di Annamaria Locatelli
Pubblico nello spazio della mia rubrica l’articolo di un giornalista della rivista on line Pressenza Italia, Andrea De Lotto. Mi piace molto come e cosa scrive questo giornalista, che in una particolare occasione ho conosciuto e mi ha autorizzato a riprendere il suo scritto. L’articolo parla dell’istituto molto contestato del CPR. Ad esso ho accennato in una mia poesia (qui). (A. L.)
Siamo un po’ “Bocca di rosa”. Noi di Pressenza non facciamo i giornalisti né per noia, né per professione, lo facciamo per passione… e per etica.
Così cerchiamo di capire, ci addentriamo, a modo nostro “abbiamo tempo”. Essendo volontari, abbiamo poco o tantissimo tempo; dipende solo da noi, da quale è la nostra spinta.
In questi ultimi mesi il tema dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio ha coinvolto diversi di noi, chi a Torino, chi a Milano. Giriamo intorno a questi luoghi, non sappiamo se come api intorno ad un fiore o come mosche attirate dall’odore di escrementi. In particolare a Milano, in via Corelli, abbiamo chiesto di entrare: visita accordata, ma che è saltata più volte, per un motivo o un altro e da tre mesi aspettiamo.
Qualcosa lo immaginiamo, qualcosa lo sappiamo. Sappiamo che lì dentro c’è un’umanità; un’umanità nascosta. E noi siamo curiosi. Ci sono gli immigrati, ma ci sono anche coloro che li sorvegliano, un direttore di una cooperativa che ha vinto l’appalto, qualche immigrato assunto dalla cooperativa, qua e là un medico o un infermiere, qualcuno che entra con un furgone coi pasti, o con la biancheria (o forse no, è di carta, basta raccoglierla e buttarla…) Ogni tanto entrano i pompieri a spegnere un incendio, ogni tanto un’ambulanza a raccogliere qualcuno caduto dal tetto o che si è fatto più ferite degli altri. E poi ci sono tanti agenti di polizia, carabinieri, militari, tanti. Si, perché non credo ci siano guardie carcerarie, le quali forse hanno un minimo di formazione e che comunque hanno scelto quel mestiere. No, ci sono agenti in divisa che speravano di fermare malavitosi, mafiosi, delinquenti, ladri e assassini. Invece devono fare i guardiani della stalla.
Questi ultimi vorrei intervistare: chiedere come passano le loro otto ore. Immagino che cosa mi racconterebbe: magari che è entrato in servizio presto quel lunedì mattina, ha formato una coppia con un collega e hanno avuto un nome su un foglio o un bigliettino. A loro due quel giorno toccava prendere uno di quegli immigrati, uno sotto il braccio da una parte e uno dall’altra e salire su un pullman, direzione aeroporto. Certo il giovane che avevano affidato loro meno male non era troppo pesante e neanche troppo recalcitrante, forse non aveva un buon odore, ma questo si sa, ci si lava poco in questi posti e poi il sudore, l’agitazione… Comunque guanti e mascherine erano consistenti. In aeroporto una trafila neanche troppo lunga; è sicuramente più lenta quando arrivano, ma quando li si riaccompagna è veloce. Meglio fare in fretta. Sull’aereo si resta uno a destra e uno a sinistra. Le manette? Non sempre sono necessarie, ma ognuno di loro le ha in tasca, nessun problema. Che i “rimpatriati” siano un po’ “intorpiditi” è possibile. D’altra parte chi salirebbe volentieri su un volo che lo riporta da dove è scappato? Gente che ha speso tutto quello che aveva, si è indebitata, ha chiesto soldi a tutta la famiglia. E ora mi rivedranno comparire lì, che vergogna…
Agenti che decollano, un’ora e 50 minuti di volo fino alla Tunisia. “Come mi sento mentre accompagno quei giovani? Male, certo, a nessuno fa piacere avere a fianco uno che piange e si dispera, alcuni fanno davvero tenerezza. Altri digrignano i denti, altri sono strafottenti, saranno i primi a ritornare. In fondo penso a quando mio padre partì dalla Sicilia e venne a Milano, i terroni non li volevano, ha mandato giù bocconi amari. Così va il mondo. Mi spiace per loro. A cosa serve tutto questo? Non lo so. Mi sembra che sia come svuotare il mare con un cucchiaio, ma questo non scriverlo…” Scaricano il loro carico di esseri umani, veloci come fossero un servizio di consegna a domicilio. Da due agenti italiani passano tra le braccia di due agenti tunisini. Una bella disinfettata e via, si torna. “Nel viaggio di ritorno di solito dormo… A Malpensa risaliamo sul nostro pullman, anche quello lo hanno disinfettato, si torna in via Corelli, risalgo nella mia auto e vado a casa ad abbracciare i miei bambini. Non so perché, ma i giorni in cui faccio quei viaggi mi mancano più del solito.”
Ho origini venete. Si dice “Xe pèso el tacòn del buso”: è peggio la toppa del buco.
Sul serio crediamo di affrontare la questione delle migrazioni così? O stiamo solo facendo un esercizio propedeutico, non tanto per “loro”, quanto “per noi”? Quanta cattiveria possiamo immettere nella società? Piccole dosi, tastando il terreno, vedendo cosa succede. Ma intanto si va avanti, si guadagna terreno nel campo della “digeribilità del male”.
E’ un laboratorio e come in tutti i migliori laboratori, meglio che non entri nessuno a carpire possibili segreti. E quindi, come giornalista, per ora aspetto fuori, ma la passione resta…
P.s. Quando un contadino entra nel pollaio per prendere una gallina da mettere in pentola, scappano tutte. Come sarà il contatto tra agenti e immigrato quel lunedì mattina? Basterà chiamare il suo nome e si farà avanti?
Andrea De Lotto, Pressenza
Articolo pubblicato il 11 /06/ 2021 su Pressenza Italia ( è una rivista pubblicata in molti Paesi dl mondo) Autore: Andrea De Lotto: Nato nel 1965, milanese, maestro elementare, giornalista attivista: durante la Pantera, nel coordinamento genitori "Chiedo Asilo" contro le guerre; è stato maestro popolare in El Salvador nel1992, alla fine della lunga guerra civile. Ha vissuto con la sua famiglia 2 anni a San Paolo del Brasile e 10 a Barcellona dove ha partecipato a numerose lotte. Nel 2010 ha contribuito ad organizzare "Lo sbarco", la nave dei diritti da Barcellona a Genova...Attualmente vive e lavora a Milano insegnando, in una scuola statale, Italiano agli stranieri
Cara Annamaria,
l’articolo di Andrea De Lotto mi è piaciuto molto e ti ringrazio di averlo pubblicato. Questo De Lotto mi sembra una persona franca e sincera, spero quindi che non sia di quelli che, quando Carola Rackete speronò una motovedetta della Guardia di Finanza – non proprio una cosina da niente, e sicuramente non legale – sui social inneggiarono e pubblicarono brani dell’Antigone; ma se si tratta di emettere una fattura falsa da euro 30 (trenta) per aiutare una ragazza nigeriana a prolungare il permesso di soggiorno diventano improvvisamente rispettosissimi della legge e non lo fanno.
La quale ragazza nigeriana peraltro piange e si dispera quando sta per scaderle il permesso, ma appena l’ha avuto prolungato di un mese (1 mese) è già belle che a posto e non ha più una preoccupazione al mondo. Fino alla prossima scadenza in cui piange e si dispera ecc. Il suo ottimismo di fondo sembra radicato in una grandissima fede in the Lord. Quindi cosa stiamo a preoccuparci noi. Ci penserà the Lord.
Questo per ricollegarmi al discorso di Zhok citato da Ennio.
E’ tutto molto complicato.
Ringrazio Annamaria Locatelli e Andrea De Lotto per aver posto in evidenza una questione molto grave, quella delle prigioni per migranti, abilmente oscurata e/o offuscata dalla cultura dominante di oggi e di ieri.
Ho trovato poco fa una tesi di laurea abbastanza recente (c’è un aggiornamento datato febbraio 2019) di Alessandro Valenti leggibile interamente in pdf. Mi ha subito attratto un capitolo presente a pagina 12 intitolato “Trattenimento, rétention e altri 100 modi per non dire ‘detenzione’ ”
Dalla prefazione:
“La tesi ha vinto il Premio Acat Italia 2019, “Una laurea per fermare la tortura
e per i diritti dei migranti”, con la seguente motivazione: «apprezzando la
scelta di indagare, con rigore scientifico e passione civile, un fenomeno
emergente finora poco approfondito come la detenzione amministrativa dei
migranti e le gravi sofferenze che ne derivano, e di segnalare l’urgenza di
soluzioni alternative meno afflittive e più rispettose delle garanzie
costituzionali, dei diritti umani e della dignità della persona»”.
L’intera tesi è leggibile qui:
https://www.giurisprudenzapenale.com/wp-content/uploads/2020/02/Alessandro-Valenti-La-detenzione-amministrativa-dei-migranti.pdf
Grazie ancora ad Annamaria Locatelli e ad Andrea De Lotto.
Ancora dalla prefazione di Pasquale Bronzo presente nella suddetta tesi di laurea di Alessandro Valenti:
“Dall’analisi emerge un paradigma illiberale, diffuso in tutto il mondo e
legittimato nel diritto internazionale, per funzioni e procedure di adozione. La
detenzione amministrativa, funzionale al rimpatrio o ad altro risultato
amministrativo correlato al governo dell’immigrazione, è disposta dalle forze
di polizia e trova esecuzione, per periodi significativi, in luoghi simili a carceri,
nonostante lo scopo non punitivo. Le “prigioni amministrative”, però, sono
forse peggiori delle prigioni, essendo state sottratte ai presidi di dignità
riconosciuti ai detenuti dal diritto penitenziario. Così, sono pochi gli attori
nazionali che prevedono meccanismi di reclamo idonei a far cessare
trattamenti degradanti o contrari al senso di umanità.
Le condizioni di detenzione nei centri sono perlopiù ignorate dalla società
civile, considerate le restrizioni e i divieti che incontrano giornalisti e Ong
all’accesso nelle strutture, nonché la poca trasparenza che talora caratterizza
l’affidamento dei servizi ai privati (una regola, in Europa continentale, in
controtendenza rispetto al settore penitenziario).”
…cara Elena, hai visto giusto riguardo all’autore dell’articolo, e direi molto di piu’ in bene, conoscendolo. Pero’ non mi sento d’accordo con te sugli esempi…In genere, infatti, parto prima a considerare “il punto di fuga”, di cui ci ha parlato Donato Sarzarulo nel suo post, cioè il contenitore piu’ astratto di una situazione, in base al quale, su una bilancia con due piatti, pongo chi fa torto e chi lo riceve, poi passo alla visione dettagliata, con altri punti di osservazione da mettere a fuoco, senza peraltro alterare il quadro della prospettiva, dove allora possono intervenire quelle sfumature evidenziate nel discorso di Zhok…Certo il bene e il male è nell’animo di ciascuno, per cui puo’ succedere che sia complicato stabilire l’innocenza o meno delle persone…Pero’ riguardo all’esempio che fai della ragazza nigeriana che ogni mese si ritrova a “elemosinare” il permesso di soggiorno non mi stupisce se penso a come sono imbranata io con la burocrazia e la tecnica, pur conoscendo bene la lingua e con un bel carico di anni..Anche sulla capitana non mi pronuncerei visto che è stata assolta dalla legge della sua coscienza, dalla legge del mare, ma anche da quella del diritto penale italiano…
Cara Annamaria, il mio punto non era Carola, ma quelli che applaudono quando la legge della coscienza la segue un altro; quando però dovrebbero seguirla loro diventano improvvisamente legalisti. E sulla ragazza nigeriana, non si tratta del fatto che abbia bisogno di aiuto con la burocrazia, questo è assolutamente comprensibile. Il punto è che non hanno un minimo di lungimiranza o di progetto. Poi è chiaro che è una questione culturale, ma se ti occupi di loro può diventare anche una disperazione. Ma non volevo essere polemica, solo riallacciarmi a Zhok.
La cosa inquietante è la non-trasparenza dei CPR – che ricorda molto i lager: nessuno sapeva o voleva sapere niente. Ad esempio io non so un sacco di cose: chi ci finisce nei CPR, e perché? Ammesso che questi rimpatri abbiano un motivo, sono una goccia nel mare, che senso hanno?
L’unica cosa che so è che i decreti Salvini, puramente demagogici, non solo non hanno risolto niente, ma hanno dannatamente complicato le cose.
E bisognerebbe anche investigare i motivi dei migranti economici (che sono la maggioranza di quelli che arrivano da noi). Là sono convinti che se fai tanto di sbarcare a Lampedusa è fatta, e le famiglie cominciano a aspettare che gli mandino dei soldi. Conosco immigrati che non dicono alle famiglie che sono in Italia per evitare le continue e pressanti richieste di denaro. E i pakistani sono un paio si maniche e i neri un’altra, e quelli che arrivano da paesi africani francofoni sono diversi da quelli che arrivano da paesi anglofoni. Le cooperative che gestiscono gli aiuti e i soldi statali e comunali, anche quando sono di specchiata onestà, gestiscono in maniera burocratica e aziendale – potrebbero fare diversamente? Il problema è enorme, e il punto di fuga si sposta di continuo.
…gentile Subhaga ti ringrazio per le considerazioni e le informazioni preziose che ci riferisci sulla triste vicenda dei CPR…Riporti dalla tesi di laurea di Alessandro Valenti questo appunto: “Le prigioni “amministrative”, pero’, sono forse peggiori delle prigioni, essendo state sottratte ai presidi di dignità riconosciuti ai detenuti dal diritto penitenziario”, facendo cosi’ un confronto con la situazione nelle carceri che è molto giusto, se penso a quanto trapela, nonostante l’ambiente “impenetrabile”. Su questo punto vorrei pero’ lasciare la parola ad Andrea De Lotto, se è d’accordo, che ha molto scritto a proposito e partecipato alle varie manifestazioni di protesta per la chiusura di questi centri. Grazie ancora
Cara Annamaria, sono senza parole. Io credo che… l’Europa non possa accogliere tutta L’Africa e il Pakistan e… così via. E so bene che li hanno -e dico “hanno” perchè io non c’ero anche se forse ricavo dei frutti da quei “loro” che hanno… – li hanno usati per arricchirsi e forse arricchirci… e…
Siamo nella mer…
Punto. Immaginarsi quelli che stanno in via Corelli.
Così quelli intorno al muro sul confine del Messico. Così a Ceuta. Eccetera eccetera eccetera.
Com-patire? E che altro si può fare? Soffrire con quelli accompagnati da Andrea De Lotto? Con Andrea De Lotto?
Sì.
Il Sud entra nel Nord. Non troppo perchè già in Alaska e in Norvegia si gela. La Russia fa a modo suo, sfrutta il Nord alla grande: vie privilegiate, basi, risorse sotterranee (sottomarine). Che soffrano meno il freddo?
Non volermene: nessuno sceglie dove nascere. E morire -come e quando- dipende in grande misura da dove si nasce. La fragilità della vita umana è totale. A pensare, pensa uguale uno che nasce in Ciad e uno che nasce a Parigi.
Adesso io non so, non so, non so, non so, non so… Davvero la politica potrebbe fare qualcosa? Non precipitare in una miseria più nera ancora i viventi dei paesi da cui si scappa? Sì.
Vie di immissione legale e sorvegliata per quei pochi che si decide di accogliere? Sì.
Basterebbe? No.
Non so, ma se qualcuno ha soluzioni me le dica, che a essere convinta di soluzioni possibili ci tengo. Sul problema delle migrazioni, soluzioni possibili, vere, umane, comuni.
Altrimenti noi qui, i fortunati per essere nati qui e non in Mali o in Bangladesh, soffriamo e basta per loro. E intanto viviamo qui. Sempre più vecchi e teneri di cuore. E ci mancherebbe! Moriremo soffrendo intimamente per quelli che di sofferenza materiale stanno già morendo.
“Non so, ma se qualcuno ha soluzioni me le dica, che a essere convinta di soluzioni possibili ci tengo. Sul problema delle migrazioni, soluzioni possibili, vere, umane, comuni.” (Fischer)
Mi spiace, non abbiamo “soluzioni possibili” e non c’è nessuno che ce le dica. Né sul problema migrazioni né sul conflitto Israele-palestinesi. (Tanto per nominare due temi ricorrenti qui su Poliscritture anche in passato). Per questo dobbiamo continuare a interrogarci. In tutti i modi possibili. Non è vero che “moriremo soffrendo intimamente”. Le sofferenze ( le nostre diverse dalle loro) ci sono, ma non dobbiamo fermarci a quelle. Un compito c’è: “uscire di pianto in ragione” (Fortini).
Cfr. https://www.poliscritture.it/2016/12/28/noi-e-loro-nello-specchio-di-facebook-verso-la-fine-del-2016/
Con ciò non hai detto proprio niente! Uscire di pianto… è ciò di cui ho scritto, ma “… in ragione” è una petizione di principio. In pratica, dimmi:, in storia, in politica, in azioni… Ma la ragione, la dannata ragione, solo al pianto mi conduce, per la sua dannata impotenza. Che me ne importa di quella ragione che mi fa appprezzare i vari Andrea De Lotto, e che aiuta o salva 1, 2, 3… (sempre apprezzabile, assolutamente!) ma non riesce a risolvere un problema che riguarda 1,2, 3 milioni? o miliardi? E la Ragione qui, che ci può fare? Non hai capito che la mia domanda è proprio questa? Che ci può fare, la ragione?
A proposito di Israele-Palestina poi, avevo avanzato una possibile soluzione, affidata alla cronaca/storia, che Mannacio ci teneva a distinguere. La realpolitik si occupa *nei fatti* di risolvere, mai definitivamente, tra morti feriti bombe missili trattative, nel modo lento e tortuoso possibile… quello che sempre accade, come si può, come si riesce, come si contratta, come ci si barcamena, come uno vince e dopo vince l’altro. Direi che proprio pensare la separazione tra storia e cronaca è l’errore ereditato. Tutto avviene nel tempo, in un continuo trakkeggiare, tirare di qua e di là.
La Storia la abbiamo inventata noi qualche secolo fa, credendo di padroneggiare mondo e tempo. Direi che non vogliamo accettare i nostri limiti umani singolari e collettivi, che crediamo di padroneggiare il Destino e il Fato. Invece spadroneggiano quelli che possono, gli altri subiscono si sottomettono o cercano di sfangarla.
E’ finito il romanticismo, il superomismo, la tranquilla vita del plurale postmodernismo, il Conflitto, la Divisione sono di nuovo il dio che regge il mondo. Ecco la Ragione: meglio saperlo!
@ Fischer
“Con ciò non hai detto proprio niente! Uscire di pianto… è ciò di cui ho scritto, ma “… in ragione” è una petizione di principio. In pratica, dimmi: in storia, in politica, in azioni…” (Fischer).
Sarà petizione di principio ma non è «proprio niente». E comunque quel «dimmi» è enfaticamente fuori luogo. Non sono salito sul piedistallo di quelli che dicono di avere la soluzione.
A parte questo, alla tua domanda «Che ci può fare, la ragione?» mi pare facile replicare: e cos’altro, allora, può prendere il posto della impotente ragione?
Tu stessa, che dici di essere uscita dal lamento, dove vai a parare?
A proposito di Israele-Palestina accenni a una possibile soluzione di realpolitik. È forse la realpolitik fuori dalla ragione? Non è la sempre da te vituperata ragione che ci fa « accettare i nostri limiti umani singolari e collettivi»? Ed è forse da imputare alla ragione o invece proprio alla «distruzione della ragione» (Lukàcs) « il romanticismo, il superomismo, la tranquilla vita del plurale postmodernismo»? Infine, di fronte al Conflitto o alla Divisione che fai? Lo affronti con la ragione o sragioni o con che altro?
Non cogli la differenza tra Ragione e ragione. La prima è tramontata da quel di’: come incide la Ragione illuministica universale eurocentrica occidentale nei conflitti dai quali siamo -volontariamente?- estromessi? Volontariamente forse perchè non scendiamo sul terreno dei conflitti reali, come stessimo in una bolla di ricche trasparenze, da cui si guarda… anzi giudica e manda secondo che avvinghia.
La mia ragione singola invece, o la tua sua loro, ha senso solo se può intervenire e cambiare. In Israele? Con le armi che forniamo ai paesi all’intorno? Con il giudizio su Hamas che… mah, hai da segnalare chi fornisca un punto di vista affidabile?
La ragione piccola e individuale invece, è quella che, come fa Annamaria che dà conto dell’articolo di un giornalista per passione, può collegarsi a tanti… ma non “risolvere” una questione che al massimo si risolve in termini di potenza.
Ma che cos’è, quindi, la lezione della Storia, se non il conflitto tra potenza e empowerment, qualcosa che da millenni si chiama differenza tra potestas e potentia? Potestas Ragione e potenza ragione?
Una potenza che si apparenta con il possibile. Vasto è il range che deriva da posse.
Il massimo della mia potenza si estende a persone vicine, e per contagio a quelle vicine ad altre vicine: la politica del femminismo infatti è di contagio, orizzontale. La vecchia politica novecentesca era “risolutiva” con un cambio radicale che avveniva… non si sa come. A forza di prepararsi per quel tipo di cambiamento, si è trascurata la politica di contagio.
Non è che io “scelga” la ragione senza maiuscola, è verifica e insieme limite: non lo comandiamo più, il mondo.
Dopodiche ognuno nel suo faccia, come Andrea De Lotto, quello che può realmente fare e cui decide di dedicarsi. E’ probabilmente vero che delle buone intenzioni è lastricato l’inferno: per cui la cosa migliore è che -moralmente!- ognuno faccia in scienza e coscienza quello che ritiene il meglio che lei, lui, può fare.
p.s.: quanto alla “sempre da me vituperata ragione”… ma quando mai, ma dove… ma scherzi?
…Cristiana, non riesco a riconoscermi in tutto nelle tue affermazioni. Sicuramente concordo con te quando affermi che il mondo ci è scappato di mano… per cui dovremmo accettare i nostri limiti sulla possibilità di intervento, operarando secondo un sano realismo, cioè attraverso “La ragione piccola e individuale”. Sulla tua prima affermazione non ho dubbi, vista la situazione disastrosa in cui siamo precipitati, sulla seconda non del tutto, quando parli di limiti…Riguardo ai quali, secondo me, bisognerebbe fare delle distinzioni:
– se il limite ci arriva dalla nostra realtà di esseri umani mortali, condizionati in vari modi da età, energia disponibile, salute, mezzi a disposizione, spazio, tempo… va accettato, anzi difeso
-se il limite invece è imposto da fuori da parte di forze ed interessi in campo o occulte, la nostra ragione, in maniera non “piccola ed individuale”, deve chiarire e fare scelte opportune prima che sia troppo tardi
– purtroppo il limite, imposto attraverso violenza criminale e mistificazione, puo’ diventare nelle persone assuefazione e assumere la forma della ormai accettata “digeribilità del male”, come dice bene Andrea De Lotto..
Le scelte concrete di combattere, di opporsi, di mediare, di ragionare, di fare, di accettare, di aderire… dipendono in vari modi da quei limiti, per forza, ma non neccessariamente sottostanno…
Non credo di voler accettare il limite imposto attraverso violenza criminale e mistificazione e digerirlo! Qui però si apre il vero busillis: Andrea De Lotto denuncia e informa. Tu non rinunci mai, in nessuna occasione, a chiarire le situazioni storte che incontri. Io forse sono troppo pessimista, e il pessimismo non fa agire. Se non in una riduzione -credo- delle proprie illusioni. Quando ero giovane e “rivoluzionaria” mi domandavo come si accontentasse mia madre di non leggere tutto in termini conflittuali e politici. Si occupava di quelli che aveva vicini, di capirli profondamente, di sostenerli a vivere… figli marito sorella nipoti amiche e amici. Era utile? A questi altri, sì, in modo impalpabile. Cambiava il mondo? Scioglieva nodi che trovava vicini a sé. Lottava? Per andare e far andare avanti. Conosceva l’ingiustizia? Oh sì e si indignava.
Io parlo e scrivo più di lei, ma non sono “rivoluzionaria”, non sono assuefatta all’oppressione e so anche di essere una privilegiata sotto molti punti di vista: non ho fame e sete, ho un tetto sulla testa, non devo lottare fisicamente per sopravvivere come stanno facendo i lavoratori della logistica in punti diversi proprio ora, né muoio o ci lascio la salute davanti a un orditoio o nelle esalazioni di un pozzo. Tra “il mondo grande e terribile” (Gramsci, che credo facesse il verso a qualcuno) e la mia irrilevante persona si stende lo spazio della politica e tutti lo interpretano. Alcuni come gli struzzi, altri sputando veleno, altri manovrando nell’ombra, altri spadroneggiando con le loro bande. Io cerco come e con altri di capire e far capire. Essere e tenere svegli, dare l’allarme. Forse sono troppo cruda, ma non mi accresco illudendomi di stare cambiando il mondo con sdegno e proclami.
Non lo sto digerendo, ma è anche vero che o mangi la minestra o salti la finestra: cioè sei fuori e non conti davvero più nulla. È banale, ma la Storia occidentale parla di questo: a partire da Ovidio credo, vedo e approvo le cose più buone e faccio quelle meno buone. Vogliamo rendercene conto?
Alla fine divento moralista, succede, e spesso.
“Quando ero giovane e “rivoluzionaria” mi domandavo come si accontentasse mia madre di non leggere tutto in termini conflittuali e politici. Si occupava di quelli che aveva vicini, di capirli profondamente, di sostenerli a vivere… figli marito sorella nipoti amiche e amici. Era utile? A questi altri, sì, in modo impalpabile. Cambiava il mondo? Scioglieva nodi che trovava vicini a sé. Lottava? Per andare e far andare avanti. Conosceva l’ingiustizia? Oh sì e si indignava.” (Fischer)
Bello il confronto tra madre e figlia ma sbagliato nelle conclusioni. Perché finisce in una sorta di autocolpevolizzazione di sé e della propria generazione sconfitta nel suo tentativo di cambiare il mondo. La morale è: chi vuole cambiare il mondo (la figlia) lo peggiora, mentre chi (la madre) rispetterebbe una sorta di limite “naturale” fa bene, lo migliora o fa il possibile.
Eppure la madre ha rinunciato (pare in partenza) ad agire nello “spazio della politica”. E questa non è un’amputazione? Non ci ha provato ad agirvi perché non lo vedeva o lo temeva o perché altri (i maschi di casa, altre donne) glielo impedivano?
La figlia almeno ci ha provato ad entrare in quello spazio dove operano “alcuni come gli struzzi, altri sputando veleno, altri manovrando nell’ombra, altri spadroneggiando con le loro bande”.
E allora, perché coltivare il proprio giardino, come faceva la madre (e invitava a fare Voltaire, se non sbaglio citazione) sarebbe meglio che rischiare di finire morti o in carcere o disprezzati dai vincitori?
Chi lo dice che la posizione della madre è migliore di quella della figlia?
Lo è se la politica è ridotta esclusivamente a cieco e narcisistico oltrepassamento di un limite “naturale” (“ma non mi accresco illudendomi di stare cambiando il mondo con sdegno e proclami”) dimenticando che essa è stata, a volte ancora è e può tornare ad essere costruzione razionale (condivisa con altri) di un’alternativa possibile, sì, di un cambiamento del mondo in altra direzione da quella voluta da chi ha più vantaggi di noi.
Capisco che sostengo una posizione difficilissima, soprattutto da spiegare. “Tornare ad essere costruzione razionale (condivisa con altri) di un’alternativa possibile” e non è quello che ha fatto mia madre nella sua sfera, e faccio anche io?
Cosa intendi per “costruzione razionale”? Ho scritto: “cerco come e con altri di capire e far capire. Essere e tenere svegli, dare l’allarme”. Oltre a questo, cosa?, se non (fossi una lavoratrice della logistica sciopererei, manifesterei; fin che insegnavo stimolavo a prendere atto dei propri pregiudizi di comodità) guardare bene dentro i rapporti e la forza?
Ho “fatto politica” nel femminismo, che non è quella cosa elitaria e privilegiata cui tanti “sinistri”, insultando, mostrano di credere. Se le donne oggi, in tutto il mondo, parlano, agiscono, si ribellano, è merito del femminismo che ha insegnato che si può e si deve fare. Ancora oggi e fin che posso sosterrò e incoraggerò le donne a sentirsi e essere libere.
Ma le “dichiarazioni” astratte come la frase tua che ho citato all’inizio mi fanno sorridere, quando non mi irritano. Ma che predica è? Perchè non è proprio quello che sto facendo ogni giorno “costruzione razionale insieme ad altri di una alternativa possibile”? Ma -e qui casca l’asino- che cosa vuol dire “alternativa”? Che defenestriamo Draghi fisicamente? Che tagliamo la testa ad altri, io con Annamaria e Elena sferruzzanti sotto il patibolo?
L’alternativa è nelle teste, prima di tutto. Poi ognuno imbraccerà le sue armi dove e come vedrà la possibilità di farlo, tanti lo stanno facendo, negli ospedali nei media nelle associazioni. Quando ci sarà la guerra, allora ci sarà anche la rivoluzione, e allora… spareremo. Solo quella è la costruzione razionale di cui essere in attesa?
Forse la guerra ci sarà, altrove c’è. Volere la pace, attenti!, non può essere la globalizzazione precedente che ci ha portati proprio qui. Nemmeno l’austerità del “prima noi o prima loro” va bene.
Mi pare sempre di più che la politica debba essere la regina dei pensieri. E la politica è sempre stata, anche nel Machiavelli che in fondo pensava il “suo” prima noi, infiltrata dalla morale, non l’etica ma la morale dei singoli! Perchè sono sempre i singoli a fare la politica: attento Ennio a non attribuirmi pensieri che non ho. Non dico che la politica è affare individuale, dico invece che niente nel mondo umano si muove se non sulle gambe umane.
(qualche piccolo appunto: mia madre era del ’24, figlia di un gerarca fascista. Non tanto in grado di organizzarsi in senso politico “dopo”.
Non ho mai pensato che io ho peggiorato il mondo mentre mia madre rispettava un limite naturale. Lei rispettava, credo per rassegnazione, i limiti della sua storia personale, e ha sempre avuto ammirazione per me che facevo politica.
I fiori, poi, che non coltivo nel mio giardino, sono fiori selvatici con una, 1, rosa rampicante bianca (Josè Martì, Endrigo), l’unica sopravvissuta tra le querce. Fioriscono, stanno, fanno quello che riescono a fare, sono soprattutto… ginestre, quelle di Leopardi, che resistono sempre e a tutto, e profumano pure!
E anche Voltaire, tanto vituperato per il suo giardino, qualcosa che gli altri hanno usato e apprezzato ha pure fatto…)
E tanto per fare un esempio, preso al volo da una pagina FB, di conclusioni diverse…
SEGNALAZIONE
Lanfranco Caminiti
come tanti – ho avuto il “momento socialista” nella mia vita. ma sono stato anche chierichetto, e non per questo mi sono fatto prete. credo che il momento più autentico della mia storia sia stato quello dell’autonomia operaia meridionale. ma non per gli aspetti “gestuali”, iconici, che pure ebbero la loro importanza, la violenza per dire, su cui la storia, che prosegue per simboli, inciampa e si sofferma. quanto per quello “spirito” di libertà, di autentica democrazia, di decisione dal basso, di autodeterminazione dalle istituzioni, dalle leggi, dall’economia, dai partiti – e in una parola, di indipendenza – che quello stato di grazia presupponeva e poneva. una distanza siderale, una contrapposizione totale, una “nuova vita” che pure aveva la sua società, le sue norme, le sue istituzioni. essa ci apparve, aurorale, nelle grandi poche giornate di lotta – in cui la forza che mettevamo in campo aveva un carattere di distruzione di quella sodoma e gomorra che era lo stato nazionale e il compromesso storico. ma fu anche le minute cose della vita quotidiana, le assemblee, l’itineranza, il ritrovarsi in estenuanti discussioni, il fare e l’essere in comune: il molecolare costruire un nuovo mondo che pure non ebbe mai la luce. alla fine, credo che esso, il nuovo mondo, sia rimasto dentro di noi, che quel ciclo vivemmo, e non sia mai più sbocciato. è una fiamma di libertà che arde – magari solo un lumicino – muta e esemplare.
Bravo Lanfranco Caminiti! La nuova vita… il fare e l’essere in comune, il molecolare costruire un nuovo mondo: che invece nelle mie compagne di allora e di ora, altrochè se la vide, la luce! Andate, se avete coraggio, a riguardarvi i film di prima del femminismo, come erano rappresentate le donne! Una vergogna!
E anche oggi c’è tanto da fare, esempi: la legge 54/2006 con l’alienazione parentale, un altro siluro contro le donne e la maternità. Si guardi il video https://www.facebook.com/VeronicaGiannonePoliticaItaliana/videos/205779344735067/
mi capita, magari per carattere, di considerare troppo spesso la nube tossica che avvolge il pianeta, niente affatto naturale, ma talmente penetrante e nociva da paralizzare la ragione e inseminarvi una progressiva “digeribilità del male”, fatto che genera come minimo un sentimento di impotenza e di rinuncia ad ogni forma di utopia, a cui forse si riferisce Andrea De Lotto quando parla di “spinta”, per scrivere ed agire…Ma anche Ennio e Caminiti lo fanno. Escluderei pero’ il riferimento a colpevolizzazioni ed autocolpevolizzazioni, se mi rapporto al piatto di contenimento della bilancia, cioè quella, variegatissima e a volte complice, di chi subisce il torto… quella nube acquisterebbe un punto a suo favore: la guerra tra poveri, efficacissima per “la causa” dei vari Philip Morris. Con questo non dico che ci si possa esentare dalle proprie, grandi e piccole, responsabilità…
La parola-chiave è forse “utopia”. La politica è utopia? O prassi? Se è prassi ogni prassi è politica, e la razionalità valuta le azioni migliori in vista di fini concreti (anche se capaci di estendersi largamente) razionalmente presi in considerazione.
Se è utopia… in fondo si rimonta al rapporto tra creazione e Dio che c’era prima e al sesto giorno si riposò, e adesso c’è ma non si sa dove e come, tuttavia noi umani, in quanto creati a immagine e somiglianza, abbiamo una certa capacità di annusare… qualcosa… utopie…
La prassi invece purtroppo … razzola tra le nostre cose spesso solo miseramente umane.
https://www.milanotoday.it/cronaca/lettera-operatore-cpr-via-corelli.html
“”Si rinchiudono delle persone tranquille in ambienti freddi e sporchi, senza niente da fare tutto il giorno, senza contatti e senza informazioni, li si tratta come delle bestie feroci (sempre scortati dalle forze dell’ordine, tutti si devono spostare dalle porte quando vengono aperte, perquisizioni quando si entra e si esce anche dall’ambulatorio), poi le persone – scrive nelle sue considerazioni l’ex operatore – si ribellano e bruciano e distruggono, cosi arrivano ancora più forze dell’ordine in assetto anti sommossa, e le persone sono diventate ‘pericolose’ e il giro si chiude”.
(da https://www.milanotoday.it/cronaca/lettera-operatore-cpr-via-corelli.html)
E’ moralistico chiedere a ciascuno dei rubrichisti di Poliscritture di leggere questo articolo e di rispondere alla domanda: che relazione ha la notizia qui riportata con quel che pensi o fai?
Con quel che faccio. In che senso?
Con quel che faccio pubblicamente quasi nessuna relazione diretta, ma va anche detto che io non faccio praticamente nulla pubblicamente. Con quel che faccio privatamente sono, come si dice, fatti miei – e in ogni caso non ha rilevanza politica.
Con quel che penso: anche ammesso che la radice di tutto il male, come viene costantemente suggerito da queste parti, sia il capitalismo mondiale, io non ho nemmeno i mezzi per rappresentarmelo, né per rappresentarmi adeguatamente quelle che potrebbero essere le sue difese e le sue apologie. Io mi limito a pensare che il capitalismo, nostrano o mondiale, non avrebbe nulla in contrario se questi CPR venissero intanto gestiti meglio, il che significa finanziati meglio, soprattutto non dati in gestione a ditte, cooperative o associazioni che ci speculano, regolarmente ispezionati e aperti alla stampa; in una parola, io non credo che il capitalismo nostrano o mondiale avrebbe qualcosa in contrario se i CPR (dei quali non si capisce a cosa servano), come anche i CPT, smantellabili o no che siano, fossero nel frattempo gestiti in modo umano e degno dell’umanità di sorveglianti e sorvegliati. E non mi si dica che questa sarebbe una riformina socialdemocratica che non risolve niente. In attesa della grande rivoluzione che risolve tutto sarebbe comunque qualcosa, e sicuramente qualcosa di gradito agli “ospiti” dei CPR. E qualcosa di cui ci dovremmo vergognare un po’ meno.
Perché non viene fatto? E’ una cosa impossibile? Non credo proprio. E i motivi per cui non viene fatto non credo abbiano nulla a che fare col capitalismo, locale o mondiale, ma con certi lati deprecabili dell’indole nazionale. In ogni caso io scinderei il problema dell’esistenza dei CPR/CPT dalla gestione dei medesimi che sarebbe migliorabile già con interventi amministrativi.
Penso che articoli come quelli evidenziati da Annamaria e da Dario dovrebbero essere moltiplicati. Forse qualcosa smuoverebbero. Ma penso anche che la sostanziale “opacità” dei migranti non aiuti e che le motivazioni dei migranti economici andrebbero meglio indagate.
Infine penso che non vorrei essere nei panni di un “ospite” dei CPR, come non vorrei essere nei panni di un carcerato nelle prigioni magrebine, egiziane, turche, iraniane, irachene ecc., come non vorrei essere nei panni di un malato terminale di cancro, di un malato di sla, di un malato di tutte le altre malattie atroci da cui sono afflitti gli esseri viventi, come non vorrei essere una madre che ha perso un figlio, come non vorrei essere un sacco di altre cose che esistono e che forse mi toccherà di essere. E cose comunque a cui non posso pensare giorno e notte se no non vivrei più. E mi chiedo perché alcuni sì e altri no, alla faccia della manzoniana Provvidenza.
E gli altri, cosa fanno e cosa pensano?
intanto ringrazio Dario Borso per aver pubblicato sul blog la lettera-testimonianza di un ex operatore del CPR di via Corelli a Milano…cosa che ci permette di uscire dall’immaginazione per entrare nella reatà nuda e cruda del CPR, inimmaginabile…”Mai piu’ lager”, invece si’ lager e tra i piu’ degradati in Milano, la famosa città da bere…A scrivere queste considerazioni mi vergogno anche perchè, in questi casi, solo il fare puo’ avere significato, il resto è esercizio di moralismo…certo una domanda viene: chi siamo noi?
Siamo anche quelli dell’Etiopia, di Fossoli e della risiera di san Sabba, siamo quelli che non aprono canali legali di immigrazione e esportano i figli più coraggiosi e preparati. Vendiamo armi e facciamo guerre di pace. Io non ho mai fatto niente del genere, e credo nessuno qui.
Allonsanfan?
Bravo l’operatore e quelli che manifestano, seduti e testardi. Servirà, dovranno volerli sentire. La pena che mi fanno anche quei povericristi che stanno lì dentro come sorveglianti, abbrutiti. Per campare. Tenere conto di tutto, bisogna.
“Siamo anche quelli dell’Etiopia, di Fossoli e della risiera di san Sabba, siamo quelli che non aprono canali legali di immigrazione e esportano i figli più coraggiosi e preparati.” (Fischer)
No, scusa, quelli sono stati i fascisti, Minniti e, per l’esportazione non solo dei “figli più coraggiosi e preparati” ma anche di migranti ex contadini in miseria, un po’ tutti i capitalisti che hanno modernizzato e modernizzano a esclusivo vantaggio proprio e dei loro servitori più o meno complici.
Ma scusa quelli sono i “differenti”di cui ti prendi la responsabilità ideologica, in un ambito in cui dobbiamo – caxxo sì!- vivere tutti. In cui le misure dei cattivi le fanno i buoni e viceversa.
Ma al mondo non siamo tutti? Chi sbaglia e chi ha tracciato la via?
Proprio il modernismo interroga la pretesa di alcuni di essere meglio degli altri. Tu citi Del Noce ma non trai le conseguenze – logiche. Né da una parte né dall’altra. Vuoi essere di parte, io dico che le parti vanno spartite a valle, senza nessuna pretesa ontologica preliminare.
Per te ci sono i cattivi. Il male. Io dio mi stermini non ci credo. Il diavolo e l’inferno vorrei sapere CHI lo ha inventato.
Come ben sai il male o è sostanza o è mancanza. Per me la seconda. Non è sostanziale, è inconsistenza, debolezza. Tanto più occorre l’impegno di chi lo affronta.
Tu stai invece sulla condanna: chi ti dà la certezza dì essere nella parte giusta? Non hanno azioni umane i tuoi nemici? E i vecchi “complici” le donne i popoli razzializzati le bestie, non stavano forse fuori dalla tua parte che niente metteva in forse?
Mi pari un esponente di una vecchia oligarchia che non critica i suoi presupposti, non li vede.
E le nuove oligarchie, per caso, con i nostri precari strumenti analitici, le individui?
O stai ripetendo.
“Per te ci sono i cattivi. Il male.” (Fischer)
Perché insisti sempre ad attribuirmi cose che non ho MAI scritto? E non potresti sviluppare il tuo discorso senza tirarmi in ballo ogni poco?
Eh no! Qualunque opinione io esprima tu devi riclassificarmi tra gli orribili fascisti reazionari colpevoli di ogni infamita’. Cito: Annamaria scrive chi siamo?, io scrivo che siamo con quelli orrendi che da un tot hanno fatto schifezze, tu scrivi che quelli erano i fascisti, Minniti e il capitalismo. Io dico che siamo tutti insieme qui (anche se tu e io non abbiamo fatto niente del genere) e che quindi ci riguarda come storia e politica nazionale, anzi dico che ci riguardano persino i sorveglianti cattivi del Corelli, e QUINDI ti dico che separi arbitralmente i buoni dai cattivi… e tu te la pigli?
Ma almeno discuti se occorre comporre le contraddizioni in una idea di umanità complessiva o se va bene invece dividere le schiere dei buoni e dei cattivi come Minosse.
Se il male è sostanziale o mancanza.
Sono mica bruscolini. Mi pare che per te i cattivi siano cattivissimi da sempre e per sempre e siccome io dico che invece non sanno, allora per te io giustifico i cattivi e quindi sono cattiva anche io.
Discutevo di ciò, soprattutto perché sono stufa di essere sempre, da anni, relegata tra i cattivi dato che li considero ignoranti sviati.
Ma di cosa cavolo stiamo discutendo? Del male o di chi non lo condanna abbastanza con fuoco e fiamme gridando con voce tonante?
Un ultimo appunto e concludo: ho dovuto l’altro giorno fare una lunga spataffiata su quello che stavo leggendo per rispondere a una tua definitiva svalutazione: “Ma perché fare la caricatura delle posizioni che non si condividono o ridurre a clichè un pensiero (Marx in fondo è sempre quello il bersaglio) invece di criticarlo seriamente ?” Solo per dire che pensavo ad altre cose, e Marx c’entrava come i cavoli a merenda. Perchè lo hai tirato in ballo se non per svalutare quanto avevo scritto sopra?
@ Cristiana
Contestualizziamo. Questo era lo scambio:
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Ennio Abate19 Giugno 2021 alle 16:58
“Ma non li affrontiamo, come se ateismo (e panteismo), immanenza con il banale aspirare a trascendenze di corto raggio, rassegnazione alla mortalità e virile sfida alla stessa, ci potessero appagare. Come se, cioè, l’ingiustizia fosse affare contingente da risolvere oggi. Il cielo in terra: e domani che risorge.” ( Fischer)
Ma perché fare la caricatura delle posizioni che non si condividono o ridurre a clichè un pensiero (Marx in fondo è sempre quello il bersaglio) invece di criticarlo seriamente ?
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A me la frase : “Come se, cioè, l’ingiustizia fosse affare contingente da risolvere oggi. Il cielo in terra: e domani che risorge” ha fatto pensare alla solita critica liberale storicamente mossa a Marx, ai marxisti, ai socialisti. Tu invece pensavi “ad altre cose”. Meglio così. Basta spiegarsi.
Appunto, è quello che ho scritto: mi attribuisci, di tuo, la *solita* “critica liberale storicamente mossa a Marx, ai marxisti, ai socialisti”. Devo “sviluppare il mio discorso” ma capisci comunque quello che vuoi: sempre lo stesso cliché. Poco tempo fa ero mi pare madamina femminista e, vai a verificare, anche allora avevi equivocato quanto scrivevo.
Ma forse stavolta qualcosa lo abbiamo chiarito.
Come sai anche la mamma è cattiva e anche chi ama ti ferisce. Per carità, se uno mi fa del male reagisco -infatti…- ma non lo categorizzo, vedo di capire perché lo fa, prima di attribuirgli una intenzione deliberatamente malevola.
Sono con ciò complice del male? Dovrei scrivere come scŕivi tu, che hai chiari i cattivi prima ancora dei buoni?
Ma non posso.
Uno davvero nemico faccio fatica a individuarlo, mi pare che dialogo e persuasione potranno sempre costituire un terreno terzo di comunanza, per quanto piccolo spazio sia per piccole azioni.
E ogni volta che mi classifichi tra i complici dei cattivi, mi incavolo di brutto, ma penso anche che non hai capito… E ci ricasco.
Vedi un po’ se ora… hai capito.
“e QUINDI ti dico che separi arbitralmente i buoni dai cattivi… e tu te la pigli?” (Fischer)
Insisto. Ho scritto: “No, scusa, quelli sono stati i fascisti, Minniti e, per l’esportazione non solo dei “figli più coraggiosi e preparati” ma anche di migranti ex contadini in miseria, un po’ tutti i capitalisti che hanno modernizzato e modernizzano a esclusivo vantaggio proprio e dei loro servitori più o meno complici.”.
Ho ricordato le responsabilità storiche accertate e precise della guerra in Etiopia o del campo di concentramento di Fossoli o di chi (Minniti, PD) patteggiò con i libici per bloccare il flusso degli immigrati. Ho ricordato fatti su cui ragionare.
Minosse che divide i buoni dai cattivi è una tua sovrapposizione al mio discorso, che vuole essere di storia e non di morale.
E, proprio perché evito di personalizzare, non c’è una mia parola che sia riferita direttamente a te. Ti invito a fare lo stesso e ne guadagnerebbe la discussione. Se poi tu dalle mie parole trai deduzioni indebite (“io dico che invece non sanno, allora per te io giustifico i cattivi e quindi sono cattiva anche io”), liberatene.
“non c’è una mia parola che sia riferita direttamente a te” ti ho appena risposto, alle 17.18.
#a Ennio: noi siamo quelli che cerchiamo di comprendere e far comprendere quello che succede. Se poi qualcuno di noi sta scavando una galleria sotterranea per far uscire i dannati della terra temo che sia oggi un problema solamente privato. E quindi non politico.
Ma il comprendere non include necessariamente un giudizio. Anche perchè, sparita l’identità di classe, l’identificazione in questi tempi della sinistra coi buoni sentimenti è fastidioso e controproducente, accomunandoci a languidi adolescenti e pie beghine senz’altro da proiettare se non preci e sospiri. Per essere più chiari, ho sempre ritenuto che a pronunciarsi non debbano essere i singoli ma i soggetti politici.
Ma detto questo non credo dobbiamo sottovalutare questi campi, nè pensare siano solo frutto di un capitalismo un pò sgangherato.
Sono forme provvisorie e imperfette, come tutte le prime , di un muro/filtro che l’Italia innalza per conto di tutta l’Europa (e anche l’accordo con la Libia non è solo italiano) a fronte di una immigrazione che oggi è brezza e dopodomani sarà uragano.
Anche i campi di sterminio in fondo nascono nei cortili di casa di Krupp e IG Farben..poi si perfezionano.
Forse possiamo cercare di farlo capire.
Ahi! Sei addirittura più pessimista di me.
APPUNTO 1/ SPULCIANDO NELLA TESI DI LAUREA “LA DETENZIONE AMMINISTRATIVA DEI MIGRANTI” DI ALESSANDRO VALENTI SEGNALATA DA SBHAGA
1.
Già nella relazione di accompagnamento alla l. 6 marzo 1998, n. 40, che introduceva nell’ordinamento italiano il “trattenimento” dello straniero, il legislatore metteva nero su bianco che ≪I centri di permanenza temporanea sono estranei al circuito penitenziario≫. Il bisogno di effettuare tale espressa esclusione nasconde un’ammissione di fondo: i CPR giuridicamente non sono penitenziari, ma, di fatto, ne possiedono tutti gli attributi.
2.
“Gli Hotspots non esistono” (cenni) Per quanto riguarda i CPSA/Hotspots, li (dovrebbe) regola(re) la c.d. “Legge Puglia”, adottata quattro anni dopo l’ondata migratoria albanese del 1991. Su questa legge si tornerà ampliamente nel capitolo successivo. Basti considerare che non detta alcuna disciplina delle condizioni di accoglienza. Non vi è una sola norma nell’ordinamento giuridico italiano, neanche appartenente alla normativa secondaria, che si preoccupa delle condizioni del trattamento. I centri di frontiera costituiscono così dei blindspots dell’ordinamento giuridico, e ciò si traduce nel potere di fatto delle cooperative, delle forze di polizia e delle Agenzie europee di decidere sull’esercizio e la tutela dei diritti “inviolabili” 367 .
3.
Non esiste alcuna autorità giurisdizionale per i trattenuti nei centri di detenzione amministrativa, o meglio, a differenza dei sistemi nazionali sopra esaminati, come quello francese, tedesco e spagnolo, non vi è proprio un meccanismo di reclamo. Si tratta di un fatto gravissimo perché soffoca la voce di chi cerca aiuto oltre a rendere ineffettivi i diritti a loro (debolmente) riconosciuti. Così, il regolamento del 2014 sui CPR prevede che le visite si debbano svolgere nel presidio sanitario in modo da garantire privacy e tutela della dignità personale e che il gestore debba garantire il servizio mensa in appositi locali adibiti allo scopo. Tra gli altri aspetti, il regolamento si preoccupa della vigilanza interna ed esterna al centro. Sulla vigilanza esterna, prevede che ≪presso ogni Centro è istituito un presidio permanente di vigilanza e il Questore, d’intesa con il Prefetto, sentito il Comitato Provinciale per l’Ordine e la Sicurezza Pubblica, adotta i provvedimenti e le misure occorrenti per la tutela dell’ordine e della sicurezza all’interno del Centro e per impedire indebiti allontanamenti degli stranieri disponendo, altresì, un piano specifico al fine del ripristino della misura del trattenimento in caso in cui la stessa venga violata≫. Viene altresì disposto che il gestore debba organizzare attività ricreative, sociali e religiose ≪in modo da consentirne la fruizione giornaliera e in spazi appositamente dedicati≫. Diversamente, quanto alla privacy, come ≪ordinaria routine≫, il Garante, in visita ai CPR nel periodo febbraio-marzo 2018, riscontrava che i detenuti facevano le visite in presenza della polizia, nonché l’assenza a Torino di porte o tendine a separare i bagni dalla stanza o i gabinetti tra loro374. Quest’ultimo centro era l’unico tra quelli visitati ad avere dei locali mensa. Così, a Palazzo San Gervasio i trattenuti mangiavano in camera, sul letto. Nei CPR visitati dal Garante vi era un enorme problema di sicurezza per gli “ospiti” dei centri. Infatti, non vi erano sistemi di allarme funzionanti (anche semplici citofoni) che i detenuti potessero usare in caso di bisogno. Il CPT, in visita ai centri nel giugno 2017, riportava di aver ricevuto una serie di denunce aventi ad oggetto il non intervento nel caso di scontri tra detenuti. Questa sarebbe stata la situazione di Caltanissetta e Torino375 , una situazione gravissima che portava il Garante ad usare queste parole: ≪la sensazione è che gli stranieri trattenuti vivano in una sorta di stato di abbandono o comunque scarsa considerazione, lontani dal corpo fabbrica in cui sono gli uffici amministrativi, blindati all’interno del settore abitativo di assegnazione in balia di loro stessi≫376
4.
Il CPT visitava l’Hotspot di Moria ad aprile e poi a giugno del 2016, quindi poteva osservare nell’immediato gli effetti prodotti dalla Dichiarazione Ue-Turchia. Constatava che, nel periodo delle visite, il centro ospitasse circa 3.000 migranti, a fronte di una capienza di circa 1.500 posti629. Tra i casi emblematici che si presentavano alla delegazione nella visita ispettiva, vi era un gruppo di 43 persone, tra cui bambini piccoli accompagnati dalle famiglie e anziani, tenuti in una stanza di 46 m2 di un container. Vi erano addirittura tende da due persone che ne ospitavano fino a sette630 . Lo Special Rapporteur on the human rights of migrants, che effettuava delle visite di monitoraggio nelle strutture delle isole nel maggio dello stesso anno, utilizza il termine ≪shocking≫ per descrivere le condizioni di sovraffollamento nelle strutture di Moria e Vathy. A Moria trovava la stessa situazione riscontrata dal CPT in aprile, con la differenza che la capacità di accoglienza della struttura era portata a 2000 posti. A Vathy, nell’isola di Samos, il giorno della visita, lo Special Rapporteur constatava che una parte del centro era inutilizzabile. Quindi, a fronte di una capacità effettiva di soli 250 posti, vi erano circa 950 persone, tra cui erano comprese famiglie con bambini631 . A Moria ≪la situazione sta raggiungendo il punto di ebollizione≫, dice l’UNHCR il 31 agosto 2018. A quella data vi erano settemila persone, di cui un quarto bambini, per duemila posti di capienza. I dati forniti dal Ministero della protezione dei cittadini dicono che al 10 settembre 2018, a fronte di una capacità di accoglienza di 3100 posti, i migranti presenti ne lRIC/Hotspot di Moria fossero 8791 persone632. In un appello del 18 settembre di MSF si apprende che erano ormai ≪oltre 9.000≫633, di cui un terzo ≪bambini≫. Non mancano solo i posti letto ma anche gli altri servizi di base. In un documentario del giornalista Valerio Cataldi si raccontano talune delle sofferenze che i migranti, ≪prigionieri sull’isola≫ di Moria, sono costretti a subire: ≪Nel campo di Moria la distribuzione del cibo inizia alle 8:00. Le donne arrivano con le coperte intorno alle 4:00 di notte. Alcune dormono qui perché il cibo non basta mai per tutti e chi arriva tardi non mangia…La fila del pranzo si intravvede da lontano. Qualcuno si ripara dal sole con un cartone. Da qualche tempo hanno costruito una tettoia rossa che copra le gabbie dove la gente si ammassa per prendere da mangiare. Non succede mai che riescano a mangiare tutti…Il campo è circondato dal filo spinato. Fuori dal campo si sono sistemati gli altri, quelli che non c’entrano. Almeno 2000 persone che vivono in tende da campo in condizioni drammatiche. C’è una doccia per 84 persone, 1 bagno ogni 72 persone…La privacy è solo una coperta che separa le stanze…C’è solo un medico dentro il campo. MSF ha spostato fuori dal recinto la sua clinica in segno di protesta per gli accordi siglati tra Europa e Turchia per chiudere la rotta dei Balcani≫634 .
5.
Non si può omettere di considerare gli effetti (quelli veri) che la detenzione amministrativa produce. Che siano migranti economici o richiedenti asilo importa relativamente. Ogni migrante giunge nel Paese di destinazione con una storia fatta di frustrazioni, che vanno dal distacco dalla famiglia, alle separazioni durante il viaggio tra chi ce l’ha fatta e chi è rimasto dall’altra parte del muro, alle condizioni imposte dai trafficanti di uomini, alle torture subite nei Paesi di transito, e, ancora, alle stesse condizioni che impongono la fuga o la ricerca di una vita dignitosa. Porta a depressione la stessa “accoglienza”, spesso non preventivata, dopo un viaggio che avrebbe dovuto cambiare per sempre la vita del migrante, che invece si trova detenuto in un centro in cui le condizioni possono essere al limite o oltre il limite della decenza, in cui si avverte un forte senso di abbandono, ed in cui lo stato di ansia è amplificato dall’incertezza per il futuro. La detenzione prolungata in condizioni pessime, di abbandono e isolamento, finisce così per condurre ad incidere fortemente sulle condizioni fisiche e mentali di persone già debilitate e traumatizzate660 . In particolare, la detenzione di durata (in concreto) superiore a tre mesi oppure di durata (giuridicamente) indefinita sarebbe un fattore che inciderebbe in maniera importante sulla salute mentale dei trattenuti661 . Dobbiamo chiederci se simili politiche – quanto meno – funzionino.
“Anche i campi di sterminio in fondo nascono nei cortili di casa di Krupp e IG Farben..poi si perfezionano.”
A fronte dell’esperienza complessiva del secolo scorso collegare i campi di sterminio al capitalismo mi sembra inesatto e riduttivo.
Sull’adesso e sul muro/filtro: a questi che arrivano bisogna in qualche modo provvedere. Com’è che certi paesi (capitalisti ben organizzati) provvedono molto meglio di altri (capitalisti sgangherati)? Com’è che sul punto immigrazione (come su molti altri) quando parlo con amici tedeschi devo vergognarmi di essere italiana?
Sull’uragano: le migrazioni dei popoli sono inarrestabili e cambiano i connotati dei continenti. Amen. Mi stupirei che la politica (italiana? europea? mondiale? Cos’è la politica mondiale?) potesse farci qualcosa.
Sui campi di sterminio il discorso andrebbe ripreso in termini più ampi: è certo riduttivo pensarli come effetto del solo modo di produzione capitalistico, ma origine e logica di base nascono lì (fu un lavoro fatto con Piero del Giudice un secolo fa per trovare una conclusione alla sua tesi di interviste ai sopravvissuti), nella legge del valore portata all’estremo. E la vulgata della ‘follia’ di Hitler è comodo schermo. Come d’altro canto è comodo attribuire valenza ‘razionale’ alle bombe su Dresda prima, Hiroshima e Nagasaki poi. Certo l’Italia è paese di santi ed imbecilli, e fra questi ultimi primeggiano molti dei rappresentanti del capitale, ma va anche detto che l’atteggiamento sull’immigrazione della Germania è molto aiutato dal suo costante (ed illegale) surplus di bilancio negli scambi intraUE. Il problema delle migrazioni per l’Europa oggi (ma anche per gli USA) è che (come avvenne per il ’68 in Italia) fenomeni che in altre epoche richiedevano secoli oggi avvengono (sotto la spinta del clima) in pochi anni. È la differenza fra una percolazione e un’inondazione. Potremmo fare meglio? Più ‘umanamente’ anche se all’interno della stessa logica? Certo, ma non con questo governo e queste forze politiche: e non penso ad alternative radicali, ma semplicemente più razionali; per chiarire meglio è come scendere da una duna: la sabbia man mano si sgretola, e risalire è molto più difficile del dovuto. La terra su cui il nostro sistema poggia è diventata a poco a poco sabbia.
Credo che tu abbia ragione, anche il brano di Mantelli che ha citato Ennio mostra le contraddizioni che i tedeschi hanno dovuto affrontare nell’usare i vari tipi di lavoratori “deportati” (vedi spiegazione del termine in Mantelli stesso). La “logica” capitalistica si può temporaneamente piegare… con un tot di sangue e morte.
E’ come una lotta costante.
E in fondo oggi siamo mica in guerra!
(Sai quei fumetti in cui ci sono stelle scoppi pugni ecc, per dire che tutto scoppia? Ecco sarebbe la illustrazione che farei seguire al mio commento se sapessi dove pescarla.)
SEGNALAZIONE
Maria Elena Scandaliato
https://www.facebook.com/maria.e.scandaliato/posts/10158556005212151
COME FUNZIONA IL LAVORO NEI MAGAZZINI DELLA LOGISTICA?
Da “Arafat va alla lotta”:
Il giorno dopo arrivai in magazzino alle 6 e mezza; prima sarebbe stato impossibile, il primo treno da Milano era alle cinque e qualcosa, e ancora non avevo trovato una stanza a Piacenza. Alla stazione vidi tre o quattro africani che dormivano sulle banchine, sdraiati o con la schiena appoggiata al muro; tirai dritto e presi l’autobus per il distretto logistico. Quando arrivai alla Tnt, nel parcheggio trovai decine di facchini, seduti a terra con le braccia incrociate. Qualcuno dormiva. Riconobbi un paio di ragazzi della mia squadra, anche se c’ero stato davvero poco. Uno di loro mi vide e mi salutò con la mano. Aveva un’espressione cordiale: essermi rifiutato di fare il capetto mi aveva procurato qualche simpatia.
«Ciao», dissi. «Ma che fate qui fuori?»
«Aspettiamo che arrivi il carico. Non hanno ancora chiamato». Non sapevo che fare. Quando lavoravo nella guardiola non avevo
mai notato così tante persone nel parcheggio.
«Ma quindi devo entrare in magazzino e far vedere che sono
arrivato, o no?», chiesi.
«È inutile. Quando arrivano i camion, escono fuori e chiamano loro». «Sicuro?»
«Certo. E speriamo di lavorare».
Quest’ultima frase mi era scivolata nell’orecchio con un suono
sinistro, ma in quel momento la preoccupazione di essere arrivato tardi superava le altre.
«Be’, io comunque entro a dire che sono qui».
«Ok. Fai come vuoi».
Mentre mi avvicinavo all’ingresso arrivò un tizio che non avevo
ancora visto, un italiano con il passo svelto e dei fogli in mano. Si precipitò verso la scala metallica da cui ero entrato il giorno prima, e in tre o quattro balzi arrivò in cima. I facchini, intanto, si erano alzati da terra e avevano formato un capannello fitto, proprio ai piedi della scala.
«Allora, statemi a sentire che non ripeto. Mi servono Karim, Ali, Mohannad, Elmer…», e via, con un lungo elenco di nomi. «Poi. Vieni tu, tu, tu. E tu», disse, indicando me che ero molto vicino alla scala. Il capannello iniziò a scomporsi, mentre il tizio sulla scala – che mi dissero essere un caporale – segnava qualcosa sui suoi fogli; si levò un mormorio, che in breve divenne una specie di mugugno.
«Capo! Ma io non lavoro manco oggi! Non è possibile! Sono tre giorni che vengo a vuoto!», disse un nigeriano, con la voce profonda.
Il caporale rimase a testa bassa sui fogli, senza rispondere. Finì di appuntarsi i nomi sulla carta e volò giù dalle scale, seguito da un gruppo di facchini agitati, con le facce tese.
«Capo, ascolta un attimo», gli disse uno, che gli stava attaccato alla schiena. «Anche io ancora a casa… Ma vengo da Milano!». Insistette, quasi balbettando: «Non posso continuare così… Non ce la faccio più», e gli mise il palmo sulla spalla, per farlo voltare. «Non ci posso fare niente se vieni da Milano. Sono fatti tuoi», rispose quello, scrollandosi di dosso la mano del lavoratore che non aveva neanche guardato in faccia. Poi si fermò e, diretto al gruppetto di disperati che continuavano a seguirlo: «Statemi a sentire. Adesso non abbiamo bisogno di altri. È inutile che insistete. Anzi: è peggio». Li guardò un secondo con aria truce. Poi andò via insieme a noi che eravamo stati “scelti”.
Il “capo” mi assegnò di nuovo al carico, ma stavolta in coppia con un altro operaio, perché i pacchi erano pesanti. Io dovevo sollevarli dai piedi dello scivolo, mentre il mio collega doveva incolonnarli nel container, uno sull’altro. Era durissima: alcuni cartoni pesavano cinquanta chili. Per fortuna era mattina e avevamo le braccia fresche.
«Senti, posso chiederti una cosa?», dissi al mio collega, arabo come me ma di qualche anno più grande.
«Dimmi» rispose, con la voce asciugata dallo sforzo.
«Ma è sempre così? Cioè, c’è sempre quel tizio che sceglie chi lavora e chi no?»
«Sì. È così tutti i giorni».
Continuammo a caricare, senza parlare. Di fiato ne avevamo poco, e le chiacchiere non erano gradite.
Chiuso il carico, andammo dal capo.
«Ok. Per ora avete finito. Potete andare».
«In che senso finito?», chiesi.
«Nel senso che avete caricato quello che c’era da caricare», rispose. «Adesso non c’è più bisogno. Potete andare», e andò via pure lui, scrivendo qualcosa sui fogli di prima.
Lasciammo le pettorine e uscimmo dal magazzino. Fuori, nel parcheggio, ritrovai buona parte degli operai che avevo lasciato due ore prima. Erano rimasti lì, alcuni dentro, alcuni fuori dai cancelli della Tnt.
«Ma che fanno ancora qui?», chiesi al mio compagno di lavoro.
«Che vuoi che facciano? Aspettano di lavorare», rispose mentre si arrotolava una sigaretta. La accese e iniziò a tirare, mentre i muscoli delle spalle si scioglievano insieme ai disegni del fumo nell’aria mattutina. «Mi sa che non ti hanno spiegato come funziona. Tu la mattina vieni qui. Ma non sai né quando, né se lavori», disse, guardando lontano. «Magari sei qui dalle cinque, e loro ti chiamano a scaricare solo dalle otto alle dieci. Se sei fortunato, scarichi ancora dalle cinque di pomeriggio alle otto di sera, ma non è detto. Dipende sempre da come gli gira al caporale».
«Il caporale chi è? Quello coi fogli?»
«Sì. Quello è uno, ed è italiano. Ce ne sono diversi… Certi sono proprio stronzi», e abbozzò un sorriso, mentre il fumo gli faceva le capriole davanti alla faccia. «Lo vedi quello lì?», e indicò con gli occhi un uomo piuttosto grosso, sulla cinquantina, anche lui arabo. Era seduto a terra, sul marciapiede davanti ai cancelli, con la camicia fuori dai pantaloni; si era tolto le scarpe e si grattava il cranio cotto dal sole, con un’aria stropicciata e sperduta. «Quello a casa non ci torna proprio. Dorme qui davanti, oppure in stazione, a Piacenza. La sua famiglia è a Milano, adesso è pure sotto sfratto. Non lo chiamano praticamente più, ma lui continua a venire. Si farà quattro, cinque ore al mese».
«Ma scusa, e non ha un contratto di otto ore al giorno? Come noi?»
«Che ne so… Forse sì. Ma che c’entra?»
«Be’, allora devono pagargli la giornata. Poi, se non lo fanno lavorare, peggio per loro. No?».
Mi guardò prima perplesso, poi divertito: «Ma va’! Qui ti pagano
solo le ore di lavoro effettivo. Se scarichi dalle sei alle otto, ti pagano due ore. Mica otto!».
Mi si gelò il sangue: «Ma… E il contratto?»
«Boh. Quello è solo un pezzo di carta» concluse, mentre spegneva a terra la cicca e l’ultimo filo di fumo si dissolveva tra i denti e le narici. «E comunque funziona così dappertutto. Mica solo qui».
Mi lasciai andare sul marciapiede, fuori dal magazzino, insieme agli altri lavoratori. Tenevo un ginocchio stretto al petto e guardavo gli uomini seduti a terra, intorno a me: qualcuno mangiava, alcuni chiacchieravano; altri ridevano, tranquilli. Sentivo un peso all’altezza dello stomaco, una specie di bolla che si espandeva e si comprimeva, facendomi sudare i palmi delle mani. Quando lavoravo con Carelita, le mie otto ore le facevo tutte. Lo stesso con i pomodori o nel parcheggio, dove il mio turno durava addirittura mezza giornata. Adesso, mi sembrava un altro mondo. Stando al contratto che avevo firmato, la paga era di sei euro l’ora. E in due giorni, di ore ne avevo lavorate cinque: avevo guadagnato solo trenta euro.
Guardai l’uomo che dormiva nel parcheggio, quello che mi aveva indicato il mio compagno: avrà avuto più del doppio dei miei anni, e stava prendendo lo stesso colore dell’asfalto. Sembrava stordito, consumato dalle attese; da quel limbo arido che non è ancora fabbrica, e non è più campagna. “Anche lui avrà iniziato”, mi ritrovai a pensare: “chissà dove e chissà quando, ma anche lui avrà iniziato a lavorare, da qualche parte. Magari le cose gli giravano bene, si è pure portato in Italia la famiglia. Invece, guarda che fine ha fatto”. E mentre stavo lì, a fissare i suoi piedi scalzi per risalire fino alla faccia abbrustolita, per un attimo incrociai il suo sguardo, che smise di vagare per fermarsi sul mio. Si accorse che lo guardavo; oppure no, chissà. Io, però, mi sentii scoperto, mi vergognai. Di essere pavido, anzitutto, e di aver scordato la dignità che ogni uomo – anche il più disgraziato – si porta appresso.
APPUNTO 2/ NOI,LORO
“E’ moralistico chiedere a ciascuno dei rubrichisti di Poliscritture di leggere questo articolo e di rispondere alla domanda: che relazione ha la notizia qui riportata con quel che pensi o fai?” (Ennio)
Lanciato l’appello, ora tocca a me rispondere e rispondo così:
1.
Se esistono questi luoghi di detenzione mascherati da luoghi di accoglienza e se la denuncia della loro disumanità arriva soltanto da un operatore temporaneo è perché non esiste più in Italia nessuna cultura politica capace di prospettare una gestione non repressiva delle nuove migrazioni;
2.
Che i CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) possano diventare “più umani” è tutto da dimostrare. Anche perché manca appunto una forza politica (di Sinistra?) che li voglia “più umani”. ( Si ricordi che la politica finora fatta dallo Stato, e non solo italiano, nei confronti dei migranti non varia di molto tra governi di destra e di sinistra);
3.
C’è un abisso tra le condizioni di vita cui sono costretti i migranti in questi CPR (ma anche fuori da essi, nelle periferie, nelle campagne) e quelle – anche le più basse – della popolazione da tempo residente in Italia (o negli altri Paesi europei). Per moltissimi migranti il rapporto natura-cultura è stato rovesciato: sono spinti verso condizioni non dissimili da quelle che subiscono le bestie. Oppure sono ricacciati in condizioni al limite della schiavitù o nei posti più bassi della manovalanza sfruttata e fuori da ogni legalità.
4.
Comunque, sono vissuti e pensati per complessi processi culturali come inferiori o non civili. Sia nella cultura neocolonialista di Destra (“cattivista”) che li demonizza. E sia in quella di sinistra o cattolica, che li vive lo stesso come inferiori da aiutare, tutelare e possibilmente incivilire o assimilare o convertire alla visione cristiana o socialdemocratica-occidentali del mondo;
5.
Appena un fatto di cronaca drammatico o tragico ci impone di ridiscutere la questione del rapporto tra “noi” e “loro (Cfr. https://www.poliscritture.it/2016/12/28/noi-e-loro-nello-specchio-di-facebook-verso-la-fine-del-2016/ ) abbiamo un’imbarazzante e penosa esposizione di clichè: buonisti e cattivisti, riformisti e rivoluzionari, realistici e utopistici. Quello che più colpisce è l’annaspare del pensiero, che non riesce ad uscire da questa falsa dialettica o da pose conservatrici o illuministiche; e che comunque finisce per circoscrivere o negare la questione;
6.
Non riusciamo a rappresentarci le divisioni reali dell’attuale società in caotico mutamento. E insistiamo testardamente sulla divisione tra “loro” (il “mucchio” indeterminato) e “noi” ( una identità ideale e mai verificata, chiamata ora “popolo” ora “Europa” ora “Occidente”). Ci agitiamo in queste astrazioni ideologiche “nostre” (delle “loro” sappiamo pochissimo!). E rimaniamo nella confusione e nell’incertezza. Restiamo nella palude profonda della crisi delle nostre culture.
7.
E allora domande, domande. Ci sono più contraddizioni( di classe, di mentalità, di sistemi organizzativi)? E , se sì, su quali dobbiamo riflettere e agire (se possibile)? Il “noi” deve consolidarsi come noi occidentali, noi europei, noi italiani oppure liberarsi da queste identità “ristrette”? Come intellettuali o essere semplicemente pensanti dobbiamo svolgere una funzione illuministica e chiarificatrice come suggerisce Paolo Di Marco (« noi siamo quelli che cerchiamo di comprendere e far comprendere quello che succede») e basta? «Se poi qualcuno di noi sta scavando una galleria sotterranea per far uscire i dannati della terra temo che sia oggi un problema solamente privato. E quindi non politico» (Paolo di Marco) [E non Elena Grammann come da prima attribuzione. E. A.]? (Ma non è stata proprio la riduzione al privato ( o privatizzazione) di quello che una volta era riuscito a diventare sociale e politico il malanno? E non si dovrebbe tentare di far ridiventare politico un progetto di solidarietà umana, universale al posto di questo progetto di gerarchizzazione, compartimentazione e esclusione – “prima noi e il resto dopo o mai” – che si sta imponendo?). E possiamo pensare in termini “naturalizzanti” il fenomeno storico delle migrazioni e della mondializzazione («Sono forme provvisorie e imperfette, come tutte le prime , di un muro/filtro che l’Italia innalza per conto di tutta l’Europa (e anche l’accordo con la Libia non è solo italiano) a fronte di una immigrazione che oggi è brezza e dopodomani sarà uragano», Paolo Di Marco)? E ancora: «Per essere più chiari, ho sempre ritenuto che a pronunciarsi non debbano essere i singoli ma i soggetti politici» (Paolo ancora). E se i soggetti politici ufficiali (ad es qui a Milano chi si occupa di Via Corelli?) tacciono?
8.
Ed infine, in modo un po’ provocatorio, aprirei un capitolo intitolato «Letteratura e CPR». L’altra notte, riflettendo sul tema, mi è venuto di immaginare che potrei andare con Walter Siti a visitare il CPR di Via Corelli. Non ce lo permetteranno ma allora lo faremmo con l’immaginazione della Letteratura, in forma di fantasmi. O forse sarebbe meglio andarci con Kafka, che se ne intendeva di più? O con Čechov, che a suo tempo aveva fatto un resoconto di un suo viaggio tra i deportati? (Cfr. https://www.limesonline.com/cartaceo/cechov-a-sakhalin?prv=true; https://www.criticaletteraria.org/2018/05/cechov-l-isola-di-sachalin-adelphi.html).
Non voglio scantonare o uscire per la tangente, ma occorre anche ragionare sui nostri presupposti impliciti. Per esempio: “La storia della filosofia non è interamente segnata dalla tradizione dualista e dialettica: al cuore stesso della modernità si situa uno dei pensatori più efficaci del monismo materialista, Baruch Spinoza. Con lui la filosofia materialista diviene propriamente etica, la questione della soggettività incarnata si pone in maniera dirompente, l’esigenza di democrazia è espressa in modo gioioso. L’Etica di Spinoza rappresenta una forte ipotesi teorico-pratica in grado di funzionare come alternativa alla morale, senza per questo farci ricadere nello scetticismo o nel relativismo. Spinoza delinea la sua etica pratica come desiderio di vita in comune tra le soggettività, che proprio dalla cooperazione tra loro traggono gli elementi che accrescono la loro potenza e la loro autonomia singolare, contribuendo così ad aumentare la felicità collettiva.”
C’è sempre stata un’altra corrente. Ragionare sul dualismo presupposto anche dalla dialettica. Collegare democrazia e aumento delle forze e delle potenze singolari. Sul desiderio di vita in comune. Invece viviamo nella necropolitica (per vivere occorre che altri muoiano), nell’allarme perenne sulla catastrofe in arrivo. Nella sfiducia, nella ininterrotta critica destruens che non vede oltre.
“«Se poi qualcuno di noi sta scavando una galleria sotterranea per far uscire i dannati della terra temo che sia oggi un problema solamente privato. E quindi non politico» (Elena Grammann)”
Solo per precisare che la frase è di Paolo Di Marco, probabilmente riferita a me, ma non è mia. E io non propongo affatto una privatizzazione del problema. Dico solo che il mio “fare” è privato. Non ho talento per un fare pubblico o politico. A ognuno i suoi talenti da far fruttare.
“Che i CPR (Centri di Permanenza per il Rimpatrio) possano diventare “più umani” è tutto da dimostrare” (E.A.)
O più precisamente che diventino più umani non è il punto che interessa l’autore del commento.
@ Elena
Mi scuso per lo scambio di nome e correggo subito.
penso che anche solo la cronistoria (meglio sarebbe comunque la microstoria) di “Mafia Capitale” chiarirebbe le idee e delimiterebbe il quadro.
come rubricante (≠ rubrichista) ho vagheggiato in Poliscritture un gruppo di persone fondamentalmente delle stesse idee e prospettive che da questa base implicita si affaccia, anzi si tuffa all’esterno sfruttando al massimo i trampolini telematici esistenti.
non vorrei che la tendenza si rovesci in centripeta, con un gruppetto di amici che discutono al loro interno sui massimi sistemi (con l’aggravante rispetto ad esperienze passate di non conoscersi nemmeno di persona).
dixi et salvavi animellam meam.
Per potermi pentire meglio (dei massimi sistemi cui inclino) mi urge accertare il rapporto tra microstoria di mafia capitale con il CPR di via Corelli, Milano.
icasticamente, con le parole stesse del guru omicida in area pd: “gli immigrati irregolari rendono più dell’eroina”.
… rendono di più nel CPR? O nel foggiano, a Rogoredo, nella logistica?
Si parlava soprattutto del CPR di via Corelli, delle regole secondo cui un luogo “istituzionale” dovrebbe essere gestito, di come invece lo è di fatto, con 1 operatore “gentile” rispetto a X scaz.ati, disumanizzati, vedi la lettera dell’operatore su Milano today citata da Ennio il 20 giugno.
Il discorso è proseguito soprattutto su questo piano: la gestione (con una testimonianza sul lavoro nella logistica) da parte di persone “normali”, cui è affidata la responsabilità, oppure la semplice consapevolezza, di queste persone di cui ci facciamo carico in questo modo.
Non ha esattamente a che vedere col fatto che “rendano” più dell’eroina. Quello è un circuito laterale, è collegato ma non è proprio lo stesso discorso.
In estrema sintesi: penso che la scelta di Anna Maria Locatelli di pubblicare l’articolo di Andrea De Lotto sia stata giusta e politicamente condivisibile. Le ha consentito di sollevare il problema dei CPR in Italia e delle condizioni disumane in cui versano tanti nostri fratelli e sorelle stranieri. Come tutti sanno, oltre alla libertà e all’uguaglianza, la Rivoluzione francese sostenne anche il valore della fraternità. Per me, qualcosa di più e di diverso della carità.
Alcuni interventi successivi hanno in parte confermato e in parte allargato l’appassionata e puntuale denuncia-testimonianza di De Lotto. Mi riferisco alle segnalazioni di Subhaga, a quella di db e ad alcune segnalazioni di Abate. Per il resto, si è svolto un dibattito che, ad un certo punto, non ho avuto più la forza di seguire. In generale, quando un dibattito si svolge TRA DI NOI – intendo quelli che dovrebbero in qualche modo “fare Poliscritture” – al terzo o quarto intervento mi preoccupo. Figurarsi quando gli interventi diventano una cinquantina e i nomi degli intervenuti si ripetano ossessivamente. Preferirei che il commento degli articoli fosse prerogativa soprattutto di chi ci legge. Ho scritto “soprattutto”, non “esclusivamente”.
Detto questo, non penso che Poliscritture possa risolvere problemi epocali come l’emigrazione, il superamento del capitalismo, ecc. ecc. Definire prospettive, “punti di fuga”, sì. Ad esempio: contribuire a migliorare le condizioni di quell’umanità dolente nascosta (e dimenticata) nei CPR mi sembra un buon obiettivo; ancora meglio chiuderli e definire dei progetti di inclusione, ecc. Ciò che mi sembra inaccettabile è che, in nome non si sa di cosa, non si debbano denunciare le ingiustizie presenti e non si debba eventualmente lottare per eliminarle. Si lotta anche scrivendo un articolo e/o dando man forte e solidarietà a chi scrive e denuncia. Il buonismo è stucchevole, ma il cattivismo lo è ancora di più. Oltre ad essere francamente insopportabile.
Le prospettive sociali, culturali, politiche non sono statiche. Sono quadri dinamici. Per quanto riguarda le migrazioni, condivido la filosofia egregiamente espressa da Donatella Di Cesare nel libro “Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione” (Bollati Boringhieri, 2017). Libro recensito anche su Poliscritture, se non ricordo male, da Abate.