Narratorio (versione 2021)
di Ennio Abate
DAL CAPITOLO I: BRACIERE, FREDDO, LETTURA, PREGHIERE, PAURE
Madre e figli si scaldarono durante le sere invernali attorno a quel braciere. L’aveva usato a Casebbarone nonna Fortuna e prima di lei altre ignote nonne. Ora asciugava un po’ l’umido della stanza, che restava freddissima. Ogni tanto Nunuccie o Eggidie mettevano sulla brace scorze di mandarino per sentire, mentre bruciavano e facevano fumo, l’odore acre che gli piaceva. Si scaldavano loro tre. Il cielo – gli squarci di cielo nelle finestre – era scuro. I ragazzi avevano geloni violacei sulle orecchie e la pelle sul dorso delle mani gli si screpolava. Nannìne, per combatterlo quel maledetto freddo, lavorava coi ferri gomitoli di lana grezza e giallastra per dare ai figli maglie pesanti. Per tenergli il petto al caldo, anche se pungevano sulla pelle quando i ragazzi le indossavano.
Non so dirvi con quali parole, ma di sicuro in dialetto, e coi sorrisi, le carezze, un bacio, un movimento degli occhi, Nannìne disse a quel figlio che lo voleva più ubbidiente e più buono, come lo era in quei momenti, che imparasse a somigliare ad un angelo, che diventasse un prete. Perché Nunuccie in quegli anni buono e tranquillo non lo era. Fin dalla nascita malaticcio, dopo il trasferimento da Casebbarone nella casa di Via Sichelgaita a Salerno non s’era tanto abituato allo stacco dalla campagna, dalla nonna e dai cugini assieme ai quali era cresciuto nei primi anni. Era diventato scazzaregliuse e prepotente col fratello, scontroso con Mìneche, tanto che faticava a parlargli o a stargli vicino. E fu allora che gli venne l’uocchie sinistre strabbiche. Faceva i capricci e appena poteva, trasgredendo l’ordine di Mìneche, scappava in strada e per i prati a giocare con gli altri ragazzi.
Un giorno confidò a Nannìne che aveva visto Gesù crocifisso. Tra gli spigoli delle grondaie e il muro in un angolo dell’imponente muraglia del seminario diocesano di via Pio XI. Che stava vicino alla casa di zi Vicienze, oltre il vallone di cespugli e di alberi verdi. Quel seminario si vedeva benissimo dalla casa di via Sichelgaita. Allora il silenzio del posto non era neppure disturbato dalle automobili come lo sarà anni dopo e, gridando e scandendo le parole, qualche volta erano riusciti a intendersi a distanza con i cugini Cosimato.
Nunuccie aveva le visioni? Nessuno poté indagare su com’era la figura così lontana del Cristo crocifisso che disse di aver visto, perché la cosa rimase tra lui e Nannine. Ho sempre sospettato, però, che quello non fosse un segno in più della sua vocazzione, ma un modo per attrarre su di sé ancora più le cure di Nannìne. Che quella visione se l’era immaginata per compiacere il desiderio di lei di avere un figlio prete. O per rafforzare la sua incerta decisione di diventarlo. Il ragazzo fantasticava di brutto. Con la mente andava già per conto suo. Ed era di indovinare delle forme nelle cose guardandole in un certo modo stupefatto o svagato. Senza davvero metterle a fuoco né con l’occhio né con la mente. Ad esempio, già allora – e non aveva fatto neppure i primi tentativi d’imparare a disegnare – mi disse che vedeva teste di persone in certe macchie di umido del muro di fronte al suo letto. O nella carta da parati che copriva i muri della stanza dove dormiva con Eggidie. Nel gioco d’ombre tra i cornicioni e i muri del seminario aveva colto quell’immagine di crocifisso, perché secondo me in quel momento era nei suoi pensieri e lo turbava. Rimuginava i racconti che sentiva fare dagli adulti, che lo incantavano e impaurivano. Quelli delle zie e della nonna soprattutto. Tutte donne vestite di nero. Che, quando s’incontravano con Nannìne, parlavano quasi sempre di conoscenti morti o malati. E, abbassando la voce, sentiva che raccomandavano i malati a Dio, alla Madonna di Pompei o a certi santi, che potevano salvarli. Altre suggestioni le aveva avute sfogliando un libro di preghiere. Gliel’aveva prestato Enza Maria (qui, link da definire). Non erano visioni di santi, però. A me Nunuccie disse che c’erano terribili descrizioni delle pene infernali preparate per i peccatori.
Ma è da quelle sere attorno al braciere che Nunuccie provò a mescolare il sogno di sua madre con quelli che si costruiva fantasticando o imparando a leggere sul sussidiario sotto la guida di lei. A vocazzione spuntò nel legame tra Nannìne e questo figlio. Che era il primo dei due partoriti – s’era sposata tardi – durante la guerra.
A Nunuccie, e primm’e anne e l’elementare, Nannine ancora nge puteve ra na mane a mparà a legge e cunte ca stevene scritte rint’o sussidiarie, ca se chiamava ‘O muline’. Sì, ‘ngera pure Eggidie. Mineche no, nun ‘ngere. Steve a faticà fin’a tarde addò Salentine. E meglie accussì. Perché una volta s’era improvvisato maestro ed era stato terribile e manesco. Chella vote Nunuccie s’aveve ‘mparà o sisteme metriche decimale e faticave a capì. Allora Mìneche, ca nu teneve pacienze, n’ge rette nu schiaffone n’faccia. Ma forte da lasciargli i segni delle dita sul volto. Ca Nannine, ca steve cucinanne, subite currette p’abbraccià o figlie cha chiagneve.
E a Nannìne com’era venuto quel desiderio di avere un figlio prete? Pare che a incoraggiarlo fosse stata una certa zi Adeline, una sua mezza parente benestante e senza eredi. A lei Nannìne era molto legata soprattutto per la comune devozione cattolica. Questa zi Adeline aveva detto a Nannìne che avrebbe pagato la retta da seminarista se uno dei suoi due figli avesse avuto a vocazzione. In più, pare che Nannìne avesse anche delle aspettative segrete su questa zia. Perché quella in modi più o meno vaghi le aveva fatto capire che forse poteva lasciarle in eredità qualche appartamento dei tanti di sua proprietà sparsi nei vicoli della città.
No, a far crescere a vocazzione non sarebbero bastate né le spinte di Zi Adeline né le voglie di Nannìne se a Nunuccie non si fosse presentata l’occasione di sfuggire la vita da recluso che faceva con suo fratello nella nuova casa di via Sichelgaita. L’occasione per eludere il controllo morbido e soffocante di Nannìne e quello militaresco e manesco di Mìneche ci fu. E il ragazzo si buttò anima e corpo nelle cose dell’ Azione Cattolica rivolte ai ragazzi della zona. Nella parrocchia di Sante Ruminiche a dirigerle ci fu a signurina Dag. Era un’organizzatrice formidabile e multiforme, dolce e severa. Divenne la confidente di Nunuccie e sostituì Nannìne. Ed esercitò per anni su di lui un molle maternage pratico e spirituale. Gli insegnò a servir messa. Lo spinse alla meditazione. Lo nominò capo di un piccolo gruppo di ragazzi, che Nunuccie, zelante e tenace, andava a raccogliere per via Sichelgaita. Ogni domenica mattina si svegliava più presto e bussava casa per casa per raccoglierli e portarli a messa. Fu lei a organizzare le gare di catechismo, dove Nunuccie conobbe don Contorto, che divenne poi il suo assistente spirituale, nuovo confidente e anche corrispondente epistolare, sostituendo a signurine Dag come lei aveva sostituito Nannìne.
Ma siamo sicuri che a vocazzione nasce d’inverno e di sera e nell’appartamento di Via Sichelgaita? Volete credere ai ricordi di Nunuccie? Sì, alcuni sono stati confermati anche da suo fratello Eggidie. Alcune cose sono certe. Che Nunuccie leggesse il sussidiario ‘Il mulino’. Me lo ricordo quel libro. Sulla copertina grigio-azzurro c’era un brutto disegno scolorito: un casolare di campagna con una grande ruota di mulino. E Nannìne ogni tanto aiutava Nunuccie a pronunciare con l’accento giusto qualche parola che lui storpiava. Lo ascoltava leggere a voce alta mentre lei manovrava il ferro da stiro dal manico di legno, che aveva riempito con la carbonella incandescente presa dal fornello della cucina. Finiva di stirare e Mìneche tardava a rientrare. Allora Nannìne apriva il suo libretto delle preghiere e prendeva la collana. Voleva recitare coi due figli tutte le cinque decine del rosario, ma quelli si stancavano. E allora tagliava accontentandosi di ripetere con loro soltanto tre Avemmaria e un Padrenostre.
Piccolo, con la copertina nera un po’ sgualcita e pieno di immaginette quel libretto. Di sicuro c’era l’immaginetta di San Rocco con la coscia ferita e il cane che porta un pane in bocca. E quella della Madonna di Pompei, l’aureola di stelle argentate attorno alla testa piegata di lei e a quella del bambino. Più in basso, a sinistra del piedistallo un monaco. E a destra una monaca. Il bambino fa cascare nelle mani del monaco un rosario e la madonna ne dà un altro alla monaca piegandosi un po’ verso di lei.
Di libri in casa non c’erano che il sussidiario e il libretto di preghiere di Nannìne. Anche le immagini erano pochissime. Dopo lo stacco da Casebbarone, dove di immagini Nunuccie proprio non ne ricordava, queste erano le prime che vedeva. Poi vide l’illustrazione dei bravi che aspettano don Abbondio sulla copertina di uno dei rari quaderni con la copertina illustrata da un disegno. Perché allora i quaderni venduti dal cartolaio di via Vernieri avevano quasi tutti un’austera copertina nera nel fronte e nel retro e con il bordo laterale rosso fuoco. In casa avevano soltanto il quadro del Cristo col cuore in mano, che stava nell’angolo della sala da pranzo tra la cristalliera e la porta della cucina. E quello ovale con Sant’Anna e Maria bambina posto alla testa del letto matrimoniale dei genitori.
Dimenticate che aveva visto anche una statua di Sant’Antonio a dimensione quasi naturale sotto una campana di vetro. Sì, all’inizio del corridoio della casa della vicina, che allora era ancora la signora Benincasa. Solo quando Nannìne, per le insistenze di Nunuccie, cominciò a comprargli ogni settimana ‘Il Vittorioso’, entrarono in quella casa immagini coloratissime mescolate alle parole dei fumetti. Così un po’ fu distratto da quelle esclusivamente religiose che l’avevano attratto e intimidito fino a quel momento.
Alla fine della fiera, però, lo dice soltanto Nunuccie che Nannìne gli aveva passato il suo desiderio di avere un figlio prete. Non è che anni dopo su alcuni ricordi di ragazzo quello ci abbia ricamato di suo, soprattutto quando cominciò a scrivere su sua madre che nel frattempo era morta? Per me, dopo che aveva trascritto a mano su un quaderno il racconto di zi Rina sulla vita di Nannìne e saputo da lei che da giovane aveva fatto la ricamatrice, quello s’è buttato a ricamare anche lui. In poesia s’è persino immaginato che Nannìne, oltre alle maglie di lana grezza, preparasse per lui – sì lì, sempre accanto al braciere – anche un lenzuolo di preghiere di povertà e un sogno sontuoso d’incensi, di candele e altari fiammeggianti d’amore divino. Sono cose che ha persino scritto in Salernitudine.
Può darsi. A me ha mandato in lettura un pezzo del suo narratorio. E – leggete – al ragazzino che era negli anni ‘40 ha messo in bocca un discorso così: «Quando imparerò a scrivere e a scrivere poesie, darò voce al discorso muto di Nannìne. Me lo sto inventando mentre sto accanto a lei! A vocazzione è il racconto del suo desiderio che io mi faccia prete. È mia madre che lo attizza in me. Proprio come fa adesso con la carbonella del braciere. Io ci sto, obbedisco al suo desiderio, l’accontento».
E già! Ha preparato il terreno per dire che lui è stato vittima del desiderio materno e che ne è stato soffocato. O che la vocazzione quasi quasi gliel’ha imposta Nannìne. O la signurine Dag. O i preti. Ve lo ricordate che scrisse «Nel sogno materno»? Parlò delle carbonelle conservate in soffitta, della gallinella che preparava l’uovo, della contadina che bussava alla porta al mattino per portare il latte. Ma uno può far parlare sua madre nel 1947-’48 come se fosse stata una persona istruita, mentre quella aveva solo la quarta elementare? E in un italiano che pare semplice ma che puzza di letteratura? E anche quel colloquio che ha scritto tra madre e figlio riguarda sempre e ancora sta cazze e vocazzione!
Calma, calma! È così che vengono fuori cose più profonde e vere di quelle che la gente riesce a dirsi faccia a faccia. I morti sono ottimi ascoltatori. E, anche se muti, qui a Nunuccie hanno suggerito ricordi puliti. Da essi si capisce come erano rassicuranti per lui bambino gli atti e le abitudini quotidiane di Nannìne. In quegli anni del dopoguerra. In quella casa. E se scrive che «nella cassa ci sono coperte e lenzuola ricamate», rende omaggio alla bellezza che Nannìne seppe mettere nel suo lavoro di ricamatrice. Che c’è di male? Quando dice: «cappotti e maglie di lana stanno nell’armadio», accenna ancora al freddo che li faceva soffrire e a lei che se ne preoccupava e provvedeva. (Il freddo fa soffrire tanti ancora oggi, eh!). E quando fa dire a Nannìne: «Sempre domani metterò il profumo di colonia, il velo in testa e, sì, sulle spalle la pelliccia della volpe nera», ci fa immaginare l’ammirazione del bambino nel vedere il corpo di sua madre che si preparava per uscire e lo stupore per quei gesti di lei quasi magici.
E dove poteva cogliere le cose belle allora? Era il dopoguerra. Erano sempre chiusi in casa lui e il fratello. Guardavano dalla finestra di Via Sichelgaita il mare e le colline. E di questo pure scriverà. Quando cominciarono a frequentare la parrocchia, s’accorse della bellezza dei «garofani, tanti bianchi e rossi, sull’altare». Poi seguì incantato le funzioni religiose e si commosse a sentire la gente cantare in coro. Nel Duomo ascoltò per la prima volta la musica di un organo. E qualche volta i canti gregoriani. E lì spalancò gli occhi sullo splendore dei grandi mosaici colorati che riempivano le due absidi. S’immaginò – vedete – sempre sua madre come prima maestra d’arte: «T’incanterà – vedrai – il mosaico azzurrino con san Giovanni Battista, le onde, le palme e i cervi incuriositi». E ricorderà (o inventerà) Nannìne che muoveva le labbra mormorando una preghiera. In quell’angolo della navata di sinistra del Duomo. Mentre lui e Eggidie, nella fila di sedie davanti a quella dove lei s’era fermata, muovevano nervosi le gambe o giravano indietro la testa aspettando che lei finisse di pregare. Aspettavano che si facesse il segno finale della croce con la mano. Si tornava fuori. A respirare nelle vie, all’aperto.
Nessuno potrà confermare questi ricordi, manco i parenti sopravvissuti. Ma che importa? Quella sua vocazzione – precisa o imprecisa, religiosa o artistica, eroticamente indecisa e oscura – veniva dalle sensazioni che Nannìne senza neppure pensarci gli aveva passato.
Scrisse mettendosi nei panni di quando aveva tra 5 e 12 anni? Beh, ha parlato di cose passate perché erano ben presenti in lui. Fece dire a Nannìne: «Soltanto candele e tremiti di vecchie. Qualche pianto udrai. Non fiatare, osserva: estasi rugosa delle mie nonne in rosario, bisbiglii dai confessionali di cieche marie. Non rabbrividire. La mia anima s’apparterà un momento. Aspettala.». Ma ne aveva viste tante di quelle donne più o meno anziane. Stavano a pregare lì sotto, nella cripta del Duomo, quasi al buio. Erano statue per lui. Non smetteva di guardare volti dalla pelle rugosa e occhi così tristi e pazienti. Le aveva viste muoversi lentamente quando si alzavano dalla sedia e quando s’inginocchiavano.
Quando morirà Maria, la cieca che viveva in casa di zi Adeline e don Matteo, scrisse pure una poesia su di lei. Scrisse che si era spenta come quelle candele le cui fiammelle aveva visto barcollare in quel buio della cripta.
Un’altra volta annotò come si faceva serio il volto di sua madre quando entravano in Duomo. E quando scendevano in silenzio in quella cripta poi! Anche Mìneche aveva il volto serio quando veniva con Nannìne in chiesa. Lui però sopportava male l’irrequietezza di Nunuccie. Nella chiesa di San Francesco, dove quella domenica sentirono la messa prima di andare a pranzo a casa di zi Vicienze, quando Nunuccie s’era girato per un rumore dal fondo della chiesa, Mìneche gli aveva afferrato la testa con la sua mano forte e gliel’aveva girata in avanti. Bruscamente. Come una manopola. Senza pronunciare una parola. Ditemi voi.
Leggiamo con meno ostilità, su. Scrisse pure: «Primaverile e calda tornerà all’uscita». L’uscita dalla messa – o a San Domenico o a San Francesco – era uno scoppio di gioia. Che effervescenza. Specie a Pasqua! Passavano tutti – adulti e ragazzi – dal silenzio alla ciarla, dall’immobilita o dai pochi gesti composti – inginocchiarsi, alzarsi, sedersi – ai movimenti liberi, agli scherzi, ai saluti. Fuori dalla chiesa e lungo la gradinata la piccola folla si fermava a lungo.
E ancora: «Richiami. Leggera solarità degli abiti. Saluti distinguibili e cari di volti familiari. Intontimenti d’incenso. Sorrisetti e sberleffi. Languori pezzenti e stracci sotto i veli. Invidie evangelizzate e rimorsi». Proprio così. Nunuccie, Eggidie e qualche volta i loro i cugini, Vincenzo e Guglielmo Alfano di Casebbarone, ospitati in via Sichelgaita per qualche giorno, giravano in mezzo agli altri ragazzi. Avevano gli abiti nuovi preparati dal sarto o dalle zie in vista della festa. Erano spaesati ma tranquilli. Anche Nunuccie era attratto da quel clima. Aveva troppi timori però a guardare negli occhi quei signori con l’aria così seria e le loro mogli. O le ragazze. E per l’emozione non afferrava le parole che si dicevano. Non ne ha ricordato una!
Per è me la conclusione che dice altro: «Il Sacro Cuore lassù, trafitto da spade e raggi di luce, ci perdonerà. Tu, angelo come adesso, resterai. Io sull’inginocchiatoio, la tua ombra sarò. Risarcisci le nostre sofferenze, scendi in questa miseria, non negarci.». Perché pensava sempre a quel quadro del Sacro Cuore che stava nell’angolo della stanza da pranzo e che, se non era nascosto dalla porta della cucina lasciata aperta, quando Nunuccie avanzava nel corridoio, pareva che guardasse proprio lui e lo rimproverasse?
Vero, qui sulla sua angoscia di ragazzo ha spalancato un teatro: «T’inseguo, madre. M’impongo in disparte di sognare il tuo sogno. Ma in assenza di te si scuote fragile il mio corpo sgorbietto – orlandino furioso». Sgorbietto si sentiva davvero. Troppo magro, troppe scazzaregliuse. E pure orlandino furioso. Quel soprannome glielo aveva dato una volta Mìneche per scherzare. Ma coglieva qualcosa di strambo nel figlio. E strambo doveva essere stato anche Mìneche da ragazzo.
Non fa che insistere ossessivamente sulle sue paure: « – e l’animella mi si smaga per tornare in cieca corsa verso casa da te.». Ah, quella sera, quando con Eggidie e Rosario erano tornati dalla parrocchia! Era già buio. Correvano più che potevano ed erano tutti e tre impauriti. Perciò correvano più forte.
«Sprofondo. Annullarmi, diventare buio mi sento come la sera, morire la morte buia e non più, sotto il tuo sguardo, attraversarla leggero e intatto in mezzo all’urlo feroce dei passanti». All’anima! Quando era solo, fuori o in casa, Nunuccie aveva terrore del buio e, sì, della morte. E la tentazione era di sfidarla. Come potesse ucciderla correndo. Correva verso casa. Pensava che avrebbe riabbracciato Nannìne. E così non aveva più paura né dei morsi dei cani né dei fantasmi dei passanti che parevano guardarlo minacciosi e con occhi feroci dal buio.
Ma quanti siete?!
E questo ultimo signore che tira i fili, tra i ricordi propri e i sostegni che lo scrittore precedente gli ha fornito, sostegni per la memoria e sostegni per leggere la continuità, a posteriori, con la responsabilita pudicamente appena accennata di identificare nella religiosità della madre (una religiosità superficialmente confessionale, invece *continuità umana* nei secoli, millenni… : “Tu, angelo come adesso, resterai. Io sull’inginocchiatoio, la tua ombra sarò. Risarcisci le nostre sofferenze, scendi in questa miseria, non negarci”) una radice della futura scelta politica.
Altro richiamo pudico è quello alla gioia, alla allegrezza di esistere, di riconoscersi… e di riconoscere -insieme- nell’aria troppo seria di quei signori il germe di una coscienza di classe. E di porre la “questione” del rapporto con l’altro sesso.
Ho trovato scritturalmente molto sciolti – in realtà intriganti: ho dovuto rileggere accuratamente per distinguerli – gli spostamenti continui tra il narratore esterno e quello interno come testimone. Poi c’è distinzione tra i due narratori: lo scrittore precedente è un narratore interno onnisciente, quello del presente attuale è pacifico superio, in dialogo col narratario.
In sintesi, direi che: la vocazzione è quella alla propria vita.
(E che altro?)
” Ma quanti siete?!” ( Fischer)
Tanti, è vero (e non è vero). In versioni precedenti mi era venuta l’idea di segnalarli numerandoli: narratore 1,2,3…O di alternare paragrafi in tondo e corsivo( o addirittura neretto e a colori). Per ora ho lasciato perdere. Tanto si capisce che il Narratore Onnisciente non ce la fa a venir fuori…
In un testo come questo tuo c’è un problema per chi legge: ci si può fermare sul “contenuto”, a qualcuno può piacere il buon tempo antico, qualcuno sottolinea la miseria in Italia durante e subito dopo la guerra (e come dimenticare?), qualcuno può essere preso dalle caratteristiche psicologiche del bambino che tu sottolinei. D’altra parte rilevare e ragionare sul narratore sembra quasi ignorare il contenuto, appunto. Invece no: qual è il contenuto sostanziale se non il ripercorrere che tu stesso fai di quello che sei stato, nei fatti e nel tempo? Questo però rende complessa la lettura, da affrontare tuttaltro che con leggerezza. Ma appunto non è Carofiglio (poche pagine, caratteri grossi e prezzo alto) che si legge e si evacua. Allora leggere la scrittura diventa un lavoro, perchè la scrittura è complessa, stratificata e intrecciata tra strutture diverse: descrizioni, intreccio, sensi morali riposti, suggestioni culturali… e costruzione, intenzionalità costruttiva, disposizione generale significante. Roba per pochi. E allora… addio a una bella serata accanto al fuoco, in poltrona, per svagarsi e sognare. E niente baiocchi.
“qual è il contenuto sostanziale se non il ripercorrere che tu stesso fai di quello che sei stato, nei fatti e nel tempo?” (Fischer)
Sono d’accordo con tutte le osservazioni di Cristiana. Il secondo narratore-commentatore introduce un ulteriore filtro – cronologico, psicologico, di dubbio; è una seconda cornice che raddoppia la profondità, combatte il narcisismo insito nella narrazione di se stessi, svela il “teatro” dell’autorappresentazione. E, molto importante, fa del racconto della propria vita – e in particolare della parte più affasciante, l’infanzia – qualcosa che va oltre il ricordo tendenzialmente privato o la testimonianza (anche quella una grossa tentazione) di un mondo scomparso e oggi sconosciuto ai più. Mi ricorda lo sdoppiamento (o raddoppiamento) che mette in opera Nathalie Sarraute in Enfance e che fa senz’altro una parte del fascino dell’opera.
Mi piace anche, di questo estratto, il procedere per temi (A Vocazzione), che scavalca l’ordine strettamente cronologico e raggruppa gli eventi o le situazioni secondo un aspetto marcante della propria biografia. Dal tema e dalle situazioni che raggruppa si dipartono in modo naturale e quasi casuale altre osservazioni che definiscono con pochi tratti essenziali i tempi, i luoghi e la posizione del protagonista in essi. Ad esempio l’uscita dalla messa – dove fra le altre cose troviamo, come rileva giustamente Cristiana, la percezione da parte del protagonista della propria appartenenza sociale – percezione che si produce a quell’età in modo lampante e definitivo.
Per citare ancora Cristiana, ” la scrittura è complessa, stratificata e intrecciata tra strutture diverse: descrizioni, intreccio, sensi morali riposti, suggestioni culturali… e costruzione, intenzionalità costruttiva, disposizione generale significante”.
Non è che ti ricorda qualcosa, per caso?
Cara Elena, hai detto benissimo qualcosa che io ho saltato: “Il secondo narratore-commentatore introduce un ulteriore filtro – cronologico, psicologico, di dubbio; è una seconda cornice che raddoppia la profondità, combatte il narcisismo insito nella narrazione di se stessi, svela il “teatro” dell’autorappresentazione…” eccetera.
nonostante la doppia autorappresentazione, come per collocare fatti e personaggi nella profondità di un lago, i ricordi d’infanzia di Ennio risultano carichi di una grande intensità emotiva… Nannine e Nunuccie sono i protagonisti che, come cartine di tornasole, raccolgono le aspettative corali di una comunità, a sua volta plagiata da un’istituzione dal potere indiscusso e secolare vincolato a terrori ben calcolati di castighi etenii quanto reso desiderabile da immagini e prospettive di felicità mistica e ambizioni mondane raggiunte. .. Tuttavia la prima parte del racconto di E. A. già fa trapelare, attraverso l’insinuarsi di un sottile sarcasmo, il disgusto il rigetto a cui sfocera ‘A Vocazzione’… Un racconto di costume e dramma psicologico..
più che analizzare quanto si legge – e fanno bene a farlo le tre interventiste- io mi lascio trasportare e condurre per mano e per mente da quanto scrive Abate, perché in me si rinnovano similari esperienze infantili e adolescenziali… i momenti descritti con dovizia di particolari affettivi li sottoscrivo con gioia e un po’ di tristezza… mi si rinnovano in me
con tale efficacia che tremo a dover ammettere queste e quante corrispondenze mi legano a Abate stesso, avvalorate dal fatto che mio padre nato a Cava dei Tirreni, a due passi da Salerno, mi raccontava le medesime storie che in me si sono ripetute dopo nelle contrade salentine. E allora ben vengono questi ricordi che sono il nostro patrimonio e che dicono di quanta umanità umile e operosa furono pieni i nostri primi anni – Graìzie Ennio.
Antonio