di Elena Grammann
Appartenevano al ramo cittadino della famiglia. Il padre aveva all’ingresso della città, appena passato il ponte di San Pellegrino, uno stallo la cui insegna fino a poco tempo fa si leggeva ancora. Erano sei sorelle. Di una, della suora, non so nulla, a parte che era la farmacista del convento, o forse di una casa di cura annessa al convento, su, a Verona mi pare. Nemmeno quella sposata, che andò poi a stare in Liguria, l’ho mai conosciuta; ma di lei, dell’Anna Tolve, so nome e cognome – parlo del cognome del marito, naturalmente. Questo perché mia madre ne parlava spesso; e poi è una combinazione che si ricorda: Anna Tolve – un nome e un cognome che stanno bene assieme. Insomma lei, l’Anna, a parer mio ha fatto bene a sposare Tolve, anche se poi lui le faceva un sacco di corna; perché le corna sono comunque qualcosa di molto diffuso e i bei nomi no. Così, questa Anna che non ho mai visto è un personaggio noto, una carta sicura nelle partite un po’ monotone che sono diventate le conversazioni con mia madre: Chi dici, mamma? Ah, sì, l’Anna Tolve!
Una cosa che mi è sempre piaciuta è che al marito dell’Anna ci si riferisse soltanto col cognome: Tolve diceva questo, Tolve faceva quello. Non ho mai saputo come si chiamasse di nome e mia madre, di sicuro, se l’è scordato. C’era, nell’uso, la volontà di marcare una distanza: un marito è sempre un estraneo, uno che viene da fuori; ma c’era anche, in una famiglia a forte prevalenza femminile, qualcosa come una specie di deferenza e, contemporaneamente, di diffidenza nei confronti della virilità.
Tolve era uno della questura e, naturalmente, meridionale.
Non è dell’Anna, comunque, che volevo parlare. Lei a un certo punto si sposò, il marito fu trasferito – a Savona, credo; lei, come la suora, era fuori.
No, io vorrei parlare delle quattro che rimasero in città e non si separarono mai. Mia madre le chiamava, collettivamente, “le cugine”, il che indicava una parentela – erano, infatti, cugine di secondo o di terzo grado – ma soprattutto un genere, una formazione compattamente femminile.
C’erano, per essere esaustivi, anche due fratelli. Uno era sposato e gestiva l’albergo Principe, con annesso ristorante, in via del Cavalletto. Per noi, egli gravitava a parte dalle cugine. Io non l’ho mai visto e le informazioni che ho sono discordanti. So che era di aspetto estremamente distinto e che allungava calci in culo alla moglie se non la trovava sufficientemente sollecita nel servizio dei clienti. Col che si dimostra che l’esterno non corrisponde esattamente all’interno e si smentiscono, ove bisogno fosse, le teorie del Lombroso.
A proposito dell’incongruenza fra il dentro e il fuori, e prima di abbandonare definitivamente l’Anna Tolve, resta un episodio da riferire. All’epoca l’Anna, che non era ancora sposata, lavorava nella lavanderia all’inizio di via Emilia Santo Stefano, appena oltre piazza del Monte, sulla destra. Lavanderia che ad un certo punto cominciò ad essere frequentata da un signore molto distinto, un professore, recentemente trasferitosi dal Meridione, il quale si mise a farle una corte serrata. Si parlava di matrimonio. Stante le origini lontane dello spasimante la madre delle cugine, una Spaggiari di Masone, molto di chiesa, pensò di prendere informazioni. Risultò che il distinto professore si era trasferito al nord dopo aver ammazzato la moglie colpevole di adulterio. Il matrimonio non si fece e Tolve, più tardi, ebbe via libera.
Le cugine abitavano in una villetta in via Palestro, appena fuori dai viali; ma poiché erano assidue alle pratiche religiose, dopo la guerra si trasferirono in centro, in via San Carlo, per essere più comode alla chiesa di Santa Teresa. Era un appartamento antico e labirintico all’angolo con via Toschi e aveva un terrazzo su via San Carlo. Io su questo terrazzo non ci sono mai stata e comunque non credo che di lì si vedesse gran che, a parte la strana chiesa di fronte che dà il nome alla via e non sembra neanche una chiesa, attaccata alle case e con quel cornicione dritto di palazzo. Ma immagino che dal terrazzo si vedesse il cielo sopra piazza della Verdura. Sicuramente la Laura, quando stende il bucato, lo vede, forse lo guarda; se c’è vento lo sente anche, senza bisogno di guardarlo.
La Laura è, delle quattro, quella che bada alla casa; quella, come si diceva, che sta in casa. Le altre lavorano fuori, sono in mezzo alla gente. Quando morì, disse Tolve: povera Laura, è quella che è stata sacrificata.
Era vivace però, e con gli anni non perse di vivacità. Dalla casa a cui bada fa in modo di lanciare occhiate fuori. È di chiesa, come le altre; però è curiosa, vuole sapere, racconta. Ha avuto un moroso a Castelfranco, quando teneva la casa per l’altro fratello, quello che lavorava nei magazzini del formaggio. Era un maestro – il moroso, dico. Poi però non si decise. Lei ne parla: per esempio vuol rendersi conto se il modo in cui la baciava è il modo canonico. Chiede a mia madre com’è stato con i suoi, di morosi, per un raffronto. Mia madre, più contorta e schifiltosa, ride di imbarazzo, si schermisce, la rimprovera. Lei non si lascia smontare, va per la sua strada sincera che non la porta da nessuna parte.
Fare le faccende di casa comporta che si aprano le finestre, si dia aria, si scuotano i tappeti, si scrollino stracci e piumini. Dirimpetto alle finestre che danno su via Toschi, alla stessa altezza, c’è un altro appartamento, e in questo appartamento c’è un signore che, anche lui, apre le finestre, o le trova già aperte, o comunque guarda attraverso i vetri; e le ammicca, le fa segno. Lei risponde. Può ben farlo, non è mica monaca. La cosa va avanti un po’, con una strada di mezzo e senza parole, come in un film muto o in un sogno.
Mia madre, interpellata, inorridisce; la esorta vivamente a interrompere questi scambi di ammiccamenti. Non è serio. E lui chi è poi? Che intenzioni ha? Perché non si fa avanti se ha intenzioni oneste?
Adesso che è vecchia e non ha niente da fare mia madre segue con vivo interesse, in televisione, i casi di ammazzamenti, strozzamenti, annegamenti, smembramenti, occultamenti, seppellimenti di donne da parte del marito o dell’amante. Ogni nuovo caso la conferma nella convinzione che gli uomini, in fondo, sono tutti inaffidabili e dei potenziali assassini. Tuttavia è poco probabile che la Laura abbia corso un reale pericolo. Di sicuro la cosa è finita lì, è morta da sola, un giorno il signore non si è più fatto vedere, oppure ha smesso di ammiccare, oppure è stata lei a smettere, per stanchezza, o perché le è venuto un crampo. E così questa storia attraverso le finestre, questa bollicina nella monotonia della vita sarà stata qualcosa di appena esistente, qualcosa di lieve e impalpabile come un riflesso di sole su un vetro di via San Carlo.
Che invece se penso alle altre, a quelle che lavorano fuori, alla Marta e alla Rina, che hanno il bar, le vedo venir su per via Toschi la mattina presto in una nebbia di novembre, il collo di pelo del cappotto – volpe o marmotta – rialzato e premuto sotto il naso, tagliare in piazza San Prospero e poi subito sotto Broletto, passare davanti ai leoni di marmo lisci come foche senza alzare il capo, per il freddo, alle logge che nel chiuso del brolo sfuggono alla foschia. Costeggiano il duomo camminando sul marmo della gradinata scivoloso di condensa, marmo per terra e marmo la facciata, mentre il resto sono intonaci e mattoni, grigi o bruciati o rossastri, lontani e indifferenti nella nebbia. Attraversano obliquamente piazza del Monte, sono quasi arrivate; nella piccola via Crispi sollevano la saracinesca del bar.
Il bar è minuscolo, un buco, un corto corridoio con il banco a destra e un unico tavolino rotondo verso il fondo. Oltre mi pare che ci sia una tenda con un lavabo, dalla parte del banco. Il locale si scalda in fretta, le luci stesse scaldano, la macchina del caffè. Arrivano i primi clienti, le prime chiacchiere, c’è un’atmosfera cittadina; della nebbia, fuori, non ci si accorge neppure.
La Marta è del mestiere. Prima di rilevare il bar assieme alla sorella è stata a lungo gerente del caffè Elvezia, sulla medesima via Crispi, un grande locale elegante con qualcosa di internazionale, di europeo. La Marta era molto bella. Io me la ricordo sulla sessantina, ed era ancora bella. Aveva tratti fini e una distinzione naturale, educata dagli anni al caffè Elvezia. Chissà che zotici le apparivamo, noi di campagna. Una volta, quando era parecchio più giovane, incontrò in via Emilia un parente dal paese. Si sbrigò a salutarlo e a piantarlo lì perché, disse, non voleva farsi vedere in giro con uno col tabarro. I capelli che erano, o erano stati, biondi, li portava raccolti in chignon sulla nuca, ma con una specie di piccola onda sulla fronte che toglieva all’acconciatura ogni severità.
Ci sono, nel bar, dei momenti morti, dei momenti in cui non entra nessuno. Allora la Marta, quando è sola, guarda oltre il vetro la nebbia bianca e rada in via Crispi; una nebbia finta sembra, una nebbia da sceneggiato televisivo in bianco e nero. E anche la città, le vien da chiedersi se è vera o se non è piuttosto un’abitudine: così piccola, così sempre la stessa. Da Santa Teresa a via San Carlo, da via San Carlo a via Crispi, qualche volta al cinema, al D’Alberto, sotto i portici. Potrebbe essere benissimo, quella che lei e le altre chiamano Rès, niente più che un paio di quinte. E anche la via Crispi, lì davanti, quella corta strada centrale scolorita dalla nebbia in cui ora non passa nessuno, eccola lì, fissa, vuota, come una scena in attesa di essere smontata.
Allora la prende un senso di inutilità, una stanchezza nelle spalle e in tutta la persona; scuote la testa, ma se si mette a asciugare i bicchieri o le tazzine ha una debolezza nei gomiti e nei polsi, un piccolo tremore all’avambraccio; deve appoggiare il burazzo sul banco, stendere le braccia, strofinarsi la gonna con le mani, aspettare.
Dalla stretta vetrina del bar si vede sull’altro lato della via il palazzo della Società Anonima Annibale Franzini: ingrosso di ferramenta con rivendita al minuto nei locali del pianoterra. Lì, quando ancora lavorava al caffè Elvezia, la Marta si era innamorata. Di uno dei Franzini; o, se non proprio di un Franzini, quantomeno di un dirigente, dice mia madre che tiene alto l’onore della famiglia, e più il grado di parentela si allontana più alto lo tiene. Non si capisce perché poi, dal momento che lei ha sposato un operaio. Ma tant’è: snobismo per interposta famiglia In ogni caso l’amore non fu corrisposto e la Marta non volle più sposarsi. Non volle più degnarsi, diciamo.
A volte mi chiedo quando sono state, di preciso, tutte queste cose, se prima o dopo la guerra. Mia madre spesso esita, non è sicura, si confonde. Si ha l’impressione che la guerra non sia stata poi quella gran cesura. Finita la guerra, la gente ha continuato a vivere più o meno come prima.
È stato più tardi che le cose hanno cominciato a irrigidirsi, e la gente a essere incanalata, e di tutte le possibilità della vita a non restarne, al massimo, che un paio. È stupefacente, a pensarci: prima succedevano un sacco di cose, non facevano che succedere cose; la gente viaggiava: a piedi, in treno, in moto, in bicicletta; cambiava di posto, dove andava conosceva altra gente; si conosceva un sacco di gente. Più tardi ci furono più treni, ci furono più moto e ci furono le automobili, tante automobili; però la gente non viaggiava. Si muoveva, questo sì, per muoversi si muoveva: come avesse un pepe in culo; ma a ben guardare non cambiava affatto posto, se lo portava dietro, il posto. Tutto rimaneva uguale: non si conosceva gente e le uniche cose che succedevano erano quelle della cronaca nera. E questo è stupefacente, in un certo senso.
Loro però, le cugine, benché verso la fine degli anni cinquanta cominciassero seriamente a invecchiare e fossero più facilmente esposte a questo genere di riflessioni o anche soltanto di sensazioni, tenevano bene il colpo. Casa loro era oscura e protetta, c’erano grandi mobili pesanti, ricordo una saletta con una tavola ovale, mi pare, una tovaglia bianca e una fragranza di dispensa, di frutta e briciole di pane. E inclinata verso di me vedo la Rina – ed è l’unica immagine che conservo di lei, benché di sicuro l’abbia vista altre volte, sia prima che dopo – che mi ha appena apparecchiato, si appoggia con una mano alla tavola e ha l’aria di dire: niente paura, che adesso le do da mangiare io a questa ragazza.
Mi ero presentata da loro a ora di pranzo, di sicuro nemmeno annunciata, una volta che, al ginnasio, avevo lezione di educazione fisica al pomeriggio. Credo di esserci andata quell’unica volta.
Ma loro le vedo bene, attorno alla tavola ovale con la tovaglia bianca nella luce un po’ festosa di quella stanza, da sole o con un parente, qualcuno che è capitato in città, mia madre raramente adesso che ha famiglia; magari mio zio un giorno di mercato, o altri cugini del paese, o mia zia che è sposata a Bologna ma ha mantenuto una grande dimestichezza con le Ferrovie dello Stato. Sono allegre, tirano fuori le posate d’argento col monogramma di un qualche bisnonno o prozio che è stato importante; si mangia bene da loro, la Laura cucina bene, ma soprattutto la Rina, che era cuoca all’albergo Principe, da suo fratello.
Sono allegre anche quando sono soltanto fra loro – finché ci sono tutte, voglio dire. Prendono una tovaglia stirata dal canterano, fatto prima che si cominciasse, in Italia, a correr dietro alle mode francesi e a parlare di luigi quindici e luigi sedici; fatto più o meno negli stessi anni in cui si fece la facciata di San Carlo, lì fuori, elegante e poco appariscente. Per quanto che anche le mode di Francia, quando sono fatte in Italia, sono eleganti e poco appariscenti e traspare sempre, sotto, una realtà a motivo della quale sono fatte; mica come le cose francesi, che devono per forza essere eccessive e non capisci mai se sono originali o copie di un originale che non esiste neanche; e in ogni caso sono lì esattamente per far finta che ci sia un motivo; mentre c’è, al massimo, uno scopo – e molto discutibile, anche.
Ma loro, le cugine, prendono una tovaglia stirata e apparecchiano e siedono a mangiare; e il tempo che passa, le cose che cambiano, la nuova durezza dell’esterno, un sospetto come di tedio, che non conoscevano – tutto ciò non è più che una lievissima malinconia; e non son neanche sicure che ci sia veramente, come a volte, di una nenia lontana, appena percettibile, non si sa se sia all’esterno o dentro l’orecchio.
Ieri l’altro ho fatto una ricognizione sui luoghi; non perché pensi che i luoghi visti siano più veri dei luoghi ricordati, anzi; tuttavia volevo evitare grossolani errori materiali. Ho chiesto al signor Bizzocchi, che ha un negozio di arredi sacri e bondieuseries dietro al vescovado, se sapeva quando la chiesa di San Carlo era stata sconsacrata. I Bizzocchi, sempre che si chiamino come il loro negozio, sono due: uno moro coi baffi, l’altro più rossiccio; io ho parlato con quello moro. Mi ha detto che la piccola chiesa era ancora in uso nel dopoguerra, ma che verso la fine degli anni cinquanta è stata chiusa. Lui se lo ricorda molto bene, perché era ragazzino e ha aiutato il sagrestano a vuotarla dagli arredi. Quando però sia stata sconsacrata, questo di preciso non lo sa.
Ieri sono tornata a guardare il signor Bizzocchi: è grigio, non è moro. Però i baffi ce li ha.
La Rina era la più vecchia e aveva, in effetti, qualcosa di più vecchio delle altre: di più rassegnato, di più pesante. Il padre, quello dello stallo al ponte di San Pellegrino, è morto presto e lei è andata a servire in Liguria. Forse è questo che le è rimasto.
Il polso calcato sulla tovaglia è grosso come la base di una colonna, il viso inclinato ha un colore scuro, un colore d’ombra e di tramonto sull’espressione sollecita. A differenza della Marta e della Laura non riesco a immaginarla giovane. Eppure lo sarà stata anche lei. Nelle cucine dell’albergo Principe doveva essere ancora giovane, se anche non più giovanissima.
Un uomo le diede un appuntamento; lei chiese a mia madre di accompagnarla. Che testa!, esclama mia madre. Sì, dico, e che testa anche tu ad andarci. Cosa vuoi, allora era così; almeno, per certe persone era così. A me l’architetto Pattacini, Pasqualino, lo ha detto chiaro e tondo una volta: se non la pianti di andare in giro con tua sorella non troverai mai nessuno. Mia sorella mi veniva sempre dietro; sempre, sempre …
All’appuntamento, il tizio non si presentò. Figurati, dice mia madre, ci avrà viste da lontano, ha visto che non era da sola e ha tagliato l’angolo.
Una volta, durante una villeggiatura in campagna, chiesero a mia madre qualcosa da leggere. Una collega le aveva giusto passato Il prete bello, di Parise, che mi aveva rifilato perché lei non aveva tempo. (Dopo che si fu sposata mia madre non ebbe più tempo di leggere, come non ebbe più tempo di andare a messa. Il che in buon italiano vuol dire che non le fregava un accidente né di leggere né di andare a messa). Il romanzo fu passato alle cugine che lo restituirono quasi immediatamente come scandaloso e immondo; si meravigliarono, anche. Mia madre ci rimase male; non potendo controbattere per ignoranza dell’oggetto mi chiese se veramente era così tremendo. Io risposi che secondo me no e lei concluse che insomma le cugine erano un po’ esagerate.
Mia madre aveva delle stranezze. Lei si considerava, orgogliosamente, una persona pratica. Secondo me non aveva idea di niente. Più o meno all’epoca del Prete bello – avrò avuto tredici, quattordici anni – avevo pescato dalla sua biblioteca prematrimoniale, alloggiata in un armadietto in solaio, Anna Karenina, edizione anteguerra in due volumi, e lo leggevo di buzzo buono. A un certo punto mia madre si sovvenne di un’amica, ai tempi, che leggeva Anna Karenina e era rimasta incinta – non di Tolstoj, immagino – e mi nascose il libro. Così, a metà lettura. Io diventavo matta.
Tornando alle cugine, non credo che fossero esagerate; non erano letterate, e non essendo letterate prendevano tutto alla lettera. Erano abituate ad avere a che fare con la realtà; credevano di avere sempre a che fare con la realtà; dove non arrivava quella, arrivava la religione. La religione gli rimase fino in fondo; credo invece che da ultimo la realtà finisse per sfuggirgli.
La Marta visse più a lungo di tutte. Mia madre la vide una volta, negli ultimi tempi, che usciva dal forno Melli. Era molto vecchia, e curva, e come smarrita. Come se la strada, i muri, le pietre della piazza non avessero, ai suoi occhi, quasi più significato. Ritrovava la via di casa non come qualcosa di sensato ma come qualcosa di quasi disgustoso, viscido di fredda umidità, cieco. Scomparsi la facciata di San Prospero, i leoni di pietra, il Torrazzo malamente accostato alla chiesa, le finestre dei palazzi sopra gli archi, l’abside del duomo con l’edicola scolorita; rimaneva, e a stento, il selciato che percorreva con cautela, per non scivolare. Così la città, da una parte all’altra e da nord a sud, la via Emilia, la spianata nebbiosa davanti al Municipale, i giardini con ancora, sui muretti perimetrali, i monconi della cancellata meravigliosa che andò a far cannoni, e, all’altra estremità, lo slargo davanti alla chiesa del Cristo che pare dipinta, e tutte le vie silenziose, le finestre discrete, i portoni chiusi sulle esistenze private, i bar in quell’ora smarrita che molto più tardi sarà l’ora dell’aperitivo – tutto ciò minaccia di sbriciolarsi, e perdersi, e andare in polvere, e non rimanere appeso ad alcuna memoria.
Delle quattro che vissero insieme nell’appartamento in via San Carlo non tutte, per la verità, erano nubili. La più giovane, la Ceci, era vedova. Il matrimonio, senza figli, era stato di breve durata. Lei stessa non vi accennava mai, come a una parentesi dimenticata.
Del marito si è persa, su questo lato della famiglia, ogni traccia e ogni eco; nemmeno il santino, distribuito in occasione delle esequie, si trova più. Cerco di capire, almeno, se il grosso della convivenza ha avuto luogo prima o dopo la guerra. Mah! Mia madre non si raccapezza proprio; però se lo ricorda, questo marito della Ceci, perennemente in camicia nera, il che fa pensare che la sua vicenda terrena fosse già conclusa prima della fine della guerra.
Delle sorelle, o almeno di quelle che ho conosciuto, la Ceci era la meno bella. Aveva preso dalla razza del padre, tracagnotta e bovina. Me la ricordo non tanto alta, tozza, le sopracciglia spesse, gli occhi un po’ sporgenti, e una fossetta sul mento che sembrava tagliata con l’accetta. Era alla mano e ridanciana tanto quanto la Marta era fine e un po’ sulle sue. Il marito, o, prima, il fidanzato, la caricava in moto e partivano rombando. Me la immagino, seduta di traverso sul sellino per via della gonna, un braccio attorno alla camicia nera, partire con un fracasso che disturba il quartiere, allontanarsi a gran velocità da via san Carlo, via Squadroni, via San Filippo, via delle Quinziane, Santa Teresa. San Giorgio, Sant’Agostino, tutti i santi e le sante, uscire dalla città, allontanarsi, scomparire nella polvere sollevata dai pneumatici.
Le sorelle disapprovavano.
Dopo la morte del marito tornò a vivere con loro e riusciva difficile immaginare che se ne fosse mai staccata. Al mattino presto, quando la Marta andava a aprire il caffè Elvezia, lei e la Rina attraversavano la piazza, si infilavano sotto l’arco di via Palazzolo e andavano fino in fondo, dove c’erano le cucine dell’albergo Principe e, nella strada, un vapore caldo si mischiava alla nebbia.
Parlando del marito disse una volta a mia madre: «Pensare che l’ho curato tanto, quando si è ammalato. E dopo che è morto ho saputo che mi faceva pure le corna».
L’archeologo scava e ricostruisce, una mappa però. Uno spazio e una spazialità: certi percorsi, una rete di punti collegati (casa bar albergo chiesa) intitola o scopre nomi di vie e edifici, ecco l’ambiente ricostruito. Le personagge che lo animano sono quasi incorporate. Ritorni hanno chiuso allontanamenti parziali, la piccola mappa
ha un baricentro che attira.
In realtà la narratrice distingue l’aspetto e le scelte di vita delle sorelle perché l’archeologia ha dei limiti, mappa, collega, ricostruisce. Da fuori, da dopo. È un lato del complessivo narrare poi, dalla mappa ricostruita, si passa a integrare, ipotizzare, immaginare. Un fitto scambio di riconoscimenti che confermano e legano, e pare quindi alla fine che il vero spazio portante siano i rapporti tra le sorelle di cui, la mappa di vie cittadine, sia solo la rappresentazione.
Originariamente il titolo del racconto era semplicemente “Le Cugine”. Ho aggiunto “Un’archeologia” perché mi sono accorta di quanto lontano sia il tempo di cui parla – una lontananza che va oltre l’età biografica della narratrice anche quando questa riferisce fatti esperiti da lei. Credo che in ambiente provincial-rural-conservatore il dopoguerra fino alla fine degli anni ’60 fosse una semplice prosecuzione abbastanza invariata degli anni ’30. Occuparsi ora di un tempo così lontano e per la gente di oggi così privo di interesse richiede una giustificazione esplicita e almeno un pretesto di scientificità. Per questo “archeologia”. Che è della città ma soprattutto, come vedi bene, delle persone. E qui per me cominciano, narrativamente, i problemi. Perché riempire il fragile graticcio dei fatti e delle immagini depositati nella memoria propria o, condizione già più ambigua e complessa, in quella altrui – riempirlo con nient’altro che con l’immaginazione, è un’operazione non del tutto onesta; per quanto l’immaginazione cerchi di aderire alla reale impressione ricevuta all’epoca dei fatti. E’ il problema (in piccolo, per l’amor del cielo!) del romanzo storico – almeno del romanzo storico serio: in che rapporti è con la verità? Non so; la soluzione mi sembra o il racconto decisamente fantastico, o quello fortemente autobiografico; il realismo alla Balzac, che pare stia tornando di moda e che si prende la libertà di inventare personaggi, non mi convince.
@ Elena: ma infatti, non convince. E’ proprio che non siamo così lontane, cioè non siamo lontane e basta. Nella infanzia le memorie strutturali si depositano e strutturano le successive. Mica parli di cose che non conosci, anzi! Il passaggio degli inizi anni ’60, o qualche mese prima, è fondamentale nella storia del nostro paese. Dalla continuità con era fascista-guerra-post, al miracolo economico, alle immigrazioni interne, all’inurbamento, c’è un salto. Tu mostri una continuità precedente, che ha proseguito, fra l’altro, ancora a lungo in certe sacche (ampie).
@ Elena Grammann
Mi sono ricordato di un accurato saggio di Luca Badini Confalonieri, “Manzoni: il romanzo e la storia” e lo segnalo:https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/interpretazione-e-noi/121-manzoni-il-romanzo-e-la-storia.html
Qui un brevissimo stralcio:
“Ma gli scritti di Manzoni, all’altezza del Discorso, affermano indubitabilmente che Manzoni credeva in una necessaria e fisiologica unione di filologia e filosofia, fatti e interpretazione, storia «positiva» e «verosimile». Quanto all’«invenzione», anche prima della fondazione «rosminiana» del dialogo ad essa dedicato (dove è esplicitamente respinto l’uso del verbo «creare», per il riconoscimento etimologico che «invenire» è «trovare» qualcosa che già esiste «in mente Dei»), non è mai stata per Manzoni libera e gratuita costruzione fantastica ma sempre operazione a servizio della «verità». Nel romanzo storico e nella poetica ad esso relativa, essa si poneva a complemento della storia «ufficiale», in un progetto di narrazione unitaria”
Grazie della segnalazione. Ho letto il beve saggio e ho cercato di capire in che misura a)era pertinente col mio problema, b) poteva offrire soluzioni.
Naturalmente interpellare Manzoni a proposito del vero nella narrativa – e nella fattispecie nel romanzo storico – rischia di complicare anziché semplificare, vista la sua concezione di un vero storico e poetico metafisicamente collocato in mente Dei, ad esempio contro la tesi goethiana di un vero poetico grazieadio svincolato da menti divine. Questa fissazione con la mens Dei finisce per condurlo paradossalmente verso una astoricità del romanzo storico e della letteratura in generale. Astoricità della letteratura che alla fine non regge e infatti Manzoni la abbandona.
Cerco di spiegarmi: le sue osservazioni sul “verosimile” sono senz’altro un “passo avanti” rispetto a Walter Scott, il quale ad avvicinarsi il più possibile alla verità storica quale è conservata in mente Dei ci badava molto meno, ma così facendo scriveva romanzi storici che avevano, a loro volta, rilevanza storica, erano letteratura rilevante. Sul lato Manzoni invece, è interessante che, a fronte di una innegabile superiorità diciamo brevemente “qualitativa” rispetto alla stragrande maggioranza della coeva produzione romanzesca europea, i giudizi pur lusinghierissimi di “lettori d’eccezione” come Goethe e Puškin (cito dal saggio di Badini Confalonieri) sottolineino a loro volta un che di eccezionale, di “a parte” nel romanzo manzoniano. “Supera tutto ciò che noi conosciamo in questo genere” dice Goethe – il che equivale a dire che è qualcosa di completamente diverso. E riferisce sempre Badini Confalonieri: “Per quanto riguarda Manzoni, stando (…) alla premessa dello stesso Puškin, non si trattava nemmeno più di un «romanzo»”. E’ così infatti: I promessi sposi sono qualcosa di più o qualcosa di meno, ma non sono proprio un romanzo. Come la Bibbia in un certo senso.
Venendo invece all’utilità del “verosimile” per la soluzione del problema da me accennato, mi rendo conto della sproporzione insita nello scomodare addirittura Manzoni, ma devo constatare che il “verosimile”, questo pis-aller del vero, non risolve nulla né a lui né a me. Non risolve nulla a lui perché al di là dei veri e propri “tipi” (Perpetua, la stessa Agnese, don Abbondio, don Ferrante ecc.), per i quali pensieri e azioni sono legati al tipo e quindi in un certo senso obbligati, per gli altri – per Lucia, per l’Innominato, per la monaca di Monza nella misura in cui “esonda” dai dati accertabili del modello, ecc. – azioni e pensieri sono arbitrari, e la verosimiglianza non toglie nulla all’arbitrarietà.
Questo naturalmente da un punto di vista assoluto, che però è quello da cui vuole porsi Manzoni stesso.
Va poi detto che il “verosimile” manzoniano è principalmente un fatto di costume, di storia materiale, di ricostruzione fedele di interni ed esterni – e già questo non può essere che parziale; ma non può o non vuole sapere, Manzoni, che il tempo modifica ben altro che i costumi e le suppellettili, la lingua e gli orizzonti di massima; modifica profondamente l’essere, e dunque mettere in bocca qualcosa, nel 1827 o nel 1840, a un personaggio vissuto duecento anni prima, dal punto di vista del vero è pura follia.
E, si parva licet, il verosimile non risolve nulla a me perché non solo sono molto sensibile alla commistione di “documentario” e arbitrario, ma percepisco come irritante e irrilevante un realismo letterario fondato in ultima analisi sull’arbitrarietà.
Il che può benissimo essere un mio limite.
che veverve !
wow wow!
“Le cugine: un’archeologia”. Nel tuo racconto, Elena, mi sono un po’ ritrovata per quanto riguarda lo sfondo delle vicende narrate, quello di una cittadina di povincia, come Reggio Emilia, in quegli anni che precedono e seguono la guerra…mi sono ritrovata in quanto Lodi, la mia città d’origine, si trova situata sulla stessa lunga strada romana, la Via Emilia, e per via della nebbia, meglio nebbione, che, avvolgeva strade e piazze dall’aspetto antico, decadente…Gli interni descritti sono invece molto diversi da quelli da me vissuti…Pero’ il gruppetto tutto al femminile che, ben organizzato e non privo di allegria, si era ritrovato a vivere sotto lo stesso tetto, mi ricorda analoghe situazioni tra le mura della vecchia Lodi…La donna sola, se non in età avanzata, era una realtà rara…piuttosto farsi monaca. Sono d’accordo sul richiamo all’archeologia, cioè a una realtà urbanistica e a un sentire umano diverso, pre rivoluzione informatica…I ricordi legati alle “cugine” da parte della narratrice sono ampliati dall’eco dei ricordi di sua madre, piu’ vicina all’età delle sorelle e con piu’ esperienza diretta di rapporti con le medesime…ma Elena narratrice è incuriosita, anzi catturata, dalla dimensione di vita di un gruppo di sole donne, capace di crearsi uno spazio di rispettabilità e di serenità con le loro semplici attività quotidiane e lavorative…C’ è per i personaggi, come per tutti, la decadenza fisica e la morte, ma nella descrizione non si toccano punte drammatiche, anzi è sempre presente un filo di calibrata ironia…A me sembra un racconto curato come una tessitura: il vero della conoscenza si mescola al verosimile immaginato con grande maestria e rispetto, diventando molto credibile…
Grazie Annamaria, ti dimostri come sempre una lettrice sensibile e attenta, che nel testo scopre e valorizza proprio tutto!
” Me la immagino, seduta di traverso sul sellino per via della gonna, un braccio attorno alla camicia nera, partire con un fracasso che disturba il quartiere, allontanarsi a gran velocità da via san Carlo, via Squadroni, via San Filippo, via delle Quinziane, Santa Teresa. San Giorgio, Sant’Agostino, tutti i santi e le sante, uscire dalla città, allontanarsi, scomparire nella polvere sollevata dai pneumatici.”
Il finale è proprio un congedo. Ci si lascia alle spalle quello spazio che ha assorbito le cugine di tua madre e non solo loro.
Nei ricordi, in effetti, lo spazio e le persone sono una cosa sola e tanto più questo è vero per gli ambienti umani di una volta, quando non ci si muoveva che in dimensioni ( spaziali e non solo ) definite . Molto bello, Elena! 🙂
Grazie, Giacinta. Hai ragione, è proprio un congedo. Un doppio congedo: da un tempo che non ho conosciuto direttamente e da uno che ho conosciuto ma è passato ormai da tanto, e che io, con un errore di prospettiva forse inevitabile, proietto su quello più lontano, pur sapendo che è impossibile che i luoghi e le persone fossero nel tempo più lontano più o meno gli stessi e le stesse che ho conosciuto.
Un doppio congedo e una doppia malinconia – con un alibi evocatorio…