di Marc Alan Di Martino traduzione di Angela D’Ambra
Runaway
My mother is sitting alone on a park bench in Villa Borghese, eating a sandwich. It isn’t an easy thing to find a sandwich in Rome in 1966. She had to root out the Bar degli Americani on Via Veneto, near the embassy, in order to find ham on white bread. No mayonnaise. Imagine that: a Jewish girl eating a ham sandwich on a park bench in Rome with no mayo. What is she doing there, so far from home? And where is home, anyway? Her parents’ home in Brookline, Massachusetts? That isn’t home. Not anymore. She ran away from that home, came to Rome via Paris via San Francisco. Anywhere but at the shabbos table with that tyrant her mother and her ineffectual father. A ham sandwich on a park bench is better than that, she says to herself as a dapper man appears, dressed in a smart black suit. She notices his teeth. Naively, she thinks he might be Marcello Mastroianni, her singular destiny to meet a movie star, fall in love, and become his wife. Live happily ever after. The fantasies that run through a young woman’s head. This man is not Eddie Fisher. Nice Jewish boy. Dungaree Doll. This man is a smooth-talker. He wants to sell her something. Realizing she is American, he begins speaking in broken schoolboy English. He turns on the charm, and she is charmed. What is he selling? Wine - what else? You are in Italy, poor girl, eating a sandwich, all alone. He overwhelms her, makes her feel like Audrey Hepburn. She, in turn, is an easy target. Not like Italian women. To get into their pants you have to go through their families. He knows. He has two sisters. He’s always beating up guys in his neighborhood for putting their hands on them. He’s got a reputation. But everyone knows American women are unmoored. Why else do they come here? To get into trouble. To meet a Casanova. To have what they call a ‘fling’. (He learned that word in a movie.) Then they go back home and get married to a Rock Hudson or a John Wayne, have two kids and two cars and pursue their dreams of happiness. Europeans have history, Americans have dreams. That seems to him a profound insight. My mother crinkles the cellophane into a ball, rolls it in her palm, brushes the crumbs from her skirt. He looks at her knees, the skin boldly exposed, wonders what’s beyond them. She isn’t thin, he thinks, as he absorbs her body with his eyes. He isn’t subtle. You don’t need to be in 1966. All you need to have is charm, and he has excellent charm. She decides in that moment she will go anywhere with this man. She will do anything he asks. She has nothing to lose, no one waiting for her on the other side of the ocean, no Eddie Fisher. Her brother is married to a German. Her brother the magician, who disappeared into a German woman and never came out. How she would like to disappear into this man, fall into the black hole of him, learn to curse her own parents in his tongue, allow the sensual inflections of Italian to evict the Yiddish gutturals lodged in her throat like fish bones. How she would like to learn to trill her r’s, double her consonants, put a crucifix around her neck for the sheer pleasure of seeing her mother’s dumbstruck punim, bury her alive with Roman invective li mortacci tua - fuck your dead ancestors - tear the crucifix off and flush it down the toilet, having exhausted its usefulness. She smooths her skirt, a little flushed.
Fuggiasca
Mia madre siede sola su una panchina di Villa Borghese; mangia un panino. Non è impresa da poco trovare un panino a Roma nel 1966. Aveva dovuto scovare il Bar degli Americani, a via Veneto, vicino l’ambasciata, per trovare prosciutto e pane bianco. Niente maionese. Immagina la scena: una ragazza ebrea che, su una panchina di un parco, a Roma, mangia un panino al prosciutto senza maionese. Cosa ci fa là, così lontana da casa? E, comunque, dove è la sua casa? La casa dei suoi genitori a Brookline, Massachusetts? Quella non è la sua casa. Non più. Da quella casa è fuggita, è venuta a Roma via Parigi via San Francisco. Ovunque, fuorché al tavolo dello shabbos con quella tiranna di sua madre, e il padre inetto. Un panino al prosciutto su una panchina del parco è meglio di quello, si dice quando appare un uomo azzimato, che indossa un elegante abito nero. Ne nota i denti. Ingenuamente, pensa che potrebbe essere Marcello Mastroianni, e che il proprio destino speciale sia incontrare una star del cinema, innamorarsi, diventarne la moglie. Vivere per sempre felici e contenti. Le fantasie che frullano nella testa d’una ragazza. Quest’uomo non è Eddie Fisher. Bravo ragazzo ebreo. Dungaree Doll. Quest’uomo è un adulatore. Vuole venderle qualcosa. Accortosi che è americana, inizia a parlare in un inglese scolastico. Accende il fascino, e lei è affascinata. Cosa vende? Vino; che altro? Povera ragazza, in Italia, tutta sola a mangiare un panino. La perturba, la fa sentire come Audrey Hepburn. Lei è, peraltro, un bersaglio facile. Non come le italiane. Per portartele a letto, devi passare per le loro famiglie. Lui lo sa. Ha due sorelle. Sta sempre a picchiare i ragazzi del quartiere che le molestano. Ha una reputazione. Ma tutti sanno che le donne americane sono senza legami. Sennò perché verrebbero qui? Per mettersi nei guai. Per incontrare un Casanova. Per avere quello che chiamano ‘fling’: un’avventura. (Aveva imparato quella parola in un film.) Poi, se ne tornano a casa, si sposano un Rock Hudson o un John Wayne, hanno due figli e due auto, e inseguono i loro sogni di felicità. Gli europei hanno una storia, gli americani hanno sogni. Questa gli parve una profonda intuizione. Mia madre accartoccia il cellophane in una palla, se lo fa rotolare nel palmo, spazza le briciole dalla gonna. Lui le guarda le ginocchia, la pelle audacemente esposta, si chiede cosa ci sia oltre. Non è magra, pensa, mentre ne divora il corpo con gli occhi. Non è scaltro. Non è necessario esserlo nel 1966. Tutto ciò che ti serve è fascino, e lui fascino ne ha d’avanzo. Lei, in quell’istante, decide che andrà ovunque con quest’uomo. Farà tutto ciò che le chiederà. Non ha niente da perdere, nessuno ad aspettarla dall’altra parte dell’oceano, nessun Eddie Fisher. Suo fratello ha sposato una tedesca. Suo fratello, il mago, scomparso in una tedesca, e mai più riapparso. Come vorrebbe scomparire in quest’uomo, cadere nel suo buco nero, apprendere a maledire i propri genitori nella lingua di lui, permettere alle inflessioni sensuali dell’italiano di sloggiare le gutturali yiddish alloggiate nella sua gola come lische di pesce. Come vorrebbe imparare a vibrare le proprie r, raddoppiare le consonanti, mettersi un crocifisso al collo per il puro piacere di vedere il punim esterrefatto di sua madre, seppellirla viva sotto insulti romani li mortacci tua - vaffanculo i tuoi antenati morti - strapparsi il crocifisso e buttarlo nel water, dopo che ha esaurito la sua funzione. Si liscia la gonna, un po’ rossa in viso.
“Geniza”
A scrap of parchment in the hand of Maimonides
drifts down to us quietly
through ten centuries of blood and dust
lands in the hands of a researcher
in Tel Aviv, New York, Budapest
whose eye has been trained to mend
desiccated fragments, resurrect
mummified inklings, perceive
the worth of such undertakings. Dust
to lust[1], one culture’s erasure is another’s
treasure. Here sacred suckles profane
and must be tweezed apart
so as not to alter both. Crate by crate
smuggled by steamer out of Egypt
tiptoed their way past gods and guards,
again nearly drowned in the sea.
The luck of history.
“Gheniza*[2]”
Un brandello di pergamena, di pugno di Maimonide
discende silenzioso fino a noi
attraverso dieci secoli di sangue e polvere
approda nelle mani di un ricercatore
a Tel Aviv, New York, Budapest
che ha occhio allenato a riparare
frammenti essiccati, resuscitare
indizi mummificati, percepire
il valore di tali imprese. Polvere
alla passione, la rasura d’una cultura è il tesoro
di un’altra. Qui il sacro sugge il profano
e va diviso con le pinze
sì da non alterare entrambi. Cassa dopo cassa
usciti di frodo dall’Egitto via piroscafo
cauti superarono deità e guardie,
e quasi si re-inabissarono nel mare
La fortuna della storia.
The Skaters “and years - so many years” - Virgil, Aeneid The dragonflies of summer have all vanished. Now people warm their hands above strange fires blazing from big green oil drums. There are holes in the sides. I wonder what made them there. Neighbors, mostly. Girls lacing up their skates in packs . The smoke and spark of firesticks jutting out over the lip, burning, burning. My parents are somewhere, walking on water together. My sister is here, her hand in mine steadying me. Off to the right is where the man with the Firebird lives, the one who followed me, in those apartments over there. Don’t go there by yourself. Repeat. Don’t go...when my father hoists me and we’re off! I pattinatori “E anni, così tanti anni” - Virgilio, Eneide Le libellule estive sono tutte scomparse. Ora la gente si scalda le mani sopra strani fuochi che ardono da grandi fusti di petrolio verdi. Hanno fori ai lati. Mi chiedo cosa li abbia fatti là. I vicini, per lo più. Ragazze s’allacciano i pattini in gruppi. Fumo e scintille di stecchi che sporgono oltre il bordo, e bruciano, bruciano. I miei genitori sono da qualche parte, a camminare sull’acqua insieme. Mia sorella è qui, la sua mano nella mia a rendermi saldo. A destra è dove vive l’uomo con la Pontiac, quello che mi seguì, in quegli appartamenti lag- giù. Non andarci da solo. Ripeti. Non andare ... quando mio padre mi solleva e via, sul ghiaccio!
“Still” There are still birds, still things coming to life in unexpected ways. Still nights and days. Nocturnal, diurnal. Circadian rhythms scratching an itch* at the back of the throat. Still family, still friends. Still love slapping you silly with its rubber tongue, salt that makes your stomach sing a psalm, palettes of rusted foliage, stray bees in November, still buzzing in the lavender. “Ancora” Ci sono ancora uccelli, ancora cose che prendono vita in modi inaspettati. Ancora notti e giorni. Notturno, diurno. Ritmi circadiani a raschiare un pizzicore in fondo alla gola. Ancora famiglia, ancora amici. Ancora amore a schiaffeggiarti, sciocco, con la sua lingua di gomma, sale che al tuo stomaco fa cantare un salmo, tavolozze di fogliame rugginoso, api vaganti in novembre che ronzano nella lavanda, ancora.
[1] Nd’A: dust to lust:è un gioco di parole “dalla polvere alla brama”: la polvere dell’artefatto e la brama del ricercatore per le scoperte
[2] Nd’A: *la gheniza era una specie di sgabuzzino nelle sinagoga antica del Cairo dov’era stato trovato un accumulo enorme di manoscritti vecchissimi, che poi è stato trasferito a Cambridge e che contiene molti tesori letterari di natura ebraica
Marc Alan Di Martino is a Pushcart-nominated poet, translator and author of the collection Unburial (Kelsay, 2019). His work appears in Baltimore Review, Rattle, Rust + Moth, Tinderbox, Valparaiso Poetry Review and many other journals and anthologies. His second collection, Still Life with City, is forthcoming from Pski’s Porch. He lives in Italy.
Marc Alan Di Martino è un poeta nominato per il Pushcart, un traduttore , ed è autore della raccolta Unburial (Kelsay, 2019). Le sue opere sono apparse su Baltimore Review, Rattle, Rust + Moth, Tinderbox, Valparaiso Poetry Review, e molte altre riviste e antologie. La sua seconda collezione, Still Life with City, è in uscita da Pski’s Porch. Marc vive in Italia.
ANGELA D’AMBRA ha conseguito la laurea quadriennale in Lingue e letterature straniere presso l’Ateneo di Firenze (2008); un diploma di Master II in traduzione di testi post-coloniali in lingua inglese presso l’Ateneo di Pisa (2009). Si è laureata in Lettere moderne presso l’Ateneo fiorentino nel 2015. Nel 2017 ha conseguito un diploma di Master I in traduzione di testi biomedici e legali presso ICON (Pisa). Nel 2019, la LM in Teorie della Comunicazione presso la Scuola di Studi Umanistici dell’Ateneo fiorentino. Dal 2010 traduce non-profit testi poetici (En > IT). Le sue traduzioni sono state pubblicate su varie riviste italiane e straniere tra cui El Ghibli, Sagarana, Mosaici, Semicerchio, JIT, Gradiva, Osservatorio Letterario. Ha pubblicato (in traduzione italiana) una selezione di testi dall’antologia poetica On Being Dead in Venice di Gary Geddes (novembre-dicembre 2019) e una selezione di testi dall’antologia poetica Dancing Birches di Glen Sorestad (febbraio-marzo 2020).
?? incomprensibili abissi di platitudine; se poi confronto con i belli e motivati versi di Ann Cotten trasecolo
Se ‘platitudine’ (che non trovo in italiano) è parola rumena che ( leggo qui: https://educalingo.com/it/dic-ro/platitudine) significa:1) carattere piatto; mancanza di originalità; trivialità. 2) Parola o idea piatta, non sono d’accordo ad usarla per questi testi. Né trovo fondato il confronto coi testi di Anna Cotten ( ma potrebbe essere anche un altro poeta o poetessa). Le dimensioni in cui oggi si muove la ricerca poetica sono più diversificate e incerte che mai. Soprattutto sono poco esplorate da una critica attrezzata. E poi il contesto culturale in cui si muove Marc Alan Di Martino è altra cosa da quello in cui agisce Anna Cotten. Mi manterrei in un atteggiamento di vigile indagine evitando cortocircuiti.
Carissimo,
se la mia traduzione è banale, non è colpa mia. Questo vuol solo dire che ho fallito nella resa dei testi originali che non mi paiono, in verità, né banali, né piatti. Ma è una prima traduzione e da questa chiunque può procedere e realizzare una sua traduzione più originale ed efficace.
A volte capita di non riuscire a rendere lo spirito di un testo e di appiattire una poesia con una resa traduttiva poco efficace. Quello che so è che tre libri in traduzione (mia) di ottimi poeti (canadesi), le cui traduzioni erano quasi senza pecche (fermo restando che la traduzione perfetta non esiste), sono stati ignorati al punto di non ricevere neppure una recensione. Ma eecco: quando faccio un errore tonale di resa, mi si accusa di tradurre banalmente, piattamente … Ripeto, secondo me i testi originali non sono sotto accusa, dunque la platitude (mi consenta di usare la forma francese, non il suo neologismo *platitudine* lecito, ma non attestato … non ancora) è mia.
Sto traducendo un bel libro di saggi sulla traduzione di poesia. Come al solito, non troverò editore in Italia (lo so: è una guerra iniziata fin dall’università contro un sistema a cui certe persone proprio non vanno giù, per cui studi e percorsi di lavoro diventano una corsa a ostacoli con tanto di carboni ardenti e ordalia del fuoco). Come al solito, dopo averci lavorato almeno due anni, regalerò la traduzione a chi farà buone condizioni all’autore.
Mi consenta di citare un brano di un saggio di questo libro (in una traduzione che è altamente provvisoria: sono alla prima stesura, per cui rischio grosso):
“Benché non sia un creatore in senso assoluto, il traduttore [di poesia] vero è nondimeno un artista creativo, ma un artista a cui, con buona probabilità, vengono negati i benefici usuali dell’opera di un artista. Ogni parola nel libro è sua, ma il suo nome compare in caratteri ridotti sul frontespizio, e solo i colleghi traduttori lo noteranno. Se ha svolto bene il proprio lavoro, sarà qualcun altro ad avere il merito; se lo ha fatto male, sarà lui a essere criticato. Fra le poche recensioni che riceverà, almeno la metà si premurerà primariamente di elencare imprecisioni ed errori, che capitano, ineluttabilmente, quasi che, per quegli errori, il suo lavoro sia da screditare in toto. ”
Ciò detto, quando decido di tradurre un poeta, so che corro il rischio di renderlo male: posso fare errori, posso non centrare lo stile e il tono, posso non interpretare/empatizzare in modo corretto. Sono umana, e posso sbagliare. Ma di una cosa sono certa. I testi che scelgo di tradurre MI PIACCIONO. Se mi piacciono, non sono piatti o banali. Qualcosa di buono ce l’hanno, almeno per me.
E non faccio mai confronti con la maggiore ”pregnanza”, oppure originalità, o peculiare profondità e ricchezza di un altro autore. Ogni poeta ha un suo mondo da comunicare, e lo comunica con parole e immagini sue personali. Come traduttore, ho usato le mie parole e ho filtrato i testi attraverso l’inferno umano della mia mente. Il risultato è banale? Possibile. Ciò che lei trova banale (nella mia traduzione, nel mio testo italiano) può per altri essere interessante, ricco, nuovo, particolare e persino stimolante. Ma il confronto con i contenuti, le idee, le immagini e le parole di un altro poeta mi sembra ozioso. Semplicemente non è filologicamente corretto. forse è esteticamente plausibile (mi piace di più la cioccolata fondente del gelato al limone), ma non criticamente valido. Altro esempio, io sono una persona/donna piatta, banale, scialba, non sofisticata … Di sicuro a molti uomini non piacerei mai. A questi uomini lascio Kate Blanchett, Julia Roberts, Scarlett Jonasson … Così è con la poesia: trova quella che ti ”appaga di più”, come la donna.
mi spiacerebbe che le mie critiche venissero intese come rivolte alla traduzione: così non è, anzi. Ho letto innanzitutto il testo originale, che in un inglese stentato balbetta insulsaggini (platitudini per l’inclita).
Mi ricorda il caso di mia sorella, cui anni fa venne proposto un testo osceno dicendo: prova a rendere leggibile questa roba…e si trovò per 10 anni a fare il revisore/rescrittore di Harmony.
Eppure avrebbe avuto molte qualità.
Quindi la prego di non volermela per la bruta semplicità delle mie osservazioni, credo che anche la sua risposta faccia intendere capacità che a ben altro potrebbero applicarsi.
una ultima nota: ‘i testi che scelgo di tradurre mi piacciono.. ‘ :
senza tirare in ballo le insondabili profondità dell’anima osservo solo che il suo commento è ricco, profondo, anche letterariamente interessante..-il testo originale ahimè l’opposto
c’è uno squilibrio che a me pare evidente che ricorda il mirmicoleone di Borges…
“il testo originale ahimè l’opposto
c’è uno squilibrio che a me pare evidente che ricorda il mirmicoleone di Borges…” ( Di Marco)
Assolta la traduttrice, restano “sotto processo” i testi di Marc Alan Di Martino (in lingua originale o tradotti). Ora non per polemica personale ma perché interessato a intendere come si risponde oggi all’eterna domanda “cos’è la poesia”, chiedo un approfondimento: in cosa consiste lo “squilibrio” di questi testi? cos’è che in essi non piace?
lo squilibrio non è nei testi, ma fra autore (riporto: un inglese stentato, un diluvio di banalità, null’altro) e traduttrice, di ben altro spessore, come traspare dal suo intervento.
Se poi i testi originali piacciono, …la bellezza è nell’occhio del lettore.
Però che nessuno si permetta più di parlar male di Harmony.
E visto che ci siamo andiamo anche a rileggerci quel grande classico popolare che erano i fotoromanzi..sui quali il discorso sarebbe assai interessante.
Ho passato anni dai tempi del Laboratorio Moltinpoesia di Milano (2006-2012) a contrastare snobismi dall’alto e dal basso. Un buco nell’acqua. Mi arrendo.
chiamare snobismo i giudizi, positivi o negativi che siano ma sempre opinabili..mai condannabili, è una forma di snobismo al quadrato…travestito da populismo
Caro Paolo [Di Marco],
mi spiace polemizzare ma meglio chiarirsi. Non sono mai stato populista neppure nel valutare le poesie che ho pubblicato su Poliscritture (e prima ancora su Moltinpoesia: http://moltinpoesia.blogspot.com/ e su Poesia e Moltinpoesia: https://moltinpoesia.wordpress.com/).
Solo un esempio di come ho affrontato in passato in numerosi interventi il problema (irrisolto!) che ho tante volte cercato di porre; e sempre contro gli opposti estremismi dello snobismo dall’alto e dal basso: https://www.poliscritture.it/2014/11/15/poesia-ed-esercizi-di-poesia/
In questa occasione un commento (14 novembre 2014 alle 12:00) scrivevo tra l’altro:
« Qui non c’è nessuna difesa della “classe” (poetica? sociale?) a cui apparteniamo. Non vengono date « lezioni ad altri di adorazione della “critica”». Non si vogliono respingere o escludere per mero pregiudizio “signorile” certi linguaggi “ingenui” a vantaggio di altri “elaborati”. Non si vuole zittire nessuno/a.
Si vuole però ragionare sulla questione davvero complicata dell’uso poetico del linguaggio e muoversi sui differenti livelli – dal dilettantismo al premio Nobel – evitando la semplice pacca sulla spalla a chi si reclude nel linguaggio che parla o scrive giudicandolo “unico”, “naturale”, “sincero”, “schietto”, “spontaneo”, “vero”. E si vuole pure evitare il semplice sberleffo o marameo o disprezzo più o meno livoroso nei confronti di chi, a sua volta, ( e per buone o cattive ragioni, che andrebbero valutate) si reclude nel linguaggio “specialistico”, “artificiale”, “neutro”, “iperletterario”, “al di là del bene e del male”, ecc.
Quale *politica del linguaggio(poetico)* allora? Questa è la questione ineludibile e che però, in questo periodo di incertezze, ci fa oscillare paurosamente, come un albero investito da venti contrari, tra populismo ed elitarismo (tra apertura indiscriminata ai molti e chiusura gelosa tra i pochi, che parrebbero o pretenderebbero di essere per forza anche buoni).
Su questo blog hanno cittadinanza sia gli “esercizi di poesia” sia le poesie. È una scelta d’apertura, ma problematica. O vogliamo far saltare la differenza *di qualità* che esiste tra esercizi di poesia e poesia? Vogliamo far finta che non esiste? Ma allora non si spiegherebbe le attenzioni e commenti favorevoli ricevuti dalla poesia di Marcella (Corsi)?
Oppure – sull’altro versante – trascurando completamente il fenomeno dei “moltinpoesia”, occuparci esclusivamente del “meglio” e litigare per proporre solo il “meglio” o addirittura solo l’”ottimo”? (Magari senza esplicitare alcun criterio per distinguere questi valori?).
A mio parere vanno combattuti sia lo snobismo di massa sia lo snobismo d’élite. Tengo ancora ferma la prospettiva fortiniana della costruzione di uno spazio (laboratorio, piazza, blog) dove il filosofo possa dialogare col tonto. Ma si sappia che è un esperimento davvero arduo e forse impossibile se non si riuscirà a costruire una *politica del linguaggio (poetico)* che eviti gli estremi. Finiremo o nelle spire dei populismi o in quelle degli autoritarismi. E non solo linguistici.»
Quanto alle poesie di Marc Alan Di Martino, rileggiti:
1. ?? incomprensibili abissi di platitudine;
2. Ho letto innanzitutto il testo originale, che in un inglese stentato balbetta insulsaggini (platitudini per l’inclita).
E poi, per cercare di allargare il discorso e togliere al confronto la patina personalistica che gli hai dato, scrivo: « Ora non per polemica personale ma perché interessato a intendere come si risponde oggi all’eterna domanda “cos’è la poesia”, chiedo un approfondimento: in cosa consiste lo “squilibrio” di questi testi? cos’è che in essi non piace? », ma tu, invece di argomentare perché a te queste poesie non piacciono o dimostrare perché l’inglese di Di Martino sarebbe stentato, rispondi con delle battute: «Se poi i testi originali piacciono, …la bellezza è nell’occhio del lettore. Però che nessuno si permetta più di parlar male di Harmony».
Chi allora, in questo caso, snobba?…
“Mastin già morde? Viva! Il libro è buono.” – Roberti
Posso dire una cosa?
Marc mi fa notare un (contrabbandati?) incongruo: nel testo inglese non c’è; probabilmente è un residuo dei miei (tanti, troppi) dubbi traduttivi .
In altri termini: ho lasciato una possibile alternativa in corpo di traduzione.
Mi scuso con Marc, Ennio e i lettori. Vivo un periodo (come Marc sa) un pochino difficile, non solo per la pandemia. Anche le mie traduzioni stanno andando a rilento e spesso presentano imperfezioni. Per un pochino non presenterò cose nuove, credo.
Quanto al resto, posso solo ribadire che a me le poesie di Marc sono piaciute. Una, contenuta in un librettino, mi ha persino ispirato (che presunzione!!!) la mia prima (e unica)poesia in inglese. L’ha accettata un magazine straniero. Fortuna di principianti.
Credo di aver detto a Ennio che la poesia in cui fa capolino Maimonide mi riporta indietro di 25 anni: a studi molto diversi da quelli di anglistica, che ho poi abbandonato. Studi di filologia classica e di (eh sì, ho osato e fallito!!!) ebraico e cultura ebraica. Mi affascina il mondo dei manoscritti…
In questo senso credo che banalità, bellezza, profondità, bruttezza … well, they are in the eye of the beholder. Il massimo che io faccio è tentare di tradurre al meglio. Per favore, non mi fate fare il mestiere dei critici letterari …
Grazie per la discussione che comunque presuppone almeno una forma di attenzione per il lavoro altrui.
🙂
AL VOLO/ E LONTANO LONTANO DIETRO IL DISCORSO SULLA POESIA (E LA CULTURA) C’E’ …
Sanità e scuola, solo il fattore umano le tiene in piedi, non c’è finanza, automazione, tecnologia, digitalizzazione che tenga. Industria e logistica, il fattore umano non conta? Tutto è software, robot, algoritmo, certificazione di qualità? E la cultura? Quella che ancor si sottrae alla mercificazione turistica, quella che trae alimento solo dalla creatività, in quella – cos’è che vale se non il fattore umano?
Certo, ci sono dei settori della cultura dove l’oligopolio e la tecnologia sovrastano, determinano, condizionano, sussumono interamente la creatività. L’associazione di freelance Acta sta conducendo un’indagine sul settore audiovisivo in Lombardia e Veneto, dalle decine di interviste approfondite con varie figure professionali del settore emerge il potere sovrastante di Netflix, che non è diverso da quello di Amazon nella logistica, da quello di Google, di Facebook, di quei colossi che ormai costituiscono l’odierno Leviatano. Qualche sciopero di macchinisti, di elettricisti, ricorda ancora che quell’elemento residuo, il lavoro, persiste. Ma sono punzecchiature di spillo in un ambiente, un mercato, dove la marxiana sussunzione reale al capitale sembra aver raggiunto lo stadio finale. La cultura – che vorremmo aggiungere ai quattro pilastri sanità, scuola, industria, logistica come essenza della società civile – sembra trovarsi stretta proprio tra essere una variabile del turismo ed essere funzione del Leviatano.
( Da https://www.officinaprimomaggio.eu/editoriale-2/)