Maksimilian Aleksandrovič Vološin
di Antonio Sagredo
“Nel 1917 la Cvetaeva aveva preso sul serio la profezia di Vološin sulle conseguenze della rivoluzione russa negli anni a venire: il terrore, la guerra civile, le esecuzioni, la Vandea, uomini trasformati in bestie, e sangue, sangue, sangue”, in E. Feinstein Anna di tutte le Russie-La vita di Anna Achmatova, ed. La Tartaruga, 2006, p. 101. La Cvetaeva non si sbagliava affatto!
Vološin nel 1923 pubblica Demoni sordomuti. che raccoglie suoi versi dal 1906 al 1918, compreso il poema Il protopope Avvakum, dove sono già in azione i demoni che agiteranno la Russia. Una altra sua raccolta, forse precedente, aveva il titolo di Versi sul terrore, che contiene la poesia citata. I due volumi (in lingua russa) uscirono a Berlino, dove era pubblicato anche l’almanacco della nuova letteratura russa “La giovane Russia”. Nel 1965 uscirà una ristampa inglese in russo di questo volumetto, edito da Flegon Press 1965, London, W.C2. La copertina di Demoni sordomuti fu realizzata da Ivan Puni, anticipatore della pittura astratta geometrica e di certe avanguardie russe; e che ebbe rapporti con Larionov, la Popova, la Ekster, Kandinskij, Kljun, Chagall; con Malevič poi fonda il suprematismo pittorico.
– questa città s’impone… secondo il vecchio diritto… : è ancora la romanità che è presente con “il diritto romano assimilato dallo zarismo e poi modificato secondo necessità imperiali!”, così fortemente voluta da Pietro il Grande in tutte le sue connotazioni eterne anche nella “sua” città: [1] “centro di un impero, un impero tanto grande da eguagliare quello romano”; e la città s’impone all’attenzione non solo per la sua grandezza architettonica (realizzata da alcuni architetti italiani, Rastrelli in primis), ma perché dovrebbe diventare capitale statale che unifica un popolo, città sacrale, che Pietro chiamerà “città santa” e “paradiso” (ma migliaia furono le vittime per costruirla); questi due termini, tra l’altro, furono ripresi da alcuni poeti russi, dopo la morte dello zar; ma “Pietroburgo non riuscirà mai ad assumere quei caratteri di sacralità, conosciuta da Mosca e da altre grandi capitali”. Non essendo orientale, ma realizzata come finestra occidentale!
La città, dunque, estranea alla mentalità storico-letteraria-artistica tradizionalmente russa s’impone al poeta; è città-metropoli che pecca di presunzione, e proprio perché sentita straniera, ha osato imporsi “secondo il vecchio diritto”!- E dunque quale è il vero destino di Pietroburgo?
Essa per gli incendi e per i geli è ancor più sfrontata,
altezzosa, maledetta, vuota, giovanile!
– gli incendi…: sono reali, ma sono anche passioni e desideri che suscita la città e che incateneranno i suoi futuri abitanti che non vi potranno sfuggire; e che si alterneranno con “i geli”, pure reali, ma anche simbolo di vuotezza: gelo dell’anima che la rende viva; in ciò Pietroburgo è ”sfrontata”, perché nonostante tutto “sorgendo tra le capitali, hai assunto l’onore del primato” (afferma lo scrittore P. A. Vjazemskij). Ed è anche “altezzosa, e, dunque, canta Puškin:
Ergiti nel tuo splendore, città di Pietro, e resta
incrollabile come la Russia.
Ma c’è anche un risvolto contrario: è una città maledetta… poiché è stata un fulgido errore (Karamzin); un maledetto errore (I. Annenskij); una pesante sventura (K. Aksakov). È pure una città “vuota… il sogno della zarevna Marija Alekseevna nel 1716: la sua sorte è di restare deserta”; e ancora Vološin: O Gigante di bronzo! Tu hai creato una città fantasma”; e infine, proprio per mancanza di “sacralità… ha fisionomia d’un centro alieno, di una città spettrale, abitata da fantasmi”.
Ma, nella penultima strofa, è anche città giovanile!: e qui Mandel’štam si riferisce di certo alla Pietroburgo dei suoi giorni – di poco prima e poco dopo la rivoluzione – centro eccellente di cultura, che si è svegliata e che ha messo da parte gli antichi fantasmi ed etichette di città angosciante e angusta. I giovani poeti e artisti sono numerosi e attivi e danno origine a movimenti e correnti culturali che investono tutte le arti, che danno e daranno lustro universale alla città: è il trionfo dell’intelligencija delle nuove generazioni…e davvero ogni campo artistico trionfò negli anni precedenti la Rivoluzione fino al 1925-1930 (anno fatale il 1930: l’anno del “suicidio” di Majakovskij e nello stesso tempo simbolo della cessazione di ogni attività libera e creatrice).E, come sempre è accaduto, saranno i poeti per primi ad avvertire l’inizio di un’altra più terribile epoca dei torbidi coi suoi terrori, che sprofonderà l’uomo in un nero orrifico, più nero della stessa torbida Nevà!
I cinque aggettivi (sfrontata, altezzosa, maledetta, vuota, giovanile) non sono messi a caso da Mandel’štam, ma ognuno d’essi ha la sua origine nella sua sensibilità poetica . Questi aggettivi tradiscono quel sentire a strati le epoche, caratteristica, noi sappiamo, tipica di Mandel’štam. E il nero torbido della Nevà si mescola col giallo dei palazzi e dei lampioni dei lungofiume… e si ha il nero-giallo giudaico a cui si mescola il rosso del sangue; e, dunque, si ha il colore della bandiera tedesca, e poi il giallo-bianco (di certe aurore boreali) dello Stato del Vaticano.
Pare che il colori giocassero a rimpiattino coi terribili eventi storici di quell’epoca.
Che cosa ci resta da fare con la cadavericità delle pianure,
con la fame prolungata del loro miracolo?
È che ciò che noi presumiamo schiettezza,
siamo noi stessi a vederla, addormentandoci, la vediamo,
e sempre cresce la domanda – Dove vanno? Di dove vengono?
E non striscia lentamente su di esse colui
del quale in sogno noi gridiamo,
il Giuda dei popoli futuri?
16 gennaio 1937, Voronež
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(da mia nota 34, p. 167=)
del Corso su Mandel’stam di AM Ripellin0 dl 1974-1075
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Poesia che fa parte del II° Quaderno di Voronež che va dal 6 dicembre 1936 alla fine di febbraio 1937. Il poeta si autocensurò, sostituendo l’ultimo verso con “Giuda degli spazi increati?”; poi che, è ovvio, il “Giuda dei popoli futuri?” non poteva che essere Stalin: troppo esplicito sarebbe stato il riferimento al dittatore; ma la sentenza su Mandel’štam, era già stata emessa! Questo ennesimo attacco a Stalin, le cui “dita grasse sono pingui come vermi”, testimonia il coraggio estremo di un poeta che non ha paura affatto del potere in qualsiasi maniera esso si manifesti. Si legga dell’extraterritorialità di Mandel’stam, come Dante (nota 126, p. 42).
“Matite grasse” come nella poesia a p.154 e le “dita grasse”dita di Stalin si equivalgono – vedi anche a pag.49 a proposito di Demjan Bednyj che non volle “più prestare libri a Stalin”
Nota
[1]“sua”, perché costruita e voluta da lui come possesso e proprietà privata
Ringrazio Ennio Abate di aver pubblicato or ora la terza parte del mio intervento, sperando entrambi di far buona cosa per i lettori…
ciò che esce fuori dalla lezione del poeta Mandel’stam è l’avvertimento ai poeti dopo di lui, a tutti quelli che succederanno sul trono dei presagi di dire la cronaca degli eventi così come si presentano e poi i commenti storici, se mai, a chiarire ancor di più il perché di ripetono gli stessi errori.
L’uomo è condannato a una fatica di Sisifo a cui non può sfuggire, ma almeno il presagio che sia una non vana medicina.
as
La terza parte del tuo intervento. Quindi vado a rileggere la prima e la seconda. Questa divisione in tre parti di un unico discorso chiede un lavoro di integrazione da parte di chi legge. Per esempio: qui sopra mi aspettavo una poesia di Vološin, invece prosegue l’analisi di Leningrad, analisi che nella seconda parte è stata interrotta da pezzi del saggio di Danilo Cavaion. In effetti se i tre testi fossero in fila su un post unico sarebbe più lieve seguire il filo di Antonio Sagredo. Su un rullo, possibilmente, o a scorrere su uno schermo. Ma, via, per non farci addormentare il cervello, e mantenere viva l’attenzione, caro Antonio!, e il quadro della città, di quei tempi, dei suoi poeti… si sta componendo. Oh, non completo! Qualche lama di luce (giallo limone) che fende la mia opaca sconoscenza.
e in effetti ci avevo pensato oggi pomeriggio e ho scelto questi versi che prego Ennio Abate di agginugere q questo terzo intervento
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Che cosa ci resta da fare con la cadavericità delle pianure,
con la fame prolungata del loro miracolo?
È che ciò che noi presumiamo schiettezza,
siamo noi stessi a vederla, addormentandoci, la vediamo,
e sempre cresce la domanda – Dove vanno? Di dove vengono?
E non striscia lentamente su di esse colui
del quale in sogno noi gridiamo,
il Giuda dei popoli futuri?
16 gennaio 1937, Voronež
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(da mia nota 34, p. 167=)
del Corso su mandel’stam di AM Ripellin0 dl 1974-1075
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Poesia che fa parte del II° Quaderno di Voronež che va dal 6 dicembre 1936 alla fine di febbraio 1937. Il poeta si autocensurò, sostituendo l’ultimo verso con “Giuda degli spazi increati?”; poi che, è ovvio, il “Giuda dei popoli futuri?” non poteva che essere Stalin: troppo esplicito sarebbe stato il riferimento al dittatore; ma la sentenza su Mandel’štam, era già stata emessa! Questo ennesimo attacco a Stalin, le cui “dita grasse sono pingui come vermi”, testimonia il coraggio estremo di un poeta che non ha paura affatto del potere in qualsiasi maniera esso si manifesti. Si legga dell’extraterritorialità di mandel’sta, come Dante (nota 126, p. 42).
“Matite grasse” come nella poesia a p.154 e le “dita grasse”dita di Stalin si equivalgono – vedi anche a pag.49 a proposito di Demjan Bednyj che non volle “più prestare libri a Stalin”
“In effetti se i tre testi fossero in fila su un post unico sarebbe più lieve seguire il filo di Antonio Sagredo.” ( Fischer)
Preciso che, nell’intento di pubblicare un maggior numero di articoli brevi, a suggerire la suddivisione in tre dell’unico testo che Antonio Sagredo mi aveva proposto sono stato io.
Avevo però anche proposto all’autore di prendere più sul serio l’aspetto divulgativo della sua rubrica e di tenere in debito conto le esigenze di lettori che poco sanno delle letterature slave.
E, infatti, gli avevo scritto: ” Il che significa per me: 1. sapere che quello che è importante per te e per gli esperti di letterature slave non lo è per chi non conosce né i testi né il lavoro di Ripellino né i contesti di queste letterature; 2. le poesie che presenti andrebbero commentate brevemente e introdotte in modi semplici, perfino scolastici; 3. gli appunti dei corsi di Ripellino andrebbero riassunti e semplificati o esposti in modo narrativo più che riprodotti tali e quali. “
Occorre un più di attenzione. Ma forse aiuta a fissare meglio il quadro…
DIVAGAZIONE:
DANTE-MANDEL’STAM E LA EXRATERRITORIALITA’
(da mia nota 126, p. 42 del Corso su Mandel’stam di AMRipellino)
L’extraterritorialità della letteratura del nostro pianeta (2001\02) di Donald E. Pease (1945-), che analizza un saggio di Wai Chee Dimock, dove si afferma nelle pagine dedicate a Mandel’štam, che la letteratura è uno degli agenti della denazionalizzazione, la quale permette di violare la sovranità dei territori dello Stato (esempio di globalizzazione); e a proposito è esemplare l’atto realizzato da Mandel’štam che affronta il potere dello Stato autoritario sovietico di Stalin; e che lo supera nel tempo e nello spazio, portandosi con sé, mentre va incontro all’esilio verso il lager, la Divina Commedia di Dante; e che questa opera diviene il simbolo di superamento di tutti i poteri autoritari che si sono succeduti nella storia umana.
Quindi la Commedia è manifestazione della potenza di una letteratura planetaria, che non conosce barriere cronologiche e che è un continuum metastorico contro tutte le barriere autoritarie spaziali e temporali. Con Dante, Mandel’štam rafforza il suo potere di dissenso contro lo Stato stalinista, e sono inutili gli sforzi compiuti da questo Stato per sopprimere la scrittura del poeta. Due esili che si comprendono a distanza di secoli… comunque sintetizzando: “È stata la extraterritorialità della scrittura di Mandel’štam la condizione-chiave che gli ha permesso di sopravvivere e il suo essere radicato fisicamente- paradosso- nel territorio ha fornito al poeta il pretesto di deterritorializzare con la letteratura lo Stato autoritario che opprimeva lui e chi all’interno del suo spazio riusciva a sopravvivere”.
Conclude il critico l’analisi al saggio del Dimock, dichiarando la “poesia come forma più duratura della corporeità e – che – mentre era in esilio Mandel’štam ha inventato una forma di scrittura che ha preso il posto della Russia da cui era stato bandito, fornendogli una forma di sopravvivenza biologica”. Donald E. Pease non manca di rilevare che: “Dimock tende a perdere di vista il modo in cui Mandel’štam torna a scrivere… – dopo il primo arresto – come la materializzazione di una forma alternativa di territorialità… che i suoi scritti sulle letture di Dante sono prima del suo (ultimo) – esilio…”, e che se ha portato con sé Dante è non per strumentalizzarlo, ma per affermare un’altra scrittura sotto esilio e dice: ”vorrei proporre che era lo status extraterritoriale della scrittura che Mandel’štam là ha prodotto che costituisce il tratto fondante della letteratura planetaria”. E, infine, chiude affermando che è stata questa extraterritorialità scritturale che ha permesso al poeta di appartenere ancor più e di occupare più fisicamente il territorio e di resistere e di sopravvivere ai terribili atti che là si compivano. Furono inutili dunque gli sforzi del potere sovietico di “dislocare il corpo” di questo grande poeta!, che scrisse, sembra, la sua ultima poesia il 4 maggio del 1937, secondo la sua musa Nataša Štempel.
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