyphus; Gabriella Falcicchio, Lentius, profundius, suavius: ecc.) ci parlano di una stagione di grande difficoltà, sia nell’approvvigionamento che nell’ambientamento che nel godimento: la lettura, almeno inizialmente, galleggia su un mare ghiacciato, vede recise le motivazioni, i cordoni ombelicali, gli strumenti di confronto con gli altri. L’empatia, che è una molla così forte per la nascita della lettura, ora paradossalmente gioca contro: identificarsi con gli altri, sentire sulla propria pelle la malattia, l’ingiustizia e l’incertezza del mondo, questa volta esercita un effetto paralizzante.
Ma la storia non finisce qui. Nell’autunno 2020 viene realizzata una seconda parte dell’indagine (di cui trovate i risultati nel già citato Libro bianco) e questa volta tutti i dati della lettura sono in crescita, i “lettori complessivi” passano dal 58% di maggio al 61% dell’ottobre, che è un livello pre-covid, anzi superiore. E’ un’altra delle molte giravolte statistiche cui la storia della lettura ci ha abituato (si potrebbe intitolare anche così: La lettura prende per i fondelli le statistiche). E il botto avviene all’inizio del 2021, quando si tirano le somme dell’anno trascorso e si scopre che, a livello di fatturati (l’economia dei soldi veri, potremmo dire), contrariamente ad ogni previsione, il confronto tra 2020 e 2019 è positivo per un buon 2,4 per cento. Nonostante la lunga chiusura di case editrici, librerie e biblioteche, la fabbrica del libro chiude in attivo, perfino nel segmento dei libri cartacei. Questo risultato conferma inopinatamente la cosiddetta natura anticiclica dell’industria editoriale (l’indipendenza dai cicli dell’economia in generale, e in questo caso anche da quella degli altri consumi culturali). E non si verifica solo in Italia ma anche in altri paesi europei (si veda tra i tanti interventi quello di Solimine e Roncaglia, Il miracolo dei libri). Una parte del merito ce l’hanno le politiche “di sostegno della domanda” messe in atto dal governo, con una serie di “ristori” culturali, già in parte presenti nella L. 15 del 13 febbraio 2020 (Disposizioni per la promozione e il sostegno della lettura); una parte ce l’ha il digitale (che è cresciuto esponenzialmente); una parte, forse quella decisiva, ce l’ha la resistenza dei lettori.
Ma il bilancio della lettura com’è? Sarebbe un errore accontentarsi dello scampato pericolo e, anche in questo caso, vedere solo il termine iniziale e finale, plaudendo al ritorno della normalità. Quella che invece occorrerebbe è un’analisi ravvicinata dei comportamenti di lettura, che non si limiti agli aspetti quantitativi, e anche di questi sappia vedere luci e ombre. Per esempio: il boom del digitale. Esso ha consentito di continuare a leggere anche in periodi di chiusura di librerie e biblioteche, così come di trasferire parzialmente online la discussione sui libri e con i lettori, ma a prezzo di grandi e crescenti diseguaglianze, sia sul piano infrastrutturale che culturale. Prezzi altissimi sono stati pagati alla insufficiente alfabetizzazione digitale (information literacy) della società italiana, al fatto che usciamo da un decennio in cui l’editoria probabilmente non ha fatto molto, e sicuramente non ha fatto abbastanza, per favorire la conversione e la migrazione digitale. Nel lockdown le biblioteche hanno visto crescere i loro prestiti digitali del 122% (dato Mlol) o del 235% (Rete Indaco), ma la situazione reale vissuta da decine di migliaia di lettori è stata molto più scoraggiante: con una domanda cresciuta non del cento per cento, ma del mille per cento, l’iter del prestito digitale si è tradotto in mesi di code di prenotazione spesso senza vedere alla fine nemmeno il libro sul proprio ebook. Grazie agli iniqui meccanismi di prezzo e di protezione, imposti dagli editori, le biblioteche hanno visto una crescita notevole dei costi del servizio senza ottenere nemmeno la soddisfazione dell’utente. Era il momento di mettere in discussione il congegno del digital lending e il paradossale, conservativo, ideologico regime di proprietà intellettuale su cui si fonda. Ma non c’è stato un Biden nelle biblioteche pubbliche e nell’editoria italiana che riecheggiasse quello che lui ha fatto nel campo dei vaccini chiedendo la revoca dei brevetti (certo un gesto simbolico, ma che simbolo!). Nessuno che abbia reclamato la sospensione, almeno durante l’epidemia, del principio capestro dell’one copy one user, che impone, a dispetto delle potenzialità del digitale e dei diritti dei lettori, il prestito dell’ebook lucchettato dai DRM e a un utente per volta. Il tabù non è stato neanche toccato.
Per vedere se davvero la lettura ce l’ha fatta, bisognerà quindi dare un’occhiata al post-pandemia, se verrà. Magari capire che non ci sarà un “post”, forse ci sarà solo un passaggio da una pandemia all’altra, perché un dissesto planetario è alle porte, anzi in atto, e, per stare al solo profilo sanitario, la zoonosi incombente ci insegna che lo spillover è iniziato e che dovremo imparare a convivere con il virus e con le sue mutazioni, operando contemporaneamente sul piano della prevenzione e su quello della riduzione del danno. Immensi interessi sono al lavoro, fin dal primo giorno di lockdown, per ricostruire tutto come prima, arruolando la lettura in quella che hanno ripetutamente definito una guerra. Chi vede il vaccino o la lettura come salvatori, come se si trattasse di un gioco a rimpiattino tra virus ed anticorpi, tra ignoranza e conoscenza, ha capito poco o nulla della pandemia, temo. E’ il rapporto col virus che deve cambiare.
La lettura la sa lunga su questo, grazie al suo secolare rapporto con la sfera della malattia. Prima di divenire una “medicina” essa, infatti, è stata a lungo considerata una malattia. I medici dell’Ottocento diagnosticavano le scorpacciate di lettura come forme epidemiche, contagiose, i cui sintomi erano rintracciati in episodi di “malinconia, nervosismo, emaciazione, svenimento, tubercolosi, emorragia e suicidio” (si veda N. Aselmeyer, The Lazy Reader, 2016). E, ancora oggi, una delle stagioni più felici di lettura infantile e adolescenziale è individuata nelle cosiddette malattie della crescita, e nelle lunghe e intermittenti convalescenze che comportano. Anche il rapporto della lettura con l’immunità e con l’immunizzazione meriterebbe un capitolo a parte, a partire dalle acute considerazioni che all’immunità e a un mondo immunizzato dedica Roberto Esposito in Immunitas.
Le pratiche della lettura durante il coronavirus con la loro ambivalenza terapeutica (anche etimologicamente farmaco e veleno hanno radici comuni), con il loro eterno ed interno conflitto tra antagonismo e simbiosi, tra allopatia e omeopatia, hanno ordito una prima linea interpretativa di quello che stava succedendo. E’ quella preconizzata da Donna Haraway in Chthulucene: sopravvivere su un pianeta infetto: se non sapremo ibridarci, se non sapremo trovare le nostre “specie compagne”, i nostri simbionti (l’obbiettivo è generare parentele, non figli, ci dice provocatoriamente), se non sapremo dar luogo a un pensiero tentacolare e compostista, difficilmente sopravviveremo alla crisi dell’Antropocene. Con-vivere, con-fare, con-pensare (che è il contrario di compensare) sono le parole chiave che ci suggerisce.
Non è possibile vedere in termini semplicemente “polari” il rapporto tra salute e malattia, come quello tra “lettura” e “non lettura”. La vita sta nell’immensa zona di confine: più che separarle, le unisce.
PS. Questo post è stato troppo lungo. D’ora in avanti sarò breve (lo so, questa frase preannuncia sempre il peggio).