di Ennio Abate
Oh parrocchietta del sud, teca di vetro
dove con quei loro gracili corpi
che poco e male conoscevano
se ne stavano serrati!
Oh figurine di madonna, occhi in su
col serpente – occhi chiusi – sotto i piedi!
Oh statuina di gesso – san Giorgio cavaliere –
sempre sotto teca nella stanza in campagna
di nonna Francesca, di lancia armata
contro il drago – vita informe!
Dimenticati, gracili corpi, assetati
o fanciullescamente famelici
già divisi ora da lusinghe ora da rigori di preti
già schizzati per le vie del batticuore
in pedinamenti di ragazze!
Per abbreviare così lo spasimo dello stacco:
il guizzo ansioso di un tuffo e smarrirsi.
Ma lontano e altrove. Non più nel mare
nudi o nella dolce inconcludente lussuria
che l’aria incoraggiava e il vento sperdeva.
2000 circa
Nota 2021
Questa foto, recuperata da un amico d’infanzia, dev’essere stata scattata attorno al 1949-’50 forse con qualche macchina fotografica a lampo. L’ambiente è al chiuso: lo stanzone della sala delle adunanze della parrocchia di S. Domenico a Salerno, frequentata da me e dai miei amici. Sul muro, pieno di macchie per l’umidità, il cartello del “Gruppo Audaci” (uno dei cinque o sei in cui i ragazzi – gli aspiranti dell’Azione Cattolica – venivano suddivisi per le attività di catechismo e di gioco).
Mi metto dal punto di vista di un osservatore che non riconosce nessuno dei fotografati e mi colpiscono alcune cose:
– i ragazzi e le ragazze in alto a sinistra e in piedi su sedie o panche o le quattro donne sedute formano una quinta diagonale staccata dal gruppo compatto in tonaca nera del prete e dei quattro seminaristi e dal giovane isolato e in piedi sulla destra;
– questo giovane è l’unica figura che appare quasi completa e contrasta anche per questo sia dal gruppo a sinistra che dal gruppo in tonaca nera;
– il fotografo ha sbagliato l’inquadratura: non solo ha escluso o tagliato i fotografati sul lato sinistro ma ha lasciato sulla destra uno spazio inutilmente vuoto;
– tutti i fotografati, tranne alcuni che si distraggono, sono attirati dalla macchina fotografica e la fissano; soltanto il giovane in piedi e isolato guarda in altra direzione o sembra assentarsi;
– i volti rivelano attesa, perplessità, sorpresa, curiosità, diffidenza; e solo due ragazzi in basso e in primo piano – quello dai capelli scuri sorridente e quello che dietro di lui, forse inginocchiato, lo sovrasta – sembrano davvero contenti di essere fotografati.
Confrontando la foto del ’49-’50, inviatami dall’amico solo nel 2019, e i versi che, senza conoscerla, ho scritto sulla base di ricordi miei attorno al 2000 e pubblicato nel 2011 in “Immigratorio”, mi pare che l’immagine confermi il senso di chiuso, di opaco raccoglimento in sé, di attesa indeterminata della piccola comunità parrocchiale o «parrocchietta del Sud». Dà anche evidenza ai «gracili corpi/che poco e male conoscevano/ se ne stavano serrati» tra loro (tranne il giovane sulla destra); e non solo per la necessità tecnica di farsi fotografare. Quello che manca nella foto è «lo spasimo dello stacco», che è centrale nella poesia. E’ sentimento tutto mio, individuale, desunto dai ricordi. E mi fa guardare la foto col distacco di chi sa che qualcosa s’è rotto per sempre tra lui e i fotografati della «parrocchietta del Sud»: sia quelli anonimi, che non ricordo, non riconosco e di cui ignoro tutto; e sia quelli la cui storia s’intrecciò con la mia di ragazzo e che sto ripensando e scrivendo nel mio “narratorio”. Ritornare a quel passato parrocchiale è ritornare ad un cappio e non decidersi a dichiararlo tale? O, visto il titolo dato alla poesia, vezzeggiarlo? No, è il lavoro minimo e mai definitivo per sfuggire all’inerzia del passato.
P.s.
Forse è meglio aggiungere che il giovane isolato sulla destra è Michele Buonocore, figlio del primo sindaco di Salerno nel dopoguerra, il democristiano Luigi Buonocore, assiduo frequentatore della parrocchia di San Domenico.
Dolcissimo ricordo.
Come un olio balsamico, che se ne cade solo una goccia rimane una macchia forse incancellabile. Ciao Ennio Abate.
Abbiamo parlato un po’, in altro post, del passato e della memoria, poco ma abbastanza per evidenziare che abbiamo un atteggiamento diverso al riguardo. Ma ti pongo la questione apertamente: perchè la tua insistenza sul passato? Perchè riproporlo nella memoria attuale?
@ Cristiana
Avrei voglia di rispondere alla tua domanda sia sul piano biografico che storico, ma dovrei scendere in troppi dettagli, soffermarmi su nodi spesso ancora aggrovigliati e ritornare almeno su alcuni scrittori per me importanti ( Proust, Pavese, Fortini) oltre ad alcuni storici (Le Goff, Hobsbawm, Pavone).
Preferisco, invece, rimandarti ad un saggio appena letto e che affronta la questione da te posta in termini filosofici forse da te più apprezzati: Che cos’è la filosofia? – Omaggio a J.-L. Nancy di Roberto Esposito(https://www.journal-psychoanalysis.eu/che-cose-la-filosofia-omaggio-a-j-l-nancy/?fbclid=IwAR1XJBvBFc6w-JIHXEg7MUwHif6r1AjySEovSpO9FMO7ZOMZaU5cYuFjCno ).
Evitando cortocircuiti indebiti con la ricerca del mio “narratorio” che non ha intenti dichiaratamente filosofici, mi pare però di condividere le esigenze poste dal filosofo francese appena scomparso (anche se poco ha a che fare con Marx). E in particolare trovo fecondi alcuni spunti presenti in questi passaggi del discorso di Esposito:
1. Al contrario, la contemporaneità va intesa, secondo il suo significato letterale, come compresenza ed attrito di tempi eterogenei all’interno dello stesso tempo. Solo il riferimento all’origine consente, a chi abita il proprio tempo, di attivare uno sguardo critico su di esso, anziché schiacciare la sua prospettiva sulla schiuma di superficie del presente. Filosofo – è una prima risposta alla domanda su cosa sia la filosofia – è colui che abita l’interstizio tra temporalità diverse e anche contrapposte, sperimentando l’urto antinomico che nasce dalla compresenza di arcaico e attuale. Filosofica è la capacità di sostenere questo attrito, dando voce ai dilemmi che esso comporta;
2. Ciò che appare per la prima volta in questo testo [ Kant, che cos’è l’illuminismo] è la semplice presenza del presente, non derivata in negativo dal confronto con ciò che lo precede o lo segue. Ma affermata in quanto tale. Come si esprime Foucault, è il presente stesso come problema filosofico. Ma pensare il presente come problema filosofico non vuol dire immergersi integralmente in esso, aderendo alla sua superficie più esterna. Significa, al contrario, confrontarsi con quanto di eterno esso porta dentro di sé. Torna, ancora una volta, la relazione tra origine e attualità da cui siamo partiti. Foucault la richiama attraverso Baudelaire. La peculiarità di Baudelaire sta nel particolare ethos che egli assume nei confronti del Moderno. Un atteggiamento non di semplice abbandono alla sua emergenza, ma piuttosto di resistenza al suo flusso inarrestabile. Baudelaire non avrebbe mai detto, come Rimbaud, il faut être absolument moderne – pure se di fatto lo è stato. Non s’iscrive alla corsa vertiginosa che schiaccia il presente sul futuro, perdendo il contatto con esso: “per lui, essere moderno […] consiste nel riafferrare qualcosa di eterno che non sta né al di là dell’istante presente, né alle sue spalle, ma in esso”;
3. Mentre il presente, il puro presente, è ciò che siamo e, proprio per questo, già non siamo più, l’attuale è ciò che non siamo, ma che stiamo diventando, l’alterità che c’inquieta e ci sollecita, il possibile divenire-altro da noi restando noi stessi.
1. Il primo brano che riporti dall’articolo di Esposito si riferisce a Heidegger: il filosofo “abita l’interstizio tra temporalità diverse e anche contrapposte … [con la] capacità di sostenere questo attrito, dando voce ai dilemmi che esso comporta”. (Sul “dando voce ai dilemmi che esso comporta” arriverò più tardi.)
2. Il secondo brano che riporti si riferisce a Foucault, il cui senso Esposito legge con Deleuze e Guattari: “distinguere non soltanto il passato
dal presente, ma, più profondamente, il presente dall’attuale. L’attuale
non è la prefigurazione, magari utopistica, di un avvenire ancora nella
nostra storia, ma piuttosto l’adesso del nostro divenire”.
Ma qui Esposito trae delle conclusioni: quelle che tu riporti al punto 3.
Ora, proprio questo attuale che non siamo, ma che stiamo diventando e possibile divenire-altro da noi restando noi stessi, è il problema del nostro presente.
E non una quasi-soluzione, come sarebbe una tensione continua verso quello che possiamo diventare restando noi stessi. Perchè questa tensione resta dentro un quadro unico, ed è stata espressa come progresso (politico, scientifico, come vuoi) o come critica (del politico, dello scientismo, ecc.). In questi due sensi, progressivo e critico, la continuità è assicurata, personale e comune, dalla memoria alla storia.
Esposito però intende omaggiare il suo amico Jean-Luc Nancy, quindi riporta a conclusione del suo excursus su cos’è la filosofia -nel rapporto tra origine e attualità- questa sua frase: “bisogna inaugurare e proseguire
l’inaugurazione – sapendola sempre reinventare – fino all’ultimo”. Per chiedere subito: “Che nome – o che contenuto – conferire a questa inaugurazione?”, aprendo alle possibili vie che la tradizione occidentale può imboccare per rapportarsi al suo esterno.
Come spesso accade le conclusioni filosofiche concludono aprendo ad altro. Cioè aprendo la tradizione occidentale al suo esterno. Voglio solo rilevare che la posizione di Heidegger, quel sostenere l’attrito tra temporalità diverse, mi pare in accordo col lavoro che fai nei confronti della tua memoria, soprattutto in quanto ti riferisci a difficoltà (non certo i dilemmi di cui Heideggere portava ben altro peso) coinvolte.
Cos’è per me la memoria? Soprattutto è continuità privata, patrimonio personale, vivo ma non storico. Forse spiega i diversi punti di vista che ho assunto e che ho ora, forse le scelte a cui mi sono acconciata, forse la misura che prendo di me e l’apertura agli altri. Ma non ci elaboro sopra. Perchè è sempre viva con me.
Sono atteggiamenti diversi, che diventano anche scelte culturali ma che certo non si escludono. In che modo, invece, si collegano alle scelte che deve fare la tradizione occidentale, che è arrivata a un punto di tensione massima oggi? Vorrei essere capace di pensarlo.
Nella poesia di Ennio c’è una componente di tenerezza struggente per un mondo sprofondato, come Atlantide, negli abissi…Ma anche lo stupore e l’incredulità per averne fatto parte, cosi’ come la vecchia ed emblematica fotografia degli anni ’49 ’50 ce lo rappresenta: sulla destra, in una fetta spaziosa del locale oratorio, ben visibili e distanziati sacerdoti, seminaristi e il figlio del sindaco, nel restante spazio, pigiati, quasi rovesciati gli uni sugli altri bambini: ragazzetti e mamme della “parrocchietta”…I presenti, immobili per lo scatto fotografico sembrano posare “sotto teca” come i modellini di madonnine in varie fogge ed espressioni o la statuina di San Giorgio cavaliere “di lancia armata contro il drago”…C’è tenerezza per l’ infanzia li’ trascorsa, con i suoi ingenui simboli, per i ricordi legati ad amici ed esperienze giovanili…Ma si avverte, tra le righe dei versi, anche l’insorgere dell’nsofferenza per una soffocante educazione religiosa. Segue necessariamente uno slancio ad uscirne: da catene, vetri, ristretti acquari…”il guizzo ansioso di un tuffo a smarrirsi” con la bella immagine finale: “Ma lontano e altrove. Non piu’ nel/ mare/ nudi o nella dolce inconcludente lussuria/ che l’aria incoraggiava e il vento sperdeva.”
PASSATO/PRESENTE, MEMORIA/RICORDO
Appunto 1
Una volta il senso di essere nella storia, anzi nel “presente come storia” (titolo di un vecchio libro di Sweezy e Huberman) mi feriva tanto che che annotavo puntigliosamente ogni data; fino al ridicolo. Non vorrei invitare nessuno al rifiuto idiota della conoscenza storica, tanto corrente oggi nei più diversi ambienti della opinione degli studi; quella conoscenza, per avvertirne i confini, va in ogni caso affrontata, a rischio di rimanere pietrificati. Vorrei solo avvisare chi tocca e manipola la storia di un passato ancora prossimo: è un’operazione che può esplodervi tra le mani. Anzi, spero che gli accada. Nelle sedi intellettuali e della conoscenza, che sono sempre più intimamente legate alla azione politica, uno dei segni di novità vera è nella coscienza di non avere più terreno alle spalle nell’immediato passato e di dover cercare aiuto, semmai, solo in un passato remoto per affrontare un ostacolo attuale, presente; che tanto più assumerà lineamenti precisi, e nome, quanto più a una generazione o gruppo umano si fa chiara la stretta che, ove non venga forzata, condanna alla stagnazione, al rancore e alla nostalgia. […] [Bisogna] affrontare una semplice e dura verità: che il passato dei padri e dei fratelli maggiori o di noi stessi è ancora nostro, non è ancora morto, non lo si riduce a pagina chiusa, non lo si esorcizza Né lo si pone fra parentesi ma lo si affronta, quando e se ne abbiamo le forze, *a partire da un futuro prossimo* o,, se così vogliamo, *da una meta*
(F. Fortini, Il controllo dell’oblio, in “Insistenze” , pagg. 131-132, Garzanti, Milano 1985)
PASSATO/PRESENTE, MEMORIA/RICORDO
Appunto 2
A.
«Confrontando la foto del ’49-’50, inviatami dall’amico solo nel 2019, e i versi che, senza conoscerla, ho scritto sulla base di ricordi miei attorno al 2000 e pubblicato nel 2011 in “Immigratorio”, mi pare che l’immagine confermi il senso di chiuso, di opaco raccoglimento in sé, di attesa indeterminata della piccola comunità parrocchiale o «parrocchietta del Sud».[…]
Ritornare a quel passato parrocchiale è ritornare ad un cappio e non decidersi a dichiararlo tale? O, visto il titolo dato alla poesia, vezzeggiarlo? No, è il lavoro minimo e mai definitivo per sfuggire all’inerzia del passato». [E. A., Parrocchietta del Sud]
B.
«Il giovane sempre incontra ostacoli a ricordare la propria infanzia e adolescenza […] Per di più ogni tentativo di dire della propria preistoria incontra la storia degli adulti e anzitutto quella della vita dei genitori antecedente la propria nascita […] Gli elementi di quella possibile narrazione (la cronaca familiare, la “storia” dell’età paterna) vengono così colpiti da antipatia, disvalore, rimozione. […] Sgomenta il peso delle questioni che la nozione di memoria (storica e personale) porta alla luce. […]
[Qui Fortini fa alcuni esempi, legati alla cronaca a lui coeva, dei processi di rimozione di «interi blocchi di problemi» innescati dagli «ultimi sei o sette anni [il saggio porta la data del febbraio 1982] di terrorismo, di politica della unità nazionale e di inflazione e di scandali», che resero impossibile « trasmettere a chi [aveva] diciotto anni una qualche verità non convenzionale su quello che i loro padri» sessantottini avevano tentato di fare.]
Sappiamo come si fa a dimenticare e a far dimenticare. Il controllo dell’oblio, ci dice, Le Goff, è uno dei più spietati strumenti del potere. […]L’interdetto della memoria […] non opera mai da solo, ha bisogno di un’altra istituzione sorella, il cui nome risale alla rivoluzione giacobina: l’amalgama. Con il principio dell’amalgama, soprattutto se introdotto e coltivato dalla legislazione [nota mia: si pensi alla Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 che equiparò nazismo e comunismo o all’attuale polemica contro il rettore dell’ università degli stranieri di Siena, Tomaso Montanari, che ha criticato «la legge del 2004 che istituisce la Giornata del Ricordo (delle Foibe) a ridosso e in evidente opposizione a quella della Memoria (della Shoah)»], si possono estendere criminalizzazione e ostracismo a strati sempre più vasti».
(F. Fortini, Il controllo dell’oblio, in “Insistenze” , pagg. 131-132, Garzanti, Milano 1985)
PASSATO/PRESENTE, MEMORIA/RICORDO
Appunto 3
«È risaputo che dopo i primi vent’anni del nostro secolo l’opera di Proust propose ai propri lettori una pratica di ascesi, di conoscenza e di redenzione fondata sul recupero di particolari esperienze trascorse».
[Dopo aver detto che «nulla di troppo nuovo [c’è] in questa proposta» e averla ricollegata ad «analoghe discipline» adottate «in società o gruppi umani di forte vita religiosa, Fortini sottolinea che «Proust distingue fra una memoria volontaria, che egli tende a vedere come già formulata in pensiero verbale ( e che, per semplificare, possiamo chiamare “ricordo”) e una involontaria, che ci riporta invece una totalità di esperienze, concentrate in un punto del tempo che è passato e che torna presente». Decostruendo tali «totalità ineffabili che la memoria involontaria ci ripropone» e creandone «un equivalente metaforico» (o «opera d’arte») possiamo riappropriarcene; e «tale riappropriazione è la sola nostra possibile compiutezza umana». Ma è possibile ancora oggi praticare e proporre a tutti questa «pratica di ascesi, di conoscenza e di redenzione»? O pretendere di «trasformare tutti gli uomini in artisti»? O ancora: è bene che il «ricordare» venga svalutato e siano valorizzati invece gli «episodi di memoria involontaria preconsci o subliminali (come li chiamava Joyce, che parlava anche di “epifanie”)»?
Prima di rispondere a queste domande, Fortini fa notare quanto la proposta di Proust sia non solo elitaria ma superata dalla realtà attuale. Oggi:
1. per masse ingenti di uomini che vivono la vita quotidiana nelle «società urbane» proprio gli episodi di memoria involontaria si sono dilatati e moltiplicati fino ad «occupare una larga parte della vita psichica, di altrettanto riducendo e svalutando la funzione del “ricordo”;
2. la «giustapposizione schizoide fra universo del “ricordo” (ossia della razionalità e della prestazione) e universo della “memoria involontaria” (ossia del piacere e del sogno), che ai tempi dei futuristi e dei surrealisti cominciava ad imporsi ma era ancora limitata, oggi «è costitutiva della società e istituzionalmente intrattenuta e sfruttata». Siamo, cioè, nella società dello spettacolo o del «surrealismo di massa»; ed è ormai «ridicolo pensare di sfuggirvi passando dal tempo coatto iscritto in un fatale “software” (sequenze audiovisive o della pubblicità o dei pubblici trasporti o dell’auto) a quello privato della contemplazione o della meditazione». Dunque, «quanto più si rinuncia a “ricordare” ossia a formulare verbalmente la storia che conosciamo, di noi e degli altri, tanto più la congerie dei frammenti memoriali emergenti da esperienze scomparse diventa medium delle nostre giornate, un glutine attraversato da pulsazioni e da soprassalti». E questi processi hanno portato alla «liquidazione di ogni possibile prospettiva politica», per cui «alla lettera, non sappiamo più che cosa abbiamo fatto, chi eravamo, che cosa volevamo, un mese, un anno, dieci anni fa». Dobbiamo parlare di «sonnambulismo, ma non è una metafora». Quale allora la conclusione di Fortini?]
«L’espropriazione del “ricordo”, cioè della tradizione, è il vero esito della colonizzazione; perché di questa in definitiva sto parlando. Su questo tema Simone Weil ha scritto parole indelebili.
So bene, così rivendicando ricordo e storia contro l’immaginaria pienezza della memoria “profonda”, di scrivere contro due dei miei più cari e grandi maestri, Proust e Benjamin. Ma non si può lasciare il ricordo e la storia nelle mani dei padroni e signori. Non si può, come dice il poeta [Manzoni], nutrirsi dei «sogni giocondi d’error». I nostri sonnambuli (questa è la mia conclusione provvisoria) vivono quindi nella dimensione, degradata, dell’”estetico”.
E quando si è afferrati dall’angoscia di morte, entro di noi non sappiamo trovare se non feticci di figurazioni culturali o frustoli di poesia. Il “ricordo” invece, nella sua definitiva narrativa, è oggetto o strumento. Può passare di mano in mano. Già in sé contiene giudizio e scelta. Strappa al magma dei paradisi e degli inferni solo interiori. Costruisce dure sequenze di una temporalità non individuale. Esige un patto fra persone e generazioni; e la fedeltà al patto».
(F. Fortini, Il controllo dell’oblio , in “Insistenze”, pagg. 133-137, Garzanti, Milano 1985)
ritorno ad osservare la fotografia della “Parrocchietta del sud”, per notare quanto “plasticamente” appaia l’educazione dei giovani di allora, strettamente tenuta nelle mani, e senza soluzione di continuità, di famiglia, chiesa e stato…mamme, preti e rappresentante (indiretto) dell’autorità statale. Capisco lo sforzo, o lo scatto, che avrà dovuto mettere in atto Ennio per liberarsi da un pensiero, anche emotivo, cosi’ univoco e gerarchico…
Riguardo ai pensieri di F. Fortini su: ricordo, “memoria profonda” e l’onirismo spettacolare dei mass media di oggi che ne amplificano l’effetto deviante sulle menti, sempre piu’ fragili e portati all’oblio, vorrei fare alcune riflessioni…Certo Fortini aveva visto giusto riguardo alla deriva a cui assistiamo, aveva ragione a parlare in difesa del ricordo storico e contro la tendenza all'”amalgama” di fatti e responsabilità…Riguardo invece a quello che F.F. afferma sulla “memoria involontaria” ho qualche riserva, non credo che solo artisti ed élite se ne possano avvantaggiare, anzi penso che sia un bagaglio che ognuno dovrebbe coltivare o, meglio, “inaugurare” come alle origini per mantenerci in contatto con un sentire originario e profondo. Proust va bene, ma anche Pirandello in “Ciaula scopre la luna”, dalla cui esperienza forse il piccolo minatore è partito per scoprire il suo valore e la sua dignità di essere umano e magari, in seguito, lottare per i suoi diritti. “La memoria profonda” non sacrifica la cosapevolezza di un percorso storico personale e collettivo, che ci indica “una meta”…Sicuramente oggi è un’operazione piu’ complessa, perchè siamo frastornati da messaggi stordenti, devianti…è anche un lavoro di archeologia, per riscoprire noi stessi sepolti e portarli alla luce, rianimarli…Alcuni racconti di Elena e di Angelo mi sembrano in questa direzione…piu’ problematico venire in aiuto dei ragazzi quando per ore stanno, occhi e mani, sulle consolle di giochi elettronici…Ma non viene meno la mia fiducia in loro, troveranno scappatoie, spero
“Riguardo invece a quello che F.F. afferma sulla “memoria involontaria” ho qualche riserva, non credo che solo artisti ed élite se ne possano avvantaggiare, anzi penso che sia un bagaglio che ognuno dovrebbe coltivare o, meglio, “inaugurare” come alle origini per mantenerci in contatto con un sentire originario e profondo. ” (Locatelli)
Converrebbe leggere tutto il saggio per evitare il rischio di una interpretazione bacchettona della rivendicazione che Fortini fa del ricordo e della storia rispetto alla “memoria involontaria” (o “profonda”). Non è che chiede di censurarla o che la svaluti o la voglia riservare ad una élite. Prende invece atto di un mutamento storico della realtà sociale che , per così dire, ha trasformato “le emersioni del subconscio – capaci di compiere, in altri tempi, miracoli religiosi, rivoluzionari e artistici” (p. 137) in ” modi di esistenza che oggi sono cibo ed escremento quotidiano di masse enormi” (pag. 136). Per intenderci, è come se un valore (la libertà) venisse imposto come obbligo.
Non è più possibile conquistarsi, come tu dici quel “bagaglio che ognuno dovrebbe coltivare o, meglio, “inaugurare” come alle origini per mantenerci in contatto con un sentire originario e profondo”. Non è Fortini che lo vuol vietare. E’ la realtà che lo vieta. E’ avvenuto un processo simile a quello di cui si accorse ai suoi tempi Leopardi quando, pur ammirando il mondo degli antichi, si rese conto che esso ormai era inaccessibile ai moderni.
In un altro passo che non ho riportato Fortini rammenta che questo processo, da lui definito “surrealismo di massa” per distinguerlo dal surrealismo del primo Novecento, che ancora poteva permettersi alcune illusioni e aspettative sulla funzione liberatrice o addirittura rivoluzionaria dell’inconscio, “ha una sua sorgente nei modi di produzione della fabbrica moderna (si vedano le pagine di Braverman) che le successive “generazioni” elettroniche stanno bensì alterando ma forse non diminuendo; anzi aggravando” (pag. 134).
Il passato è il nostro cane da guardia… Quando entra l’estraneo, abbaia. Fa il suo dovere. È importante ogni tanto coccolarlo e non aver paura… Ma accogliamo l’avviso. Ascoltiamolo. Ne abbiamo bisogno.
AL VOLO DA UNA PAGINA FB
Annamaria Pagliusano
…NULLA È MAI PASSATO.
E. CANETTI.
” Il ricordo è buono perché aumenta la misura del riconoscibile.
Ma bisogna fare particolarmente attenzione che non escluda mai il terribile.
Il ricordo può concepire il terribile diversamente da come esso apparve nel suo atroce presente, diversamente, ma in modo non meno crudele, non meno insopportabile, non meno assurdo, tagliente, amaro; e non deve concepirlo con soddisfazione perché è passato: nulla è mai passato.
Il valore del ricordo sta in questo: che ci fa capire che nulla è mai passato.
E.C.
“La provincia dell’ uomo”