di Rita Simonitto
A Giava Per te ho raccolto il mirto, poca la menta perché non ti piaceva, ma rosmarino a mazzi dove con felina goduria smusavi, a onde le scure strisce sull’oro del mantello, micro felicità di tigrotta addomesticata, distolto da me lo sguardo. E anche adesso, le pupille che mi tagliano fuori dai tuoi lidi perduti toccano note di linguaggi inaccessibili al contrabbando di malcelate convenzioni.
Ma il tuo piacere era il mio, nei respiri affiancati o nelle scorribande a strapparti il topino di pezza. Quanto leggera ti sarà la terra non so, dura senz’altro la mia ancora depredata di risposte. 17 anni fa, Giava aveva poco più di un mese quando il suo miagolio irrompeva nel silenzio sonnolento del giardino alle prese con una primavera riluttante. Stava nel palmo della mano e fin da subito incominciò il suo messaggio di attaccamento leccando a più non posso. Il suo slinguazzare divenne una specie di sua cifra, tant’è che venne soprannominata “Giava, come lava”, giocando sull’assonanza della pubblicità del detersivo “Ava, come lava”. La sua pelliccia tigrata era un godimento sia per la vista che per il tatto: quando vi affondavi le dita sembravano emergere note arcaiche, fruscii impercettibili legati alla elettricità che si espandeva nei polpastrelli. Vivevo Giava come la rappresentazione di un mondo presente e assente al contempo. Molte volte, osservandola nelle sue ‘pance all’aria’, con quel pelame albicocca che si smarezzava nei colori più intensi delle ascelle e dell’inguine, mi ponevo domande non solo sulla bellezza estetica di quell’abbandono ma sul suo significato profondo: attivava o meno dispositivi di vigilanza? Con dignità quasi regale (retaggio delle sue antiche origini feline?) accoglieva gli ospiti con movimenti di coda né trattenuti né esagerati…. A volte mi chiedevo se non sarebbe stato il caso di farne una indagine felinologica …. Commensali permettendo, partecipava al desco (con qualche irruzione di zampa sulla succulenza dei piatti, ma sempre accettando - non so quanto di buon grado - il fatto che doveva ritirarsi). Da qualsiasi parte della casa, rispondeva immediatamente al suo nome, chiamata che non era evocativa soltanto della pappa. Correva spinta dall’amore per me, per noi, oppure per qualcos’altro di più arcaico, il piacere della condivisione? E quindi qualcosa di più effimero e suscettibile ai cambiamenti ma altrettanto potente? Esperienza che a noi umani è di difficile accettazione: tenderemmo ad optare per il concetto di amore, più strutturato e complesso. Per questo, non so dire se le nostre care bestiole ‘ci amino’ con lo stesso intendimento che noi diamo a questa espressione. Ma c’erano anche i momenti in cui prevaleva, in lei, per chissà quali stimoli, la parte istintuale: allora, occhi a fessura, a gengive scoperte ecco scendere minacciose due zanne affilate, eretta la coda. Poi, passati questi fantasmi tempestosi, si ritirava in un suo angolo riservato quasi a voler sottolineare una distanza temporo-spaziale tra l’aggressività e la dolcezza. Aleggiava attorno a lei il mistero. Giavi, Giavina, Giavotti, da dove sei venuta approdando in questo mondo insensato mentre il tuo, per quanto possa apparire irrazionale, sembra purtuttavia dotato di senso? E dove stai correndo adesso, via dal sale delle mie lacrime? 01.07.2021
Più precisa, bella e convincente la prosa a fronte di versi che sembrano stentare un poco a farsi compiuta poesia. Quel “biasimo silente… all’umano vizio del colono”, rovesciata la prospettiva, suona quasi offensivo dell’atavica indipendenza felina. Complimenti comunque. Infatti dall’antico Egitto dove erano venerati quali divinità fin dentro questo scritto continua ad “aleggiare il mistero” intorno ai nostri amatissimi ma sfuggenti gatti.
Nell’immagine che Paolo Di Marco ha inserito nel suo ultimo articolo, e che rappresenta il giardino dell’Eden, il primo piano è pieno di animali, mentre la coppia umana è piccola piccola, quasi invisibile nello sfondo.
Quello che ci turba negli animali – anche, e forse soprattutto, in quelli che acconsentono a stare con noi – è il loro enigma e la nostra cattiva coscienza.
la poesia-elogio di Rita Simonitto è molto bella e accorata e ci sta tutta: 17 anni di convivenza con un amatissimo animale sono una notevole fetta di vita che lascia un segno in entrambi, colono e colonizzato, in una simbisi indistricabile, pur nel mistero intatto della diversità. Avere sempre vicino “il buon selvaggio”, che ci riporta nella foresta, che ci insegna la saggezza della lentezza, di quel tempo che scorre a volte a ritroso o si arresta, aiuta. Ma restiamo mondi paralleli, sfiorati da un sentimento di simpatia, cosi’ forte da avvicinarsi all’amore senza quei se e quei ma che spesso i nostri simili ci suscitano…Si’, tutto cio’, sono d’accordo, non annulla la nostra cattiva coscienza di persone che ricercano in loro la grande cura dell’umano malato e in cambio offrono una cura meschina, in fondo. Tuttavia credo che anche per gli animali sia un’esperienza notevole conoscerci, hanno modo di toccare le nostre debolezze, ridimensionarci ma anche di creare ponti affettivi e alleanze inaspettate
Ringrazio di cuore i commentatori che si sono resi partecipi a fronte della mia perdita.
In particolare ringrazio P. Ottaviani perché mi ha permesso delle riflessioni su prosa e poesia. Adesso non ho tempo nè possibilità di entrare nei dettagli ma intanto ho tagliato due versi della poesia che veramente erano ridondanti (e ininfluenti in relazione al contesto). Qui troverete la poesia rettificata.
@Rita Simonitto
Grazie di cuore, gentile Rita, per aver tenuto in giusta e proficua considerazione la mia brevissima nota sui suoi versi. Se ne è giovata, ovviamente per esclusivo suo merito, la poesia. E insieme alla poesia ciascun lettore. Un cordiale, partecipe saluto.