di Elena Grammann
Da Achtzehn Pasteten (Diciotto terrine, 2007)
sambuco[1] per Richard Pietraß a che l’inchiostro, ci si chiede, nelle frasche le gocce nere che si addensano impensate in schizzo di merli? quale testo per qual catasto di terreni, qual regesto? di fianco al vecchio fienile, dove la terra affonda nelle prese, dietro lo steccato. il profumo delle infiorescenze in aprile, la carta a mano che trae dalle sue profondità
mentre asciugano i panni, cominciano a svolazzare sull’asta, si trasformano i merli in taccole. quale dolce o severo segreto, ci si chiede, dividerà con noi, quando in autunno saremo raccolti attorno al buio delle terrine, con i nostri cucchiai d’argento lucente, le camicie della domenica eccessivamente immacolate, silenziosi come amanuensi? holunder Für Richard Pietraß wofür die tinte, fragt man, im geäst die schwarzen tropfen, die sich unverhofft zum amselklecks verdichten? welcher text für welches grundbuch, welches heft? neben der alten scheune, wo in den beeten das land versickert, hinterm zaun. der duft der doldenrispen im april, das bütten- papier, das er aus seinen tiefen schöpft, während die wäsche trocknet, an der stange zu flattern beginnt, die amseln sich in dohlen verwandeln, welches süße oder strenge geheimnis, fragt man, wird er mit uns teilen, wenn wir im herbst ums dunkel der terrinen versammelt sind, mit unseren blankgeputzten silberlöffeln, jenen allzu reinen sonntagshemden, schweigsam wie kopisten? letame avevano tirato le tende per la luce, così che a mezzogiorno era già un crepuscolo e tuttavia da fuori baluginava la neve fresca. sulle assi del pavimento gli stivali di gomma, vuoti, di un gigante. adulti in abito nero e colletto che aprivano porte e chiudevano porte, e di nuovo silenzio – a parte quei suoni ovattati, da lontano, come di un canto. quando zia Mia, che sapeva di grappa e canfora, mi prese la mano, corsi attraverso il corridoio fino alla porta, esitai nel freddo: fumante nella corte l’acre campana bruna. letame. dung man hatte vorhänge vors licht gezogen, daß es schon mittags dämmerte, doch draußen der neuschnee flirrte. auf den dielen lagen die leeeren gummistiefel eines riesen. erwachsene in schwarzen kleid und kragen, die türen öffneten und türen schlossen, und wieder stille – bis auf diese dumpfen laute von weit her, wie von gesang. als tante mia, die nach schnaps und kampfer roch, meine hand nahm, lief ich durch den gang zur haustür, stockte in der kälte: dampfend im hof die herbe braune glocke. dung.
Da Australien (2010)
rübezahl[2] alberi e ancora alberi, e dietro, calmo, il bosco che guarda con gli occhi dei suoi animali. nel crepuscolo non si infiltra che qualche ruscello, sale una nebbia sottile come fumo di pipa. oltre schreiberhau e krummhübel: fra i rami durano le gocce dell’acquazzone, ognuna con dentro il minuscolo insetto del sole, quando si allungano le ombre dei monti e tu finalmente le note sagome dei silos riconosci, il villaggio: la montagna di teschi sul margine opaco del campo soltanto un mucchio di rape da zucchero, innumerevoli, enorme. rübezahl bäume um bäume, und dahinter ruhig der wald, der mit den augen seiner tiere sieht. nur ein paar bäche infiltrieren die dämmerung, ein dünner pfeifenrauch von nebel steigt auf. jenseits von schreiberhau und krummhübel: im geäst noch immer die tropfen des gewitterschau- ers, jeder mit dem winzigen insekt der sonne darin, als sich die schatten der berge strecken, du endlich die vertrauten silhouetten der getreidesilos, das dorf erkennst: die schädelstätte am rand des trüben ackers nur ein haufen von zuckerrüben, ungeheuer, zahllos. solitario vedo ancora tutto. nei cespugli nascoste le due bici e la luce del bosco, il mazzo di carte verso cui si tende la mano della felce, la coperta con i suoi piatti di plastica e ciò che resta delle meringhe. fra le canne l’alleanza di insetti pattinatori. libellule sorvegliano i valichi delle larve di zanzara. di misura potrebbe ancora raggiungerci una voce attraverso questa estate, attraverso l’odore di pantano, estraneo e viscido, che è su tutto, un bel pezzo lontani dalla riva, come fante e donna che si specchiano da metà in su, nel lago fino all’ombelico. patience ich sehe es noch. im busch die zwei versteckten räder und das waldlicht, der talon, nach dem die farnhand greift, die decke mit ihren plastiktellern, den überresten vom baiser. im schilf die allianz von wasserläufern. libellen kontrollieren die pässe der mückenlarven. man könnte gerade noch zu uns hinüberrufen durch diesen sommer, den geruch von modder, der fremd und schlüpfrig über allem steht, ein gutes stück von ufer entfernt, wie bube und dame in der mitte gespiegelt, bis zum nabel schon im see.
Alcune informazioni su Jan Wagner le trovate qui. Riassumendo: nato a Amburgo nel 1971, ad oggi ha al suo attivo sette raccolte poetiche e numerosi premi, fra cui il massimo premio letterario tedesco, il Büchnerpreis. Sulla cui attribuzione, nonostante la perfezione formale generalmente riconosciuta, ha mugugnato quella parte di pubblico e di colleghi che lo considerano eccessivamente “disimpegnato”, sideralmente lontano dalle questioni scottanti dell’oggi. Proprio per questo, per indagare il disimpegno, ho deciso di presentare queste quattro liriche, a quel che so non ancora tradotte (ma non ci metto la mano sul fuoco: dalla rete sbuca fuori ogni momento qualcosa di nuovo). Non sono recentissime (due del 2007, due del 2010), tuttavia nella raccolta del 2014 (Regentonnenvariationen, Variazioni sul barile dell’acqua piovana, Einaudi 2019 a cura di Federico Italiano) non mi pare cambi gran che nell’atteggiamento di fondo; e della più recente (Die Live Butterfly Show, 2018) conosco solo qualche assaggio che non sconvolge il panorama.
Impegno-disimpegno il tema; ma anche, forse, il discreto far capolino di quell’era postumana di cui ha parlato qui Cristiana Fischer – o almeno di taluni suoi aspetti. Cercherò di indagare – nei limiti di un articolo – i presupposti non esplicitati nella poetica di Jan Wagner, ciò che fa la sua metafisica e la sua antropologia, sulla traccia delle quattro liriche, brevi ma abbastanza rappresentative.
Se nella poesia di Wagner si cerca la cosiddetta “profondità umana” si può essere sicuri di restare delusi. In generale l’umano – l’essere umano – non occupa grande spazio in questa poesia, e certamente non il primo piano. Diciamo piuttosto che la zona abbastanza risicata – sorta di riserva indiana – che gli è concessa si delimita e ritaglia a partire dai confini di altri ambiti enormemente più vasti e significativi: il vegetale, l’animale, il minerale – il tempo stesso come concrezione geologica, pietrificazione di eventi avvenuti o a-venire.
L’attribuzione di senso, già appannaggio umano nella Genesi e con quanta maggiore consapevolezza nella modernità, vacilla, inverte la direzione: ora il senso è scritto nell’alfabeto criptico delle bacche di sambuco, su una carta che la pianta “trae dalle sue profondità”; fatichiamo a interpretarlo, ricorriamo per aiuto a fenomeni concomitanti che in qualche modo paiono dipenderne: biancheria che si asciuga e svolazza sul filo da stendere, con l’autunno che avanza le taccole che si sostituiscono ai merli. Il sambuco è detentore di un segreto; poco importa se confortante o severo, noi desideriamo conoscerlo; ciò avverrà in una penombra di terrine e zuppe autunnali in cui tutta la luce è ritirata nei cucchiai d’argento e nelle camicie immacolate; e noi tesi a percepirlo, silenziosi come amanuensi.
Il sambuco finirà per dirci insomma qualcosa su noi, che compariamo nell’estremo scorcio della terza strofa, a un quarto dalla fine? Non parrebbe. Sembra piuttosto che voglia dirci qualcosa su di sé, sui panni che svolazzano, su merli e taccole – e noi lì a prender nota di qualcosa che non abbiamo prodotto, a copiare diligentemente un testo altrui, umili monaci che rinunciano a una vita in proprio. Oppure: qualcosa ci viene detto, ma di riflesso. Ci viene detto qualcosa sulla circostanza – contrasto di oscurità autunnale e umana luce circoscritta, silenzio, attesa – in cui una nostra marginale intensità, di riflesso, si manifesta.
Ma è una finta, si dirà, nient’altro che una posa. Chi parla alla fine è il poeta, non il sambuco. Certo, nel senso di un linguaggio articolato e umano è il poeta; tuttavia il luogo da attribuire all’umano, il luogo in un certo senso in cui confinarlo è definito, attraverso il poeta, dal sambuco.
Una caratteristica generale della poesia di Wagner è la definizione di oggetti – naturali o artificiali – che per essere fatta da prospettive inattese e spiazzanti, difficili da ricondurre al solito e al noto, non è meno precisa, anzi di una precisione insistente e quasi maniacale. La definizione lavora con metafore inusitate ma, in fondo, semplici, cioè fondate non su oscure analogie radicate nell’insondabile individualità del poeta, bensì sull’aspetto facilmente percepibile, fenomenico delle cose. Poi però questi oggetti, così definiti per un certo numero di strofe, definiscono a loro volta, verso l’ultima, uno spazio stranamente vuoto che è quello dell’umano: una sagoma tutt’al più, che per percepire i propri contorni deve ricorrere alle circostanze che lo inglobano – qui ed ora, o in un momento perduto del tempo. Ad esempio è lecito pensare che la poesia letame si riferisca a un ricordo d’infanzia – lontano e individuato da una serie discontinua di sensazioni. Che si tratti di un bambino ce lo dicono abbastanza chiaramente “gli stivali di gomma […] di un gigante” e la parola “adulti”; ma questo bambino che zia Mia prende per mano compare soltanto, propriamente, al verso 10 di una poesia che ne conta 12. Compare al verso 10 perché, correndo verso la porta d’ingresso, il suo io di quel momento sarà definito dall’impressione più potente fra quelle che lo definiscono dall’inizio della poesia: nel gelo candido, baluginante e asettico della neve, il vapore, l’afrore, il colore bruno della cupola di letame.
Osservazioni analoghe sulla “posizione” dell’essere umano – io poetante o io del ricordo – si possono fare riguardo alle due poesie tratte dalla raccolta Australien. Con qualche considerazione aggiuntiva.
Nella prima, rübezahl, un sonetto, il se stesso al quale il poeta si rivolge alla seconda persona (“e tu finalmente […] riconosci”) compare al verso 10 su 14, nella coordinata a una dipendente – e sarebbe interessante analizzare la sintassi di Wagner, anch’essa fatta per diluire nelle circostanze e togliere importanza alle sostanze. Quello che viene prima è natura non-antropizzata, a malapena si può supporre che la rappresentazione implichi un anthropos, che descriva un impatto su di lui, e non sia invece un’autorappresentazione fatta per suscitare direttamente nel lettore, senza interposta persona, il noto effetto del timor panico. Siamo, per richiamarci una prima volta al titolo, nel regno ambiguo di Rübezahl. Il “tu”, l’umano, compare soltanto all’apparire del manufatto (“le note / sagome dei silos”), soltanto quando riconosce il manufatto umano l’umano consiste e prende piede. E a quel punto il mucchio di teschi sul margine del campo si rivela essere un mucchio enorme di barbabietole bianche. Recupero dell’anthropos? Fino a un certo punto, perché questa poesia (come la successiva, solitario) si chiude a ricciolo, nel finale recupera il titolo. Infatti il mucchio di barbabietole è enorme: ungeheuer; ma Ungeheuer, come sostantivo, è il gigante, il mostro, cioè Rübezahl. Il mucchio di cose bianche resta ambiguo: forse sono barbabietole, forse sono teschi – dipende dalla prospettiva.
L’ultima poesia, solitario, anche questa un sonetto, ha una struttura analoga: l’umano compare nella prima terzina, come accusativo del pronome personale. Non c’è quasi altro, dal momento che l’immagine nella seconda terzina oscilla fra l’umano e le figure delle carte (recupero del titolo). Nelle quartine abbiamo soltanto tracce, in parte ambigue: la mano che si tende verso il mazzo di carte è la mano di una felce.
Per concludere quindi, e tornare all’interrogativo iniziale: quale metafisica, e quale antropologia?
Una metafisica delle cose – dei fenomeni – che si impongono letteralmente alla conoscenza con un peso e un’iniziativa insospettati; ma obliquamente, schivando lo sguardo da padroni che siamo abituati a portare su di loro; gentilmente e signorilmente ci eludono, ristabiliscono le giuste proporzioni, il corretto senso di marcia: dal (supposto) oggetto al soggetto, e non viceversa.
Una metafisica delle cose che istituisce un’antropologia, potremmo dire, vestita di sacco e con la cenere sul capo, un’antropologia della modestia, modestamente residuale, il cui tratto saliente è l’attenzione, il desiderio di cogliere un segreto: “chi poteva, voleva / capire le cotogne, / la loro gelatina, in vasi panciuti di vetro allineati / per i giorni bui negli scaffali […]” (sfogliata di cotogne, trad. di Dario Borso, qui).
Certo nella poesia di Wagner non si troveranno catastrofi umanitarie, guerre, migrazioni, cambiamenti climatici, misfatti del capitalismo. Vuol dire che non c’è impegno? Non mi sembra corretto affermarlo. Un impegno c’è: gnoseologico. La gnoseologia e l’antropologia di Wagner mi sembrano qualcosa di nuovo. Sono abbastanza solide da svilupparsi, da non arenarsi nella maniera? Vedremo.
NOTE
[1] Può darsi che per la comprensione della poesia non sia strettamente necessario, vale tuttavia la pena di ricordare che il sambuco (Holunder), pianta da noi piuttosto negletta quantunque in annate magre delle bacche si possa fare marmellata, è invece legata in ambito tedesco alla magia in senso positivo, a Frau Holle, potente e complessa divinità femminile il cui favore assicura salute e prosperità. Il sambuco è uno dei portali fra i mondi, ed è sotto un sambuco che nel Vaso d’oro di E.T.A. Hoffmann Serpentina, in aspetto di serpe, appare allo studente Anselmo.
[2] Rübezahl è una parola che sembrerebbe composta da Rübe (rapa) e Zahl (numero). In realtà è il nome proprio di una figura del folklore tedesco e slavo legata ai Monti dei Giganti nei Sudeti occidentali, compresi fra Polonia e Repubblica Ceca (nella seconda strofa, Schreiberhau e Krummhübel sono i nomi tedeschi di due città oggi in Polonia). Si tratta dello Spirito, o Signore, di quelle montagne, variamente rappresentato come gigante, demonio, corvo, asino ecc., piuttosto lunatico e nei confronti degli umani via via benigno o temibile. L’importante è non chiamarlo ‘Rübezahl’, nomignolo irriverente, ma di rivolgersi a lui col titolo che gli compete: ‘Signore delle montagne’. L’origine del nome ‘Rübezahl’ non è chiara. Esiste però una leggenda che fornisce un’etimologia popolare legata alle rape e ai numeri: il gigante avrebbe rapito una bella principessa, che però rifiutava ostinatamente di sposarlo. Promise che l’avrebbe fatto soltanto se il gigante avesse saputo dirle il numero esatto delle rape che c’erano nel suo campo. Per essere sicuro di non sbagliare, il gigante contò e ricontò, e mentre contava e ricontava la principessa tagliò la corda. Al sicuro nel suo regno, si prese gioco di lui chiamandolo “Rübezahl”.
“certamente non il primo piano”! Da quel vincolo che rapporta il linguaggio al reale cui si (infinitamente) avvicina, Jan Wagner non può districarsi. Introducendo la scrittura (inchiostro, testo, catasto, carta a mano, copisti) in “sambuco”.
“Una caratteristica generale della poesia di Wagner è la definizione di oggetti – naturali o artificiali – che per essere fatta da prospettive inattese e spiazzanti, difficili da ricondurre al solito e al noto, non è meno precisa, anzi di una precisione insistente e quasi maniacale”: la precisione di descrivere gli abitanti della casa, abiti neri e colletto, chiudono le tende, tengono dentro gli stivali, sulle assi del pavimento, aprono e chiudono porte, la zia sa di grappa e canfora (abiti pesanti tirati fuori dai bauli per la neve?), ma il “fuori”, tenuto fuori, domina. Bianco accecante, si suppone vento che si infiltra con la neve e fa sbattere le porte, silenzio, il vasto fuori. Ma la zia prende una iniziativa e corre, c’è un quasi-canto ovattato, l’esitazione del bambino alla porta. Apri la porta e c’è il letame, non umano, degli animali mai nominati finora, ma sono stati apprivoisées (Il piccolo principe!), è scuro e fumante, è traccia umana per interposti animali nel mondo bianco gelato e fermo.
In rübezahln fai una interessante notazione sulla sintassi: il tu umano “compare al verso 10 su 14, nella coordinata a una dipendente – e sarebbe interessante analizzare la sintassi di Wagner, *anch’essa fatta per diluire nelle circostanze e togliere importanza alle sostanze*”. Il contesto della poesia è mitico/magico tuttavia, quindi proiettivo, umanamente costruito.
Nell’ultima poesia l’umano sono le due bici, nascoste, coperta e piatti di plastica, le meringhe, il pericolo che altri li raggiunga, le carte da gioco con cui si autorappresentano, immersi nell’acqua -lontano da riva- fino alla vita.
Concordo con le tue conclusioni: una metafisica delle cose, fra cui noi umani siamo lateralmente impiantati, forse periferici, una gnoseologia dell’attenzione e, credo di poter aggiungere, della misura delle distanze che dobbiamo imparare finalmente a prendere.
Cara Cristiana, leggi in profondo e, mi pare, nella direzione che intravedevo – benché tu faccia all’umano anche più spazio di quel che farei io.
Concordo con tutto, tranne forse col contesto “proiettivo” di “rübezahl”. Probabilmente la mia traduzione non riesce a rendere l’ansia e leggera tensione della prima quartina di fronte a qualcosa che umano non è – ma anzi estraneo e tendenzialmente minaccioso.
Credo che il fascino di queste poesie stia proprio nel mostrarci, come per caso, “lateralmente impiantati”. E’ inatteso ma apre degli orizzonti.
APPUNTI DI LETTURA: SAMBUCO DI JAN WAGNER
1.- Leggendo “Sambuco”, la prima cosa che noto sono le domande: tre interrogativi.
Il primo: «A che l’inchiostro, ci si chiede, nelle frasche / le gocce nere che si addensano impensate / in schizzi di merli?» Possiamo tradurre questa prima domanda in un linguaggio meno oscuro? Possiamo parafrasare?… ”Ci si chiede”. La formula è ripetuta al verso 12. Ma chi chiede a chi? È un chiedersi tra di noi. Quel noi che vediamo apparire al verso 12 e che, alla fine, si paragona a silenziosi amanuensi.
E cosa ci chiediamo tra di noi? Ci chiediamo: “A che l’inchiostro nelle frasche”. A che pro e per quale ragione abbiamo a che fare con “l’inchiostro nelle frasche”. Per comprendere l’espressione occorre, ovviamente, conoscere un sambuco, sapere che le bacche di questa pianta maturano tra fine agosto e settembre-ottobre e contengono un succo somigliante all’inchiostro. Le gocce nere, quindi, fuoriescono dalle bacche. Ma chi le fa fuoriuscire?… Sono i merli che ne vanno matti. Beccandole, producono degli “schizzi” casuali, “impensati”.
Hanno un senso, hanno qualche significato queste “gocce nere che si addensano impensate in schizzi” prodotti da merli?… Il Noi della poesia non dà una risposta a questo primo interrogativo.
Ma il fatto importante è che sia stato posto
Secondo interrogativo: «quale testo / per qual catasto di terreni, qual regesto?» Dagli “schizzi” passiamo al “testo”. Un testo di cui ci è ignoto il contenuto e la destinazione (“catasto di terreni”? “registro” di atti o atto esso stesso?). Insomma, qualcosa vediamo nel rapporto merli-bacche di sambuco, qualcosa che forse possiamo tradurre nel nostro linguaggio come “inchiostro”, “schizzi”, “testo”, “catasto”, “regesto”, ma che fondamentalmente ci rimane incomprensibile.
Intanto un luogo c’è ed è quello dietro lo steccato, di fianco al vecchio fienile, dove la terra affonda nelle prese (d’acqua?). È qui probabilmente che vegeta e cresce il sambuco di questa poesia. Un flash ci riporta ad aprile, quando diffonde il profumo dei suoi fiori. Sono questi “la carta a mano che trae dalle sue profondità”? Le infiorescenze sono la carta e le bacche l’inchiostro?… La sintassi di questi versi è tutt’altro che chiara. Sono i panni che cominciano a svolazzare sull’asta mentre asciugano o le infiorescenze col loro profumo? “Si trasformano i merli in taccole”, vuol dire che in aprile intorno al sambuco e ai suoi fiori girano più le taccole che i merli?… Questi aspettano le bacche di fine agosto settembre, mentre le taccole, essendo onnivore, si nutrono anche di larve e insetti che ronzano spesso intorno ai fiori del sambuco.
Terzo interrogativo: «quale dolce o severo / segreto, ci si chiede, dividerà con noi / quando in autunno saremo raccolti attorno al / buio delle terrine, con i nostri cucchiai d’argento / lucente, le camicie della domenica eccessivamente / immacolate, silenziosi come amanuensi?»
Sono raccolti attorni al buio delle terrine con i cucchiai d’argento perché consumano la marmellata di sambuco?…Le camicie della domenica eccessivamente immacolate vengono evocate per paura di macchiarle col nero della marmellata?…Le camicie “immacolate” o sono nuove o sono state appena lavate. Ritorna, in un certo senso, la compresenza-opposizione di panni e fiori-bacche di sambuco.
In ogni caso, anche il terzo interrogativo non riceve risposta. Il lavoro di trascrizione a mano, sia pure silenzioso, verrebbe effettuato volentieri se solo si potesse scoprire il “dolce o severo / segreto” del sambuco. Toccherà, invece, restare raccolti attorno al “buio delle terrine”, e limitarsi a utilizzare i propri “cucchiai d’argento /lucente”. Allusione forse al fatto che l’unica relazione chiara fra noi e il sambuco è data dal suo eventuale utilizzo nutritivo.
2. – Il primo rapporto col sambuco è definito dall’”inchiostro” (vegetale, che forse si può ricavare dalle sue bacche). Il Noi di questa poesia è paragonato a silenziosi “amanuensi”, figure professionali, che prima della scoperta della stampa, trascrivevano libri e codici antichi.
I primi a servirsi delle “gocce nere” delle bacche di sambuco non sono gli amanuensi, ma i merli che, beccandole per mangiarle producono uno “schizzo”. Perché lo fanno? A che pro?… Impossibile fornire una risposta a questa domanda. Sarebbe come chiedersi perché c’è il Sole e la Luna, perché la Terra, l’Aria e l’Acqua. Il Noi di questa poesia non fornisce risposte. È attratta dall’inchiostro per via della propria condizione esistenziale e sociale e del proprio mestiere di scrivente (o trascrivente).
Il Noi-amanuensi scrive (o trascrive) testi, catasti di terreni, regesti. Fanno forse qualcosa di simile merli e bacche di sambuco? Non c’è risposta. Ma la domanda è antropomorfizzante. Su questo non c’è dubbio. “Che fai tu, Luna, in ciel? dimmi che fai?”
Il sambuco, che suscita nel Noi queste domande, vegeta e cresce dietro lo steccato, al lato del vecchio fienile – vecchio come sono vecchi gli amanuensi? – , dove la terra affonda nelle prese (quasi certamente d’acqua). Siamo in aprile, nel periodo della sua profumata fioritura. Non so quale “carta a mano trae dalle sue profondità”. Di sicuro la carta è bianca come le sue infiorescenze. E questa “carta bianca” si trasformerà in “gocce nere” d’inchiostro e in “schizzo” impensato a settembre-ottobre. Il sambuco è un atipico amanuense?… Questa poesia è un sambuco che comincia con un “a che l’inchiostro” e termina con una similitudine e la parola “amanuensi”. Il Noi è quello del poeta e del sambuco?…
Il bianco della carta e dei fiori forse si associa anche al bianco dei panni messi ad asciugare e svolazzanti. I panni che indossa il Noi sono contigui al sambuco, in un rapporto di compresenza-opposizione. Del resto, questi panni che “cominciano a svolazzare sull’asta” sembrano propiziare non solo la “trasformazione” dei merli in taccole, ma probabilmente anche lo “svolazzare” o la trasformazione del Noi amanuensi in sambuco e viceversa. I panni svolazzanti alludono ad identità metamorfosanti?
Scena finale coi tempi verbali al futuro: in autunno “saremo raccolti attorno al buio delle terrine”. Non so da dove provenga questo “buio”. Forse dalle “gocce nere”. Lungo il testo sono evidenti una serie di ritorni (ad esempio: nero-buio contrapposti al bianco chiaro-lucente). Comunque, le terrine o sono contenitori, ciotole con dentro qualcosa che richiama il “buio” o sono sformati. Il Noi amanuensi è raccolto attorno a queste terrine, con i cucchiai “d’argento lucente”.
La scena è caratterizzata da raccoglimento, silenzio, “immacolatezza” delle camicie. Quale dolce e severo segreto dividerà con noi amanuensi?… Non so. Sicuramente c’è qualcosa di dolce e severo in questo raccoglimento per cibarsi, in questo utilizzo dei “cucchiai d’argento” (posate, immagino, delle grandi occasioni), in questo indossare le “camicie della domenica”…
Dolce e severo come questa poesia-sambuco di cui ci stiamo cibando. Ma ne abbiamo compreso il segreto?… Non saprei dire. Credo di no.
Un’analisi molto approfondita di cui ti ringrazio. Cercherò non tanto di rispondere agli interrogativi che solleva, ma di chiarire qualche punto ambiguo dovuto (anche) alla traduzione.
– “ci si chiede”: letteralmente è l’impersonale “si chiede”; io ho aggiunto il ‘ci’ perché mi sembrava che altrimenti potesse venir inteso come un riflessivo (qualcuno si chiede). Non mi pare però che cambi molto. Il soggetto è un soggetto indeterminato umano, probabilmente coincide col “noi” dell’ultima strofa.
– “schizzo di merli” può essere anche “chiazza di merli” e può indicare un certo numero di merli che si “affollano” attorno alle bacche di sambuco. Mi sembrava che “schizzo” lasciasse aperte più possibilità (schizzo di inchiostro, schizzo in senso di disegno, glifo). In ogni caso, quale testo disegnino le bacche di sambuco non sappiamo, fa parte del segreto.
– le “prese”: si intende piccoli riquadri di terreno dedicati a una certa coltura – come ad esempio le prese dell’orto. la parola tedesca, ‘Beet’, è tradotta generalmente con ‘aiuola’, ma in italiano aiuola fa pensare ai fiori, mentre nel contesto rustico si tratta quasi certamente di piccoli appezzamenti coltivati. ‘Presa’ in italiano ha anche questo significato (a me è familiare dal dialetto), ma capisco che non è facile arrivarci (avevo pensato a ‘prese dell’orto’ ma veniva un po’ lungo.
– la sintassi della lunga frase centrale, più chiara in tedesco per la posizione obbligata del verbo: principale e coordinata sono frasi nominali (il profumo / delle infiorescenze in aprile, la carta a / mano), segue relativa, segue temporale (mentre…) con due coordinate. Che i panni comincino a svolazzare man mano che si asciugano, non fa meraviglia, ma il punto enigmatico sono i merli che si trasformano in taccole. Sparisce il giallo del becco, le taccole sono tutte nere, sono parenti delle cornacchie, hanno qualcosa di più funereo e minaccioso dei merli (uccelli decisamente allegri). Non so se questa pista può portare da qualche parte o se è un sentiero interrotto. Io ci vedevo un avvicinarsi dell’autunno, ma è un’ipotesi sbagliata perché la trasformazione da merli a taccole avviene “mentre” la pianta cava dalle sue profondità la “carta a mano” delle infiorescenze, dunque non certo verso l’autunno.
– le terrine. L’ipotesi che il “noi” stia mangiando marmellata di sambuco è interessante perché si rimarrebbe all’interno del tema e “l’assunzione del sambuco” avrebbe qualcosa di sacrale e legato al segreto, al silenzio e all’atmosfera da scriptorium. Ci vedo però qualche inverosimiglianza perché la marmellata si mangia a colazione, sul pane, e non col cucchiaio da una terrina. Determinante è in ogni caso l’opposizione oscurità – brillio circoscritto dei cucchiai d’argento e delle camicie. L’oscurità è l’oscurità autunnale del fuori (se pensiamo la scena dalle parti di Amburgo, in autunno le giornate sono corte e la luce misurata) e l’oscurità della terracotta (e del sambuco?). Lo splendore circoscritto dell’argento e delle camicie immacolate è adeguato alla solennità (sacralità) del momento, che è il momento in cui il sambuco ci farà partecipi del suo segreto. E come la pianta nella prima strofa alludeva a un inchiostro e a una esoterica scrittura, noi fedelmente trascriveremo il segreto di cui veniamo messi a parte.
Dici che noi che leggiamo non l’abbiamo compreso. Certo che no (d’altra parte non comprendiamo nemmeno il mistero della Trinità, né un sacco di altri), ma abbiamo compreso che c’è un segreto e un suo possibile svelarsi.
Delle quattro poesie, “sambuco” è quella che mi piace di più. E’ anche la più complessa, sia da capire che da tradurre, ed è possibile che la mia traduzione suggerisca piste false. Ma mi sembra che dalla poesia si sprigioni insomma qualcosa…
Grazie della lettura e delle acute suggestioni.
mi piacciono molto queste poesie di J. Wagner…mi limito a riferire alcune suggestioni che mi hanno suscitato, anche grazie alle note e al commento critico di Elena. Intanto quattro poesie e quattro stagioni, dove predomina la presenza della natura bella e terribile, invitata a scrivere di se stessa, solo negli ultimi versi appare il noi umano, tenuto a latere…Questo particolare mi ha ricordato i dipinti di artisti orientali, dove il paesaggio naturale è predominante e la presenza umana, dalle piccole dimensioni, relegata in un angolo…Ma le poesie non presentano solo l’aspetto idillico, sembrano piuttosto rinverdire un immaginario infantile molto modulato davanti allo spettacolo della natura: incantato, sacro, ma carico di misteri, di ombre e del senso della morte, soprattutto nella poesia: “Rubezahl” negli ultimi versi: “…il villaggio: la montagna di teschi/sul margine opaco del campo soltanto/un mucchio di rape da zucchero, innumerevoli,/ enorme”…Anche l’ultima strofa della poesia “Sambuco” mi sembra contenere un messaggio inquietante, dove bambini “nordici” consumano la cena (?): “…con i / nostri cucchiai d’argento lucente, le camicie della domenica eccesivamente immacolate, silenziosi come amanuensi?” questa scena mi ha inspiegabilmente ricordato un film di I. Bergman: “Fanny e Alexander”…la storia drammatica di incanto, di orrore e di magia di due fratellini…
Sì, credo che nonostante l’apparente leggerezza e quasi inconsistenza della poesia di J. Wagner, l’impressione di perturbante sia fondata. In “rübezahl” è la coscienza della non-umanità della natura, una coscienza discreta come un filo di nebbia, sufficiente però a trasformare un mucchio di rape in un mucchio di teschi. Purtroppo non ho visto Fanny e Alexander, ma credo di capire cosa intendi; io trovo affascianti questi brillii nell’oscurità, ma anche commovente l’inutilità di argento lucidato e tela candida, poiché l’unica cosa che importa è captare un segreto. E che dire di “solitario”, dove un ragazzino e una ragazzina, assorbiti dal lago-pantano e dal suo odore “estraneo”, a stento ancora raggiungibili da voci umane, si trovano (felicemente?) trasformati in carte da gioco?
Credo che il perturbante sia l’angoscia sottile di non trovarsi più al centro del mondo – e di un mondo creato apposta per l’uomo.
APPUNTI DI LETTURA: “LETAME” DI JAN WAGNER
Le immagini-scene di “Letame” si sviluppano come quelle di un sogno, con una temporalità condensata. Fino al verso 8 sono tutte rette da verbi all’imperfetto (era, baluginava, aprivano/chiudevano) con le caratteristiche tipiche di questo tempo verbale: abitualità (azioni o eventi che si ripetono in un passato imprecisato: in questa poesia sembra essere quello dell’infanzia), intenzionalità descrittiva, continuità ininterrotta. Le scene di questa prima parte sono quattro:
1) Crepuscolo -neve fresca. In questa prima scena c’è esplicitamente un’opposizione fra “ mancanza di luce-crepuscolo” (interno) prodotto da un Loro sottinteso e riconducibile forse a quegli adulti in abito nero e colletto (preti?… Pastori?…) e “neve fresca” che balugina (esterno)
2) Stivali di gomma vuoti di un gigante. Il gigante non c’è. Ci sono soltanto i suoi stivali vuoti. Non c’è, ma se ne avverte la presenza. È un gigante buono o cattivo? Forse buono, se ci venisse a liberare o se si potessero infilare i suoi stivali e scappare.
3) Adulti in abito nero e colletto che aprono e chiudono porte.
4) Di nuovo il silenzio (come se facesse parte di una scena costante, ininterrotta) – a parte quei “suoni ovattati” che venivano da lontano come di un canto, suoni che sembrano rompere il silenzio.
Le scene di questa prima parte appaiono vissute con un senso di oppressione dal bambino che viene preso per mano dalla zia Mia nel verso 9; una zia che sapeva “di grappa e di canfora” (sostanze, per così dire, risveglianti). Probabilmente la zia accompagna il bambino nella sua corsa lungo il corridoio, fino alla porta. Esce ed esita nel freddo (cfr. verso 3 fuori “baluginava la neve fresca”): fumante nel cortile “l’acre campana bruna”. È il letame che appare ai suoi occhi come una liberazione. Campana perché, ammucchiandosi il letame, assume questa forma. Ma non è escluso forse anche un richiamo al Faust in cui il suono della campana ha un effetto liberante per il protagonista.
“Letame”. Il sostantivo isolato a fine verso sembra avere una doppia funzione: da un lato sembra bollare con un “rifiuto” l’esperienza condotta all’interno, in quel mondo buio, silenzioso, di adulti in abito nero; dall’altro sembra rappresentare il momento liberante, la campana bruna del risveglio, propiziato dalla zia che sapeva “di grappa e canfora”.
Direi che l’hai esaurientemente e convincentemente decriptata. Sottolineerei in particolare il senso di oppressione della prima parte, come se fino all’apparire sulla scena di zia Mia il bambino fosse stato un po’ lasciato a se stesso, in un ambiente che non gli è del tutto familiare. Gli adulti sono silenziosi e indaffarati, vanno e vengono e non badano a lui – forse c’è stata o ci sarà una cerimonia – più un funerale che un matrimonio in ogni modo. Il bambino, in quella casa un po’ estranea che lancia segnali difficili da decifrare, subisce come una diminuzione di identità – fino alla comparsa di zia Mia che lo introduce, già con un preludio di grappa e canfora, alla potente impressione vitale, la riscossa trionfante, la campana di letame il cui odore acre si spande come un’onda sonora nel vuoto del gelo. Risveglio e ripristino del sé attraverso un’impressione potente.
descrizioni piu’ o meno poetiche null’altro…a dove e’ la poesia, che non e’ affatto descrizione
Forse il poeta ha letto Pasternak dellr prime poesie, mah!
“descrizioni poetiche” mi sembra decisamente riduttivo. In ogni caso io apprezzo che non fingano profondità che non ci sono più.
Tu preferisci qualcosa del genere, punto di domanda: http://www.leparoleelecose.it/?p=42049
Mi è piaciuto molto leggere queste poesie. Leggo spesso con interesse su questo sito, solitamente non commento perchè sono un po’ “intimorito” dalla alta qualità dei commenti dei lettori, e anche i commenti che ho letto qui sopra infatti denotano una grande attenzione nella lettura.
Desideravo però esprimere il mio apprezzamento e ringraziare per la decisione di tradurre queste poesie. Seguire le vostre interpretazioni è stato affascinante.
La ringrazio dell’apprezzamento e della decisione di esprimerlo. Lo interpreto anche come un incentivo a tradurre altre cose, di altri autori. Però non credo che lei dovrebbe sentirsi “intimorito”. L’importante, come scrive, è l’attenzione nella lettura. Quando c’è quella, ogni commento è benvenuto.
il fatto e’ c he non conoscono
profo ndita’ , e il fatto
che non esistano piu’ dipende dal poeta, ma oggegtivamente esistono – poi cara Elena
conosci qualche mio verso … fai dunque una comparazione disinteressata