Nella Pieve erano conservate le reliquie di San Celestino. Soltanto il teschio però, diceva sua nonna. Perché quando lo scheletro del santo era stato trasportato sul fiume, se lo erano conteso due barche: una della riva destra e una della riva sinistra. E così, proprio nel mezzo del fiume, nessuno dei due voleva mollare ed era finita che a loro era rimasto il teschio e il resto era andato a quelli dell’altra riva.
Quando sentiva questa storia Viviana si immaginava un fiume molto diverso da quello che conosceva. Un fiume gonfio, lumeggiato di bianco, e al centro, su due barche immobili a forza di remi, alcuni uomini che con ostinazione tirano a sé le estremità del corpo santo.
Dovevano essere due barchette da niente, due gusci di noce per navigare in quel fiume che era un torrente. Viviana se le immaginava come la barca del Re Pescatore, così piccola che ci stavano soltanto un uomo che remava e, a prua, il re intento a pescare. Intento a pescare per dimenticare la sua ferita.
Il Re Pescatore pescava gamberi nel canale quando era in secca e li friggeva nel cortile della Fornace. Viviana aveva assistito alla trasformazione dei gamberi da grigi a rosso acceso. Del sapore non conserva alcun ricordo. Conserva invece l’esatta cognizione della ferita del Re Pescatore, di cui lui pare non accorgersi, e che è il disprezzo della madre.
Non ricorda se la pesca dei gamberi si ripeta in occasione di ogni prosciugamento del canale o se sia avvenuta una volta sola. Propende per la seconda ipotesi. Il padre non è uomo della costanza; è piuttosto il tipo dell’infatuazione passeggera e dell’impresa singola. Una volta recupera, da certi locali dismessi, le tubature di piombo per fonderle e farne lingotti da scambiare con cartucce già pronte. Viviana ricorda con precisione l’espressione di disprezzo e quasi di schifo con cui l’uomo della ferramenta, che è il padre di sua madre, prende i lingotti di piombo di cui non sa che farsi e gli dà le cartucce. Lui di sicuro, suo padre, non se ne accorge.
Se ora pensa a lui, Viviana lo pensa giovane, fra il fiume e il canale. Indica con la punta della scarpa, nel greto, le deiezioni secche e tonde delle lepri. Va a caccia col fucile. Una volta – non sono lontani da casa – la manda avanti, oltre il cartello di divieto di caccia, le dice di aggirare un campo di mais le pare, o di sorgo, e poi di tornare indietro e attraversarlo per alzare le pernici, o parare avanti le lepri, o quello che c’è, in modo che passi di qua dal cartello e lui possa sparargli. Viviana non si fida mica tanto, ha paura dello sparo, della rosa di pallini; ha paura che lui la pianti lì e se ne vada.
Una volta ha costruito per i conigli una grossa gabbia di legno senza fondo, che viene trascinata da un punto all’altro del prato affinché i conigli possano servirsi direttamente di erba. Loro però scavano buche e scappano.
Un’estate la madre va al mare con i figli, gli affida la cura delle galline. Quando torna non ce n’è più neanche una: il padre le ha vendute al macellaio.
In tutto questo tempo la sua ferita, che lui non sente neanche, continua a gocciolare.
Il fiume dove camminava suo padre era un largo, larghissimo greto in cui, di dieci chilometri in dieci chilometri, i frantoi ribaltavano la ghiaia. Era il punto più basso del paese; quello in cui si perde ogni determinazione. C’erano piste che non portavano da nessuna parte, impronte di copertoni, piccole depressioni dove il fango si mantiene bruno sotto una crosta cinerina che si accartoccia. Dappertutto arbusti di pioppi e di tremoli che la corrente ha stretto in isole. Più avanti, verso il centro del letto, grossi sassi sui quali si perde l’equilibrio; poi, finalmente, un ramo d’acqua grigia.
Nel fiume si bruciavano larghi cumuli di immondizia, ci abitava gente che le sembrava strana: robivecchi, ferraioli, gente che comprava in giro le pelli di coniglio e le inchiodava ad asciugare al sole. Era un luogo privo di riferimenti. Un grado zero.
Per tutte le cose ci deve essere – Viviana è convinta che ci debba essere – qualcosa come un grado zero: un livello, una soglia, a partire dal quale la cosa si manifesta nelle sue reali proporzioni, come vista dall’esterno e da un ottimo punto di vista, dal migliore in assoluto, quello che la rivela. Il loro grado zero, la prospettiva che li mostra quali essi stessi nemmeno sanno di essere, è la ferita del Re Pescatore.
Per il paese dove vivono, l’accozzaglia un po’ casuale di strade con o senza marciapiedi, con o senza lampioni, con o senza cartacce e coni smangiucchiati di gelato e cicche di sigarette lungo i marciapiedi o impigliati nelle erbacce, con le salite e le discese e le scorciatoie e le scalette, con le case vecchie e i cortili labirintici intorno alla piazza che vengono sostituti da condomini i cui garage hanno tetti catramati, sono una distesa di tetti catramati – per questo insomma che è il paese o il centro del paese, che è una cosa che sta già diventando incomprensibile e lo sarà sempre di più – incomprensibile e indifferente e necessariamente disperso nei chiusi cortili del privato – per tutto questo il grado zero è il fiume. Da lì, guardando verso l’alto, si vede esattamente il rilievo del paese come un paté di sabbia.
Ora questo naturalmente non significa nulla.
Il rilievo – come la memoria, i racconti e gli antenati – appartiene alla madre. Il padre predilige il grado zero, i luoghi piani, lo scivolare del tempo nella non-memoria. Non ha mai voluto trattenere. Gliene viene una noncuranza; la soddisfazione di vivere nel presente.
Del grado zero, Viviana eredita l’evidenza con cui si impongono certe cose. Ad esempio la ferita. Che lui la avverta o no, è a causa della ferita del Re Pescatore che la terra è desolata e sassosa, piena di fumi e di ossa come il greto di un torrente.
E a dirla tutta, il terreno del fiume è vasto e pauroso; ogni passo nasconde un pericolo, a ogni passo si scoprono cose non del tutto umane.
Una volta, quando era molto piccola, ci è andata con una più grande, che abitava in città ed era così stranamente compita. Aveva una carnagione molto bianca e delicata, come un soufflé. Videro lo scheletro completo, ripulito e in parte imprigionato nella sabbia di un grosso animale – forse un asino, o un vitello. Era perfettamente bianco e pareva strano che potesse starsene così, sotto il cielo.
Poco dopo la ragazza dalla carnagione delicata, vestita molto leggermente di bianco perché è estate, cade di peso in un cespuglio di rovi – una caduta inspiegabile se si esclude la stupidità o il destino. Fatica a rialzarsi e a districarsi e ripete con signorile autocontrollo: “Oddio sono caduta nei rovi. Oddio adesso sono caduta nei rovi”. Viviana pensa che il fiume finirà per mangiarsela – lei, il suo vestito bianco e la sua carnagione di soufflé.
Commento estremista, ma non troppo.
Sconnesso e misterioso. Ma forse l’unità è nel fiume, che non a caso apre il racconto con la scena di una separazione tra testa e corpo, massimo della sconnessione. E per avvolgere in un tocco gotico, il corpo diviso è quello di uno scheletro. Santo, e ormai siamo entrati nella leggenda.
Per ora il fiume è colmo e la corrente ampia, ma più tardi sarà un greto secco ghiaioso pieno di rifiuti e di umani che ci bazzicano. Forse il fiume si raddoppia o diventa solo un canale.
Il personaggio principale è un re pescatore concreto e spiccio, uomo dell’impresa singola, mentre le confuse presenze letterarie del vero Personaggio Reale sono nella storia lettararia ripetute e cangianti. Per fortuna c’è il particolare di un’immagine da un vero film a riassumerne la consistenza e offrire un sigillo al pescatore/peccatore.
L’altro, quello vero, il padre di Viviana, è cacciatore, ma segnato anche lui dalla ferita che è il disprezzo della madre e non si rimargina mai. È, questo disprezzo della madre, il grado zero senza storia e memoria, terra desolata. Infatti si era inventato trucchi idioti e costituiva un pericolo possibile per Viviana.
L’altra personaggia è la bambina bianca come un soufflé, così realmente ordinata e sociale da ripetersi stupita: mi sono cacciata nei guai.
Viviana invece è quella che scrive. Assomma materiali che solo lei sa e non si preoccupa di riordinare per spiegarli proprio a nessuno.
Altro che la narratologia e il quadrato semiotico di Greimas!
E dire che a me sembrava così chiaro. Come ci si può sbagliare 🙂
Sì in effetti alla 3° lettura ho cominciato a trovare un filo… ma ho anche pensato che la “sconnessione” fosse un tuo esercizio di bravura!
No, niente esercizio di bravura. Solo il tentativo di inserire frammenti (per me) significativi in un mosaico più ampio da cui trasparisse una figura il più generale possibile. Ma temo che, platonicamente, la sagoma la intraveda soltanto chi ce l’ha già nell’occhio. Pazienza.
Forse non stiamo vedendo due scene diverse…
ciao Elena, tento una lettura del tuo racconto: “Il Re Pescatore”…mi sembra che l’assoluta protagonista sia Viviana, la giovinetta ( la narratrice, credo) un tempo amante della vita, come il nome ci suggerisce, ma soprattutto integra nelle sue idee ed affetti. La sua esistenza si svolgeva nella pienezza dei sentimenti, un fiume dalle acque abbondanti ed impetuose. Beninteso la serenità della fanciulla poggiava su convinzioni inamovibili e “sacre”, sebbene rigide come lo scheletro di San Celestino…Quando pero’ assistette allo smembramento del medesimo, anche lei subi’ la stessa sorte, si senti’ irrimediabilmente scissa…e devastata. Prosegue la narrazione e ci racconta la medesima storia, quando ormai Viviana indossa occhiali dalle lenti grigie, anzi grigio-topo, per lei piu’ nulla sarà come prima. In Viviana c’era una volta un Re Pescatore, il padre, oggetto di ammirazione e devozione filiali assoluti, ma la madre, con la sua ferrea ragione, penso’ bene di aprire gli occhi alla figlia: un padre pasticcione, inconcludente, persino pericolosamente incosciente…La ferita insanabile della sfiducia e del disprezzo che ha colpito il padre ora si muove anche in Viviana, lei ormai non puo’ che raccoglierne il sangue, quel rigagnolo grigio e maleodorante a cui si è ridotto il maestoso fiume, come tutto quanto il paesaggio!
Il linguaggio è per forza inceppato, trattiene un “magone” mai risolto, resuscita una sofferenza antica…molto coraggio a parlarne
@ Cristiana e Annamaria
Be’, non andiamo male, come dice il mio oculista quando ho perso soltanto la metà di quel che si aspettava. No, in realtà andiamo molto bene, non era mica tutto ’sto enigma, il punto lo avete colto bene entrambe (ma avverto una particolare consonanza in Annamaria) – poi è chiaro che la vostra visione “dal di fuori” non può essere identica alla mia “dal di dentro”, ma non è nemmeno il senso della cosa.
Aggiungo soltanto alcune precisazioni, o elementi materiali, che possono servire o non servire.
– La ferita del padre – una ferita inguaribile se ci si pensa un attimo, un colpo mortale inferto a partire non tanto da elementi oggettivi quanto da una valutazione globale negativa (infatti non si valutano tanto le azioni quanto chi le fa) – è assimilata alla ferita del Re Pescatore. La prima elaborazione letteraria di questo mito è quella di Chrétien de Troyes (Le Conte du Graal, intorno al 1180). In generale, un elemento ricorrente del mito è la ferita (o la malattia) del re che è causa dell’inaridimento della terra (carestie, pestilenze, morie del bestiame, sterilità. Ad esempio anche nel mito di Edipo, dove la malattia è se vogliamo di tipo morale). Nel mio racconto la ferita del padre devasta la psiche della protagonista. La tranquilla ovvietà della vita non può manifestarsi. Tutto diventa faticoso e mediato.
– si tenta un allargamento dal microcosmo (psiche della protagonista / ambito familiare) al macrocosmo (paese, situazione socio/geologica). Il padre è collegato al livello socialmente più basso e dunque al fiume e al greto (piatto, pianura, scarsità di riferimenti, disordine, personaggi strambi o comunque marginali, assenza di memoria, quindi di un qualsiasi tipo di “araldica” = cura della genesi e provenienza, cura della storia). Questo lato ha qualcosa di “unheimlich” e di un po’ spaventoso, ma anche una grande libertà. La madre è collegata alle colline, al rilievo, alle differenze di altitudine e di gradi, alla memoria, alla cura dell’identità attraverso la storia personale e collettiva. L’approccio della madre è un approccio immediatamente giudicatorio e valutativo (e qui, se Cristiana vuol fare una citazione dantesca…); la madre ricorda, racconta, convince, ingabbia e distrugge.
– la storia delle reliquie di San Celestino, all’inizio, non c’entra col resto, dunque, direi, è un errore narratologico (!) Serve a introdurre il Re Pescatore che in effetti compare, nel romanzo di Chrétien e nel film molto accurato e fedele di Rohmer, su una barchetta in mezzo al fiume; le due scene erano per me iconograficamente collegate (quindi qualche collegamento è sempre possibile…):
Et il vit par l’eve avalant
une nef qui d’amont venoit ;
.II. homes an la nef avoit.
Li un des .II. homes najoit,
li altre a l’esmeçon peschoit.
……….
Et il s’arestent amedui
en mi l’eve, coi i esturent,
que mout bien aencré se furent.
(E [Perceval] vide scendere sull’acqua una barca che veniva da monte; nella barca c’erano due uomini. Uno dei due remava, l’altro pescava con l’amo. […] E entrambi si fermano in mezzo al fiume, vi stettero immobili, poiché molto bene si erano ancorati.)
Grazie a entrambe per avermi letto, capito e preso sul serio – nonostante la mia “rudezza” nei confronti del lettore.
Un racconto molto bello. Complimenti, Elena.
La scrittura elusiva è gestita con grande sapienza. I diversi piani di realtà sono immediatamente compresenti, senza veri e propri slittamenti, o forse tale compresenza si raggiunge attraverso movimenti impercettibili. Il lessico, con squarci sensoriali visivi che rimangono impressi, è molto calibrato e si muove tra il racconto orale e la narrazione alta. L’ambiente fluviale ben si confà con l’atmosfera di Il Re Pescatore, tra cruda quotidianità, ricordi, visione metafisica, umori ipnagogici e leggenda. Il finale è sobrio e onirico al contempo, di forte impatto sensoriale.
Grazie, Subhaga, del commento molto preciso e anche troppo generoso. Il racconto è stato ripreso varie volte nel tempo e sottoposto a numerosi taglia e cuci e ritaglia e ricuci, senza che fossi mai veramente soddisfatta del risultato. Ma rileggendolo ultimamente mi era sembrato presentabile. Mi sembra che tu abbia colto molto bene il carattere che volevo conferirgli. Per un autore è il massimo, quindi grazie di nuovo.