di Cristiana Fischer
Nella rubrica, con il sottotitolo “parole della differenza femminile” intendo dire che userò abbondanti citazioni, cioè molte parole di altre donne. Presentando delle autrici le farò ampiamente parlare in prima persona, delle loro idee e delle loro posizioni. Quasi come creare una possibile comunità di incroci e relazioni. (C. F.)
Rosi Braidotti è una filosofa e teorica femminista. E’ una signora molto vivace e sorridente. Insegna presso l’Università di Utrecht dove ha fondato e dirige il Centro per le Scienze Umane. Ha studiato a Parigi, è cresciuta in Australia, è nata in Italia (parla le lingue conseguenti) ma non crede affatto che la sua vita nomadica sia la radice psicologica della sua posizione teorica sul pensiero nomade, concetto che Braidotti ha mutuato dal filosofo francese Gilles Deleuze. Alcuni libri dell’autrice si riferiscono esplicitamente al nomadismo, Soggetto Nomade, Donzelli, 1995; e Nuovi Soggetti Nomadi, Luca Sossella Editore, 2002.[1] Braidotti è autrice di numerosi libri e saggi. Negli ultimi che ho potuto leggere scaricandoli dal suo sito (qui) tratta delle “CRITICAL POSTHUMANITIES”, le scienze postumane critiche.
Per Braidotti le scienze postumane critiche in primo luogo respingono l’antico indirizzo umanistico fondato sull’Uomo Universale eurocentrico, razzista e sessista:
"Le teorie femministe e postcoloniali hanno sostenuto, per esempio, che l'Uomo umanistico, come misura universale di tutte le cose - si è definito tanto in base a quello che ha escluso quanto per quello che ha incluso nella sua autorappresentazione razionale. La storia mostra che questa visione umanista del soggetto ha anche giustificato le esclusioni violente e bellicose degli 'altri' sessualizzati, razzializzati e naturalizzati: donne e LBGT+, indigeni, animali e altri della terra - che occupano uno spazio svalutato di differenza rispetto allo standard normativo umanista. Incarnano la differenza come peggioramento, e le loro differenze sono organizzate su una scala gerarchica di valore sociale e simbolico decrescente. Questi altri diventano socialmente emarginati nel migliore dei casi e ridotti allo stato subumano di corpi a disposizione negli scenari peggiori."
(The CRITICAL POSTHUMANITIES, qui )
Le scienze postumane critiche si vengono costituendo ai margini delle discipline classiche, spesso oltre gli ambiti di studio consolidati. Lo testimoniano le scienze umane ambientali, digitali, neurali, biogenetiche e mediche. Si aprono nuovi campi di inchiesta, in continuità con le richieste politiche degli anni ’70, ma ora affrontando in modo diretto la questione della centralità dell’Uomo umanistico e dell’Anthropos come specie eccezionale rispetto a ogni altra specie vivente.
Braidotti propone di tracciare delle “cartografie” dei rapporti di potere interni alla produzione e alla circolazione della conoscenza. Le cartografie producono idee argomentative per scambi culturali e politici che possono essere dialogici o antagonistici. Il complesso degli scambi realizza comunque una comunità relazionale nomade, di agenti che possono anche essere non-umani e tecnologici: non solo il mondo umano ma anche il mondo naturale e quello tecnologico fanno parte delle scienze postumane critiche. Braidotti assume il continuum naturacultura di cui ha parlato Donna Haraway, anzi lo allarga a un continuum medianaturacultura.[2]
Così Braidotti chiarisce il senso del suo metodo cartografico.
"Un altro elemento cruciale del mio approccio cartografico è la politica femminista del posizionamento (A. Rich), conosciuto anche come conoscenze situate (S. Harding, D. Haraway). La faccio mia come il manifestarsi originario di un empirismo carnale incarnato e incorporato. Questo metodo dà conto di un posizionamento in termini di spazio (dimensione geo-politica o ecologica) e di tempo (memoria storica o dimensione genealogica) e quindi fonda la soggettività politica. Accentuare l'immanenza indica che si respinge l'universalismo trascendentale e il dualismo mente-corpo. Ogni materia o sostanza è una e immanente a se stessa, intelligente e autorganizzata, negli organismi umani e non-umani. La materia vitale è guidata dal desiderio ontologico di esprimere la propria intima libertà (conatus). Conoscere la materia vivifica la capacità di comprensione dei soggetti postumani – incorporati, incarnati, già presi in una rete di relazioni con gli altri umani e non-umani."
(A Theoretical Framework for the Critical Posthumanities, qui)
Altro argomento interessante nello stesso articolo riguarda la “scienza reale” (royal) delle tradizionali scienze umane e la “scienza minore” delle nuove scienze postumane critiche.
“L'Istituto per il futuro dell'Umanità di Oxford incarna il modello egemonico del postumano e del transumanismo implementandoli con un programma che si chiama 'superintelligenza' […] Il direttore Nick Bostrom dichiara di rifarsi all'Illuminismo europeo, con un discorso moralistico che combina ricerche sul cervello e scienze robotiche e computazionali più psicologia clinica e filosofia analitica, per definire il postumano come entità super-umana e meta-razionale. Bostrom è un campione del Capitalocene[3], e il suo approccio riceve ampi aiuti economici sia dalla comunità scientifica -scienza reale- sia dal mondo aziendale. Propongo una alternativa a questo approccio, che si chiama 'scienza minore' e scienze postumane nomadi e critiche.”
Se la scienza reale è spinta da potenti interessi finanziari, la scienza minore cresce perché si incrociano e si fecondano a vicenda legami e spazi secondari. Piattaforme che non sono distinte e opposte tra loro ma contigue e cooperanti. Le linee nomadi lungo cui si muovono le scienze minori tagliano e ricostituiscono il campo delle scienze dominanti, ricostruiscono collegamenti, aprono spazi di confine che generano altre ricerche.
Delle mie vecchie letture negli anni ’80, un libro di Claude Meillasoux, Donne granai e capitali, e poi il rilievo (di Gregory Bateson?) per cui siamo al centro di due generazioni precedenti, genitori e nonni, e di due successive, quella dei figli e dei nipoti, ecco: di quella cultura umanistica neutra tanto mi basta per capire cosa è successo alla ragazza Saman. Lei era merce, valore di scambio che intendeva usare la sua famiglia con la tribù pakistana cui i genitori appartenevano: con il matrimonio avrebbero potuto entrare “di diritto” altri cittadini pakistani in Europa.
La ragazza aveva un valore di scambio e un valore di uso (chissà se Marx aveva compreso anche il coinvolgimento delle donne, quando aveva individuato valore di uso e di scambio. Certo la storia del ratto delle Sabine avrebbe potuto suggerirgli qualcosa sulle femmine valore di scambio…). Saman rappresentava anche valore di uso perché avrebbe poi dovuto proseguire, col marito scelto dalla famiglia, la produzione di ulteriori valori di scambio, cioè figlie per garantire ingressi successivi.
Ingressi da certi “altrove” non occidentali, che faremmo bene a interpretare non con i nostri “criteri universali” umanitari ma con la consapevolezza antropologica che a volte le ragazze sono vittime/merci, sacrificate nei rapporti collegati alle immigrazioni. I genitori di Saman, presunti assassini della figlia, si sono sottratti alle indagini rientrando al paese di origine.
Il femminismo quindi non può ancora rinunciare alla *estraneità* come risposta alla *esclusione* messa in atto dall’universalismo dell’Uno maschile. Universalismo escludente, proprio sia di società tribali che usano le figlie come merci, che delle nostre finto-universaliste, cieche di fronte ad altri ruoli di merce fatti assumere alle donne più povere e alle immigrate: per servizi di cura alle persone, per servizi sessuali, per le pratiche di GPA (gravidanza per altri). Sostituiscono le donne occidentali che a quei servizi di cura si sottraggono. Nancy Fraser non smette di richiamare l’attenzione sulle donne povere e immigrate che svolgono il lavoro nel privato (versus il mondo pubblico del lavoro e della politica), che spettava fino a poco tempo fa anche alle donne occidentali.
Che un generale tribalismo non sia quindi superato? Mi pare di sì, se si considerano i toni del compassionismo, usati su tutti i media nei confronti di Saman, come copertura per celare condizioni di sfruttamento femminile. In questo modo si può non dismettere l’ideale umanistico dell’Uno maschile che si pretende universale, mentre poi esclude dal suo orizzonte volta a volta o donne, o popoli, o culture, o altre specie viventi.
In un prossimo post darò conto di due libri di Rosi Braidotti su argomenti importanti: Materialismo radicale, Meltemi, 2019, e Il postumano, Deriveapprodi, 2014.
Note
[1] “Il solo avvenire che mi fa ancora sognare è quello dove riecheggia l’incoraggiamento a divenire-donna nel senso nomadico del termine. Perché noi donne siamo il soggetto empirico che storicamente ha incorporato, trasformato e rappresentato il non-Uno nelle sue molteplici connotazioni nefaste, come nello splendore della positività.” Per amore del mondo 5 (2006) ISSN 2384-8944 http://www.diotimafilosofe.it
[2] Donna Haraway, Manifesto Cyborg, pref. di Rosi Braidotti, Feltrinelli, 2018, ed. originale 1985. “Attraverso la figura del cyborg, Haraway (1985, 1990) ha messo in primo piano un dialogo tra scienza e studi tecnologici, teoria della razza, politica socialista femminista e neomaterialismo femminista. Questo alto livello di ibridismo teorico è supportato da nozioni di interrelazionalità, mobilità, ricettività e comunicazione globale che offusca deliberatamente distinzioni categoriali (umano/non umano, natura/cultura, maschio/femmina, edipico/non edipico, europeo/non europeo). “The CRITICAL
POSTHUMANITIES; or, IS MEDIANATURES to NATURECULTURES as ZOE IS to BIOS?” (qui)
[3] Capitalocene, come Plasticocene, Anthrop-oscene, e altri, sono modi sarcastici per correggere la definizione della nostra epoca come Antropocene. Coniato nel 2002 dal premio Nobel Paul Crutzen, descrive l’attuale era geologica come dominata dai comportamenti umani: tecnologia, sperpero e distruzione delle risorse del pianeta. Per Braidotti “dobbiamo combinare i rapidi progressi tecnologici da un lato con l’inasprimento delle disuguaglianze economiche e sociali dall’altro”.
Le finestre che apre sembrano assai promettenti. Mi lascia perplesso quell’accenno alla ‘materia vitale’ che sembra pietrificare in una nuova sintesi ideologica una ricerca la cui ricchezza mi sembra nell’opposto, nell’individuare e creare crepe nell’ideologia dominante e nelle sue articolazioni operative anche nella ricerca ‘dotta’.
Penso che sarò più chiara ed esplicita sulla materia vitale quando esporrò il materialismo di Rosi Braidotti nel prossimo post.
“In questo modo si può non dismettere l’ideale umanistico dell’Uno maschile che si pretende universale, mentre poi esclude dal suo orizzonte volta a volta o donne, o popoli, o culture, o altre specie viventi.”
In realtà è proprio l’ideale umanistico e illuministico, con i suoi ulteriori sviluppi, che mi permette di escludere dall’orizzonte dell’accettabile, senza se e senza ma, le società tribali pakistane e simili (come tutto quello che in ambienti nostrani cattolici ci assomiglia).
Donna Haraway, biologa e sociologa della scienza: “Sono cresciuta (dis)integrata, al centro e contemporaneamente ai margini del potere e dei discorsi egemonici incarnati nella mia eredità europea e nordamericana. Quindi non dimentico come l’antisemitismo e la misoginia si siano intensificati in Europa durante il Rinascimento e nella prima Rivoluzione scientifica, come il razzismo e il colonialismo siano germogliati in quella propensione al viaggio tipica dell’illuminismo cosmopolita, e come l’aggravarsi della povertà di miliardi di uomini e donne si radichi obiettivamente nelle libertà transnazionali del capitalismo e della tecnoscienza. Tuttavia non dimentico i sogni, il puntuale conseguimento di libertà contingenti, i saperi situati, e il sollievo dalla sofferenza che sono parte integrante di quest’ibrido, triplo retaggio storico. Rimango figlia della rivoluzione scientifica, dell’illuminismo e della tecnoscienza”.