di Ennio Abate
«Io sono “io” (esisto) solo se posso dire noi» (Jean-Luc Nancy) «ciò che diviene sempre più visibile è l’avvenuta dissoluzione di quel We. L’esplosione, dispersione e dileguamento di quel Noi reticolare che, seppure non ha sconfitto il capitalismo, quantomeno era apparso potesse essere la base a partire dalla quale «vivere e lottare». È quella dissoluzione e le sue conseguenze la verità difficile da accettare, poiché alla fine del We mondiale ha poi corrisposto, a cascata nel tempo, la decomposizione di tutti i piccoli noi che attorno a quello erano fioriti». (We Are Winning di Marcello Tarì, qui)
Lettore Allora, dopo tutti questi appunti, ti sei deciso a scriverla la recensione su «Io»?
Samizdat Sì, ma è venuta troppo lunga, preferisco parlarne con te.
Lettore Attacca pure.
Samizdat Parto da un sunto del libro.[1] Un bambino abita in una casa popolare, s’innamora di una bambina, Roberta, che abita di fronte a lui; e desidera salire con lei sulla «spianata» che si trova sul tetto di un garage, ma lei rifiuta. Della vita di famiglia veniamo a sapere che: padre e madre si amano poco o niente e danno al figlio un’educazione cattolica; intorno agli undici dodici anni il bimbo si fa l’idea che la madre soffre e suo padre è cattivo e si sente in colpa per questo; ha una sorella, con la quale divide la camera, gioca e impara a leggere e a scrivere; va in vacanza dai parenti di sua madre, che è nata a Brindisi; un giorno con la chiave che il padre ha dimenticato apre un cassetto, di solito chiuso, e scopre «i ricordi di suo padre del fascismo» (teste di Mussolini, la tessera della repubblica di Salò», ecc.). Il ragazzo, diventato giovane, abbandona la “casa del grande garage” e va a vivere da solo in una casa di ringhiera. Ha una fidanzata. Ha degli amici: Adriano, di vent’anni più grande, che ha avuto il padre torturato dai tedeschi; Johnny, che ama le novità, a cui piace vivere in città e la gira con una radiolina transistor all’orecchio; un pittore astrattista, Milo, e sua moglie, che dopo la morte di Milo, si uccide. Al liceo s’avvicina all’associazione cattolica Gioventù Studentesca; vota con scarso entusiasmo l’occupazione della scuola; distribuisce volantini e partecipa ad assemblee e manifestazioni, s’innamora di una compagna di Lotta Continua. Lavora come intervistatore e traduttore. Vive con Bianca, con altri amici e il «padre buono» di Bianca. Fa dei viaggi da turista in Vietnam, Messico e Laos. Partecipa alla carovana per la pace a Sarajevo. In breve, il libro narra di come è diventato adulto un bambino nato in Italia nel 1950, vissuto tra Milano, Reggio Emilia e Brindisi. E frantuma questa vicenda in 14 capitoli.
Lettore Come? Frantuma?
Samizdat Sì, Parizzi ha scelto una forma, che richiama le scritture sperimentali degli anni ’60-’70 del Novecento. Non narra i fatti in modo cronologico e lineare, non «segue il calendario», ma procede per salti temporali e spaziali, a zapping.[2] È una frantumazione ordinata, ben pensata, solo in apparenza neoavanguardista. È facile, infatti, cogliere il senso dei singoli frammenti e dell’insieme. L’autore non vuole scandalizzare o sfidare il lettore, ma spiazzarlo appena un poco e sedurlo affabilmente.
Lettore Ti è parso che la forma non aiuti a capire meglio la storia, il contenuto?
Samizdat La vedo un po’ in contrasto con la vicenda stessa. La formazione di questo «lui» è quasi banale: innamoramento fanciullesco; vita familiare e parentale chiusa in sé, da ceto medio e senza scossoni; rottura non traumatica con il padre fascista; ribellione al mondo cattolico che non lo porta a posizioni “estremistiche”. L’umanità intravista nei viaggi, da turista, è e resta opaca e lontana. C’è ben poco di romanzesco e molto autobiografismo appena velato. C’è un saggismo che accenna a problemi enormi ma non risponde. Le domande “metanarrative” sono troppo secche e le risposte elusive[3] o rimandate. Sono perplesso. Parizzi avvicina la mano a molti fuochi, ma non si scotta mai. Forse ci gioca con grande abilità e leggerezza postmoderna.
Lettore Mah, concedo che la vicenda del protagonista sia normale e somiglia a quella di tanti suoi coetanei o quasi. Ma questo a me pare un vantaggio: così sono tanti quelli che possono seguire i ricordi e i pensieri, sinceri o appena velati, che Parizzi ha disseminato in più di 200 pagine. E confrontarli coi propri. I suoi destinatari sono quelli come me, gente cresciuta in ambienti cattolici tradizionali, conservatori e forse reazionari e che si è formata nella scuola di massa democratica. Non sono certo gli “estremisti”, i nostalgici del ’68 o gli incontentabili come te. Scherzo, eh!
Samizdat Scherza pure, ma considera il titolo. Lo trovo sfacciatamente seduttivo nella sua adesione al narcisismo dei mass media e dei social. È come se dicesse: non ho nessuna esitazione a parlare di io. Basta con i noi (cattolici, socialisti, comunisti, anarchici, patriottici, sovranisti, ecc.). E basta pure con la psicanalisi che, da Freud a Lacan, ha spaccato il capello in quattro sulla crisi dell’io. Io il mio io me lo tengo ben stretto.
Lettore Parizzi, a differenza di te, si è riposizionato da tempo sul presente. Ti ricordi la sua rivista? Si chiamava «Qui. Appunti dal presente». Non si può rimanere a rovistare il passato o le «buone rovine» fino ai nostri ultimi anni di vita, orsù! Lui il suo passato l’ha digerito. Ed è falso che si sia appiattito sulle mode o sul vocio di massa. Anzi, io ho interpretato il titolo come un segnale di sincerità, modestia e onestà. Piuttosto, è come se avesse detto: vi parlo di quello che ho vissuto, pensato e immaginato; e solo di quello; e a modo mio. E poi scrivere il romanzo di formazione di un ragazzo “normale” in tempi di spettacolarizzare e di esaltazione a tutti i costi dei bordeline, non guasta.
Samizdat Vedi che con questo io così in primo piano – in fondo un io “liberale” perché il presupposto del libro è che «tutti sono io»[4] soltanto o soprattutto io – Parizzi sottovaluta non solo il noi d’allora, della nostra giovinezza, ma il problema del noi di oggi. Che manca e si sentono le pesanti conseguenze.
Lettore Un io “liberale” quello di Parizzi? Esagerato! Tendi sempre a politicizzare troppo e tutto. A me pare bello anche se non originale che il protagonista sia un io bambino stupefatto, incantato, curioso di fronte al mondo, attento alle sensazioni. Non vedi come intuisce e soffre dei drammi familiari e parentali? In mezzo a quella piccola borghesia o ceto medio urbanizzato di una Italia avviata al boom economico matura e si autonomizza dagli adulti. E lo fa con quieta dissimulazione, senza scenate. Allo stesso modo attraversa i turbamenti sessuali dell’adolescenza. Infine a me piace davvero – particolare storico e più che generazionale oggi non trascurabile – una grande passione per la lettura, che in quegli anni era quasi l’unico sfogo concesso a bambini solitari.
Samizdat Anche a me questa parte di «Io» ha fatto simpatia. Ho pensato al fanciullino, a Peter Pan, al puer aeternus.
Lettore Ma no! In «Io» non c’è mai abbandono alla pura immaginazione o al fiabesco o alle oscurità misteriche. Parizzi procede per supposizioni ben meditate. Sui ricordi non ci ricama, li riporta con oggettività e realismo. Ed usa un linguaggio preciso, colloquiale, sciolto, secco, vicino al parlato e senza ideologismi. E le sue sono sempre annotazioni sintetiche. È lontanissimo dalle descrizioni sociologiche strabordanti della «Scuola cattolica» di Edoardo Albinati o dagli amarcord sentimentalistici.
Samizdat Ma che tipo di maturazione ha questo io bambino? A me pare che passi dall’educazione cattolica ad un generico progressismo utopistico. E a dirla tutta, da ex di quegli anni, tra Gioventù studentesca e Lotta continua non c’erano poi grosse differenze. Populismo – religioso e laico – in fondo. C’è un pregiudizio in «Io» (mai esplicitato o teorizzato, anzi direi occultato proprio dalla mimesi seducente del parlato): che un bambino sia più naturale e autentico dei “grandi”. In fondo Parizzi si rifà a Rousseau e a Schiller. Da lì trae l’ideale etico ed estetico di rapporti umani dignitosi per sé e per tutti; dell’amicizia; di un fare sì, ma mai ben definito, che dovrebbe migliorare le condizioni di vita dell’intera umanità che abita la terra. Belle parole. Questo ideale etico-estetico e magari oggi anche ecologico è senza base politica e sociale, senza noi (mi ripeto). Nel frattempo i conflitti, le guerre crescono.
Lettore Sempre dove il dente ti duole torni, eh! Ogni sentimento o pensiero per te, se non si traduce in politica, è vano. E poi dici di non essere inchiodato a quel passato, quando vi illudevate che il noi politico dovesse essere “al posto di comando”!
Samizdat – Stiamo al libro. A un certo punto in «Io» si dice che «al mondo c’è da proteggere i bambini».[5] L’autore e il narratore, però, non si chiedono mai chi li può proteggere e se sia possibile proteggerli, se permangono e si acutizzano guerre e conflitti sociali. Come fanno i bambini a crescere bene in una macelleria mondiale del genere? Mi accusi di nostalgia della nostra giovinezza, ma si può anche restare ancorati al desiderio infantile dell’ «io non voglio diventare grande» e farne un principio.[6]
Lettore quando Parizzi narra del bambino irakeno che, alla caduta di Saddam, si ritrova in «un gruppo di uomini che, tutti insieme, uscivano dalla piazza gridando» e corre e li raggiunge e si toglie una scarpa e inizia a «picchiare in testa Saddam», costruisce una immagine potente che spinge all’utopia.
Samizdat Quanti equivoci contiene quell’immagine! Estratta dalla storia tremenda della dissoluzione dell’Irak, è pura estetica, spettacolo. Tranquillizza la buona coscienza degli europei. I bambini non fanno la storia e anzi ne sono di continuo le vittime. La storia la fanno gli adulti; e in modi sempre terribili e a volte orrendi. E quella è una statua, non Saddam! E l’hanno buttata giù proprio i “grandi” (i “Grandi della terra”) imbastendo una guerra sanguinosa e turpe nelle sue false motivazioni.
Lettore Ma Parizzi non sostiene che il bambino, picchiando il pezzo di statua con la scarpa, partecipa alla storia dei grandi. E, comunque, siamo un po’ noi quel bambino e l’immagine fa riflettere, scalda i nostri cuori.
Samizdat Ma non ci aiuta a ragionare. Non so cosa pensasse il bambino reale, ma è certo che confondeva realtà e immaginazione. Or un travisamento del genere in lui posso sopportarlo. Ma perché l’autore o il narratore non riprende né commenta né interpreta la scena da adulto e ci fa sapere cosa ne pensa lui? Forse lui pure si è lasciato attrarre dal lato estetico dell’episodio trasmesso alla TV. E poi – lo si capisce da altri brani saggistici di «Io» – legge i fatti soltanto sul piano morale. E ricorre alle categorie pre-machiavelliche di innocenza e di male.
Lettore Ma è un romanzo. Non vedi il sottotitolo di «Io»?
Samizdat Lo è? Fino a che punto? Io riconosco che Parizzi, pur lavorando su frammenti eterogenei nel tempo e nello spazio, non ha rinunciato alla ricerca di una visione unitaria. Da romanzo, appunto. E trovo i vari brani collegati tra loro. Mi chiedo, però, perché così brevi le domande e spesso così elusive le telegrafiche risposte della parte “metanarrativa”, che dovrebbero funzionare da commento.
Lettore Io, invece, ho trovate molto belle anche queste parti. Specie dal punto di vista della forma. Mi paiono antifone o intervalli riflessivi ironici e spiazzanti. O quasi ipnotici refrain. O contrappunti a quanto appena detto dal narratore. O domande incalzanti da intervistatore. E in questo inseguirsi e riallacciarsi e ripetersi delle interrogazioni, oltre alla volontà di tener desta l’attenzione del lettore, ci trovo proprio la ricerca di ricomposizione dei frammenti e di una continuità tra tempi e spazi diversi. Da romanzo, dunque. Nella stessa direzione vanno anche le analogie che Parizzi suggerisce in modi sempre allusivi. Ad esempio, tra una casa povera di Napoli e una casa di legno su palafitte in Thailandia. O tra il pittore Adriano e un anonimo pittore vietnamita. O tra l’elemosina negata al bambino a un semaforo di Milano e la vendita contrattata delle noccioline a Hué in Vietnam.
Samizdat Prevale troppo la quotidianità della vita familiare e parentale. Spesso la più delicata o persino edulcorata. Il quotidiano rappacifica e incoraggia però la frantumazione di un discorso; e vela i punti drammatici dell’esistenza, le falle, a volte le tragedie.
Lettore E dalli con la frantumazione! Eppure hai detto tu stesso che è controllata. Nessun flusso disordinato di coscienza o incoscienza, cavolo! Ti ricordi il punto in cui Parizzi parla di un sarto bresciano, che ama e sa fare bene il suo lavoro, perché lo conosce bene? Ecco, secondo me questo sarto raffigura emblematicamente la sua scrittura. Che ha un’artigianalità ammirevole e non si lascia turbare dalla concorrenza della odierna e invadente comunicazione massificata, ma con sapienza, anche monocorde, cuce insieme e bene per tutte le 200 pagine i vari brani-pezzi di stoffa.
Samizdat C’è ancora un’altra cosa che non mi ha convinto: la storia più vasta entra soltanto nelle poche tracce depositatesi nella vita dei familiari o nella memoria, per forza di cose confusa e mitizzante, del protagonista-bimbo. Capisco che è nel mito che il bambino vive i primi conflitti tra i suoi desideri (emblematico il salire sulla spianata) e la realtà (Roberta che si rifiuta di seguirlo). Ma quando Parizzi deve passare dal noi ristretto e concreto – familiare o parentale o strettamente amicale – al noi dei più, degli “estranei” o a un noi più astratto e universale (diciamo pure: con ambigue pretese di universalità), esita e si arresta. Proprio nel punto, dunque, in cui il narratore dovrebbe calarsi nel romanzo. E cioè dar conto dei conflitti maggiori del noi storico collettivo, al quale per un po’ la sua generazione attorno al ’68 pur partecipò. Ti pare poco non rendere conto di quel tentativo di re-immaginare addirittura una “rivoluzione”, una rottura coi noi preesistenti e soffocanti?
Lettore Mi vuoi dire che, quando si scrive un romanzo, l’autore è obbligato a occuparsi di universale o di storia “vasta”? E chi lo dice?
Samizdat Nessun obbligo. Noto, però, che in «Io» quel noi del ’68 è rappresentato in maniera sfocata. Cosa dicono, infatti, quei noi che fummo? Cose vaghe, che l’io/lui narrante (e in fondo l’autore, Parizzi) non capisce e poi neppure più ha tentato di capire. Prima avevamo un bambino, poi abbiamo avuto un giovane. Entrambi non si sono resi conto di cosa succedeva o vivevano. D’accordo. Chi può dire di avere il faro della coscienza a disposizione in ogni periodo della sua esistenza? Nessuno. Ora nel ’68 noi vediamo questo «lui» che distribuisce volantini, anche se «non ha molta voglia»; fa con altri studenti ripetizioni private ai figli degli operai; ha la spinta a fondare una rivista che richiederebbe un lavoro in gruppo; è attratto da una ragazza di Lotta Continua che gli piace. Poi va in vacanza e tutto sembra svanire nel nulla. Ancora d’accordo. Ma nella scrittura, a distanza di tanto tempo, cosa dobbiamo pretendere dallo scrittore, non più bambino né più giovane?
Lettore E che vorresti? Un bel poema alla Majakóvskij che esalti il coraggio dei militanti rivoluzionari di professione? Svegliati! Tanta gente ha vissuto quegli anni con leggerezza, divertendosi. Erano pochi i seriosi o i fanatici.
Samizdat Ma vuoi capire che in «Io» non c’è una interrogazione sulle dottrine politiche o sulle ideologie che appassionarono o avvelenarono la mente di migliaia di operai, impiegati, studenti? E che il narratore guardava (per me scandalosamente!) a Proudhon non a Marx.? E che della politica marxista riecheggia slogan stereotipati? E che resta bloccato alle soglie del ’68, alle primissime manifestazioni, evitando di accennare al seguito, quasi a gustare, in coerenza con la sua visione roussoviana, l’alba “innocente” di quella storia?
Lettore- Dai, fra poco loaccuserai di rimozione o di tradimento piccolo borghese!
Samizdat – No, questo no.[11] Sono fesserie. E non pretendo neppure che arrivasse a parlare delle tragedie degli anni Settanta fino all’assassinio di Moro. Ma mi delude in «Io» l’insistenza sull’infanzia. Mi pare una scelta fondamentale, ma difensiva ed elusiva. Ordina tutta la narrazione, selezionando gli episodi in modo che alla fine tanto spazio viene dato al familiare e parentale e meno al pubblico-politico. Questo è il messaggio di fondo del libro per me.
Lettore Non condivido la tua opinione. E alla tua età dovresti aver chiaro anche tu cosa resta delle vostre biografie; e cosa di esse debba o possa farsi libro o romanzo. Parizzi con «Io» ha dato la sua risposta. Per lui resta un io che si sente in relazione con altri io, ipotizzati come a sé simili (o quasi).
Samizdat Sì, ma è una relazione in forma emotiva o nella «forma oceanica», di cui parlarono Freud e Rolland agli inizi del Novecento.
Lettore Per me invece dice una grossa verità: «i bambini, quello che è accaduto prima che nascessero lo sentono vero, magari, ma non proprio reale come quello che possono vedere, udire, toccare.[…]. Alla verità ci si potrà arrivare con la mente, ma per la realtà ci vuole il corpo».[12] Ma, tanto per capirci fino in fondo, a te di quella storia cosa resta?
Samizdat Resta un io-noi sconfitto, forse dilaniato da fantasmi (gli spettri di Marx?). Questo io-noi sa che la polis non c’è (o non c’è mai stata) e che in questa epoca un altro noi non è definibile. Né la possibilità di una sua costruzione è dimostrabile. Resta però che un altro noi è comunque necessario.
Lettore E cosa ha di tanto diverso il tuo io-noi dall’io di Parizzi? In entrambi i casi il noi di allora non c’è più e non lo puoi resuscitare!
Samizdat In «Io» c’è una rinuncia per sempre a ogni possibile noi, perché il noi è sostituito da tanti io, che non faranno mai più un noi. Vanno in altra direzione.
Lettore E sarebbe una prospettiva così grave?
Samizdat Sì. Questi io non sono pieni, maturi, adulti. Restano degli io-bambini, troppo bambini. Pochi giorni fa leggevo un’intervista a Nancy, morto di recente. Concordo con lui: un io si realizza solo in relazione al noi. Dev’essere un io-noi. Deve riconoscersi in una relazione reale e conflittuale con altri noi (o, forse, con altri io-noi) avversari o nemici. Solo così potrà partecipare responsabilmente ai conflitti della storia. Se questo noi oggi manca, è mancante anche l’io. (E la vecchia psicanalisi fa ancora bene a ricordarci che tutti questi io non sono più “padroni in casa propria”, cioè pieni, maturi, adulti).
Lettore Quella di Parizzi sarà una visione “liberale”, ma nel suo empirismo è più realistica della tua. E poi non è neppure così sicuro che Parizzi abbia rinunciato a pensare e a costruire un altro noi. Il finale di «Io» resta indefinito e aperto: «che cosa ci sarà, dopo quei campi, fra le colline, al mare, da entusiasmarsi tanto?».[13] Lo sai forse tu?
Samizdat No. Senza campi e colline e mari di fronte, ma davanti a questi palazzoni di periferia, non so dire o mostrare cosa ci sarà. Ma, dopo il composita solvatur che la nostra generazione ha vissuto, tengo fermo all’esigenza del noi: «contrariamente a quanto asserisce un senso comune deforme, la vita di gruppo è l’occasione di una ulteriore e più complessa individuazione. Lungi dal regredire, la singolarità si affina e tocca il suo acme nell’agire di concerto, nella pluralità delle voci, insomma nella sfera pubblica».[14]
Lettore- Ah, sì? Hai scommesso su un altro noi? Fa’ pure, ma a me sembri fuori epoca. Basta vedere cosa accade del noi nel tuo gruppo di Poliscritture! Buona fortuna, comunque.
[1] SUNTO VELOCE DEI CAPITOLI 1. Casa popolare. Piedi che camminano, corrono, saltellano. Gambe che scalano il Pizzo Nero. Malghe, temporale. Rachele e Edoardo scendono prima che piova. Pioggia, nuvole. A tavola con Rachele. Claude e Claire si lasciano. Gambe che pedalano a Reggio Emilia. Sui pattini. Gambe di ragazze. La terra calpestata da miliardi di piedi di donne e uomini. Ancora Claude e Claire. Parla la ragazza Roberta e dice io. Fidanzatina. Tu sei io? Ci saliresti sul tetto del garage (17). Il cielo (17, poi ripreso a pag. 182-183). Roberta va nel palazzo dei ricchi. Il bambino che si vuol far vedere. Il fiocco azzurro per il figlio che nasce, Leandro. 2. Appartamenti di famiglie della piccola borghesia. La “casa” povera di un vecchio in qualche vicolo di Napoli. Casa su palafitte in Thailandia. Quello accasciato e magro che in Messico abita una casa senza porta. Cosa si fa in una casa. Johnny e la sua casa di single. Lui vive da solo in una casa di ringhiera. La casa dei ricchi col marmo. La casa del grande garage (dei genitori). Nella casa fotografato coi suoi al momento della cresima. La mendicante che vorrebbe ballare. Gli amici del padre e il paese (a Samboseto di Parma). Mona, attivista egiziana, in piazza Tahrir al Cairo. Ricordi del padre e del suo amico Adamo: da bambini facevano la cacca nei campi. Freddezza dei rapporti tra sua madre e suo padre. [Verità e menzogna]. L’amico che lo ospita a Napoli lo porta a dormire in una casa di Bagnoli con una parete dipinta e un motto:”Quando l’uomo sarà un amico per l’uomo?”. 3. La casa di Zita l’attrice. Adriano. Ada. Bianca con Leandro, il bambino, nel quartiere che sta cambiando (sedi di multinazionali, moda, digitale). Ada, una sua ex fidanzata. Adriano è un amico di vent’anni più di lui, un narratore, un chiacchierone, e ha avuto il padre torturato dai tedeschi. [Un pittore a Hanoi]. Riflessioni sulla pietà e la crudeltà delle cose. Sul passato. Sulla leggerezza. Sulla malinconia. Camminare fino a stancarsi. In bicicletta per Crema. Con la carta stradale del Touring. [Che cosa ci sarà… (pag, 44) ripreso poi in altre pagine]. Johnny che gira per la città con la radiolina a transistor. Uno che studia nell’appartamento vicino. Johnny gira per la città ed è entusiasta delle novità e del presente (46) e non vuole “litigare” con il presente. Amare tutto anche la pubblicità. Tornando in bici da Crema è colto da un acquazzone. “Che cos’è il passato, Non lo so”. 4. La sera da bambino con padre e madre e la preghiera serale. [Riflessione su innocenza e male]. Da bambino s’allaccia le scarpe al mattino e s’incanta. [Riflessioni sull’animo che non sa di storia e di politica a partire da una scena dei miliziani di Hamas che demoliscono un muro e ancora “s’incanta”]. Gioca con la sorella a fare il commerciante. [Riflessione sul contenuto di classe dei nomi: signora, donna di servizio]. Notizie su sua sorella Federica. Separazione dei maschi dalle femmine. [Thailandia: il turista americano e la giovane thai]. Essere accolto nel gruppo dei maschi. Notizie sul fratello che si è sposato in chiesa. [Coppie che ballano, anche il vecchio balla]. Il trenino dei ballerini. [Lo scirocco]. La camera che divide con la sorella. Impara a scrivere. Impara a leggere. [il bambino che al semaforo chiede l’elemosina. Sconcerto. Rifiuto di fargli l’elemosina]. [A Hue il bambino che vende noccioline e abbassa il prezzo] [Riflessioni sui “rapporti umani”: essere guardato in faccia]. Quando si allontanerà dai genitori, parenti, dalla “casa del grande garage”, è per andare in strada e guardare il balcone di Roberta. Che vuol vedere senza essere visto. Immagine di lui che gattona. La prima casa di ringhiera in cui va ad abitare da solo. Vicini di casa: Nino e Cecilia da Livorno. Annotazioni su lui che esce di casa, traffico ingorgato, e lui si mette ad osservare passanti e donne ed è attirato da quella donna che incontra tutti i giovedì. Chi sono gli altri? Uomini, donne bambini. 5. Parla di un Natale di quando lui era neonato e elenca i parenti. Lui che esplora il vano di una cristalliera con gli specchi dove sono conservate bottiglie di liquore. Il mobile con il cassetto chiuso conserva i ricordi del padre fascista (teste di Mussolini, la tessera della repubblica di Salò, un libro di fotografie) (63). L’anno in cui era nato lui nascono altri amici suoi. Leandro, il bambino che ride. Ricordo del padre preoccupato e di sua madre che guarda il marito infastidita. [In viaggio per Finale ligure. Recita di Tanto gentile e tanto onesta pare]. Cena di famiglia da bambino: “Ma la focaccia col pomodoro”. Il padre in pensione e la medaglia della banca. Il padre gli ricorda che i comunisti hanno fatto morire il nonno. [Tradire.. ormai si è incamminato sulla strada del tradimento … stacco dal padre]. In pensione a Collio in montagna. Domande sul comportamento degli adulti. [Lavoro di intervistatore. Intervista a una donna]. Una casalinga (sua madre) gli prepara il sugo di pomodoro e la merenda del pomeriggio prima di guardare alla TV Rin Tin Tin. A undici- dodici anni si fa l’idea che la madre soffre e il padre è cattivo. E lui si sente in colpa. Suoi coetanei quattordicenni ispirati dai film di James Bond fondano un’associazione: “Dall’Italia con amore”. Riunione. Un giornalista della radio registra. E lo riaccompagna a casa. Suo padre l’aggredisce, lanciandogli addosso la cesta di vimini coi giornali. Le paure della madre, quelle del padre. Taglio del soffitto di compensato di un mobile per rubare al padre le sigarette. Al liceo l’associazione cattolica Gioventù Studentesca. Il padre buono di Bianca, Giuse, che si è trasferito nello stesso palazzo dove abitano lui e Bianca. Giuse racconta del suo viaggio in Senegal e dei bambini denutriti. Sottoscrivono a loro favore. Il padrino di cresima, Adamo, buono a differenza di suo padre. E altri padri buoni di cui vorrebbe essere figlio. La prima volta che può acquistare dei mobili. Il fratello che ha fatto un viaggio in Bielorussia gli porta delle matriosche. Bambini di Cernobyl ospitati per qualche mese: “si dovrebbe far qualcosa al mondo, per renderlo più bello” (73). Nella casa dove vive da solo ascolta il giradischi e la Quinta di Beethoven. Un usignolo. [Laos. Canto dei galli]. Il Giuse, il padre buono, ora malato, dal medico. Ancora il ricordo del Natale da neonato: sorriso amorevole della madre, storto del padre. Si sente invaso da questa “sarabanda” di parenti. Altro che Natale: desiderio di evadere: di essere “irraggiungibile, sulla spianata del grande garage” (77). Perché quando taglia lo scomparto chiuso che “è venuto a simboleggiare per lui la paura di suo padre e di sua madre” sfida la paura (77). Lavavetri sulla circumvallazione a Milano, che risale la fila delle auto e dice con risentimento qualcosa. Assemblea al liceo per votare l’occupazione della scuola. Scarso entusiasmo. 6. A Brindisi in casa dei parenti.[la domanda «Che cosa ci sarà dopo quei campi 79.., 100, 181, 195]. Nella chiesa prima di andare a messa. Il professore comunista sfoglia il libretto di preghiere che gli ha sequestrato. Roberta non lo caga. Desiderio di salire con Roberta sulla spianata. Il nonno di Brindisi: “quando si mangia si combatte con la morte”. L’elenco degli io da pag.86 a pag. 92: e la conclusione: «Ma allora, tutti sono io? Sembra proprio di sì». Samboseto, funerali del nonno. Esita poi si mette nel gruppo dei maschi, orgoglioso di esservi ammesso. Litigi in famiglia, non dire ad “estranei”. La divisione dei ruoli: uomini al lavoro e donne casalinghe. [Altra intervista a un consulente di banca]. Messaggi di Roberta dal balcone. 7. Buttarsi nel lavoro. Il sarto bresciano. Una contadina nella Bassa. Un giovane in tuta. Il nonno squadrista di Busseto che scappa dai partigiani(101). Ricordi sfuocati. [La memoria è il cassetto dei morti]. Discorso con amici sui nazisti terribili. «Di quelle cose non sente la realtà sino in fondo. Sono accadute prima della sua nascita, e spesso, specialmente per i bambini, quello che è accaduto prima che nascessero non lo sentono davvero… Alla verità ci si potrà arrivare con la mente, ma per la realtà ci vuole il corpo» (103) Il Vietnam dopo la guerra]. Sradicamento dal paese, sorriso storto in città del padre. [L’uomo che guarda di sbieco]. [Al mondo c’è da raddrizzare i sorrisi]. Anche la panettiera ha il sorriso storto. La tabaccaia col sorriso. Considerazioni ed esempi sulla spontaneità. Suo nonno ha ucciso? Il padre e il consuocero ricordano la caduta delle bombe durante la guerra. [Hue Vietnam] Quelli che non hanno fatto niente di male. 8. I miliardi che vivono nel mondo. Per l’unica volta (110). Accenni agli abitanti di varie città nel mondo. Ancora sui tanti che camminano sui marciapiedi. Ancora Roberta dal balcone. Immagina Roberta in cucina che apre il rubinetto o a tavola coi genitori.[Discorsi tra amici su Narciso]. Gli piace fissare il balcone di Roberta più che incontrarla. Il sarto e i suoi problemi col padrone. Roberta non ha risposto al suo invito a salire sulla spianata. Sale sul Duomo. «Che cosa c’è in alto…» (117, 129, 152, 182). Le ragazzine thailandesi gli regalano una cavalletta di bambù. Al freddo e il libro di Peguy che girava in Gioventù Studentesca. Alfredo è l’incaricato di Gioventù Studentesca che fa da guida spirituale ai giessini di una scuola. Nella casa di Alfredo ci sono tanti libri. Su Roberta e il suo bicchier d’acqua. 9. Suo padre a capotavola. Racconta un episodio: doveva andare al lavoro e al bar la cameriera non gli portava il cappuccino. Visita ai genitori e freddezza. Competizione tra padre e madre sulla scelta del liceo per il figlio. [Adilah marocchino e il dolore di perdere un lavoro che piace]. Scende dalla scala a chiocciola del Duomo. L’invecchiamento dei genitori. La madre morente (126). La madre morta. Difficoltà di dialogo col padre, ora vedovo: crede che sua moglie morta sia ancora ricoverata in ospedale. Morte del padre. Mirco e il doposcuola all’oratorio. Una processione. Uno studente svogliato. Da grande pensa di fare l’insegnante. Ancora a scuola: l’associazione studentesca. Uno scaricatore di porto: una vita da cani. Il sarto parla e vorrebbe cucire un abito per questo scaricatore (133). Parla un becchino. [Un incendio di isbe e Mitja che parla dei poveri]. Turisti su un pullman in Vietnam: gli zaini strappati a lui e a Bianca per costringerli ad andare in un certo albergo. Rifiuto. 10. Giornata di neve. Ricordo della madre in cucina. Da piccolo sotto il tavolo dove i grandi non vanno mai. Un capriolo sulla stradina. Tanti mondi e in Messico un vecchio calzolaio, ipotesi sulla sua vita da povero. Ragazze che dicono io. Da Cesare il professore di arabo. La ragazza dell’Arci Bellezza. Bambini che giocano alla campana. [Traghetto ad Haiphong]. Viaggio sul fiume in Laos. Il ragazzo decide di voler fare il traduttore. Al convegno nazionale del movimento studentesco a Ca Foscari. Nell’università occupata lui è col pigiamone azzurro. Il pittore astrattista Milo. Che cosa c’è da fare al mondo? Piantare giardini (148). Roberta, segretaria in una ditta di export-import. Lucrezia l’ecologista contro lo spreco dell’acqua. Il volantino dopo che «Allende è morto» scritto per i contadini e gli operai del PCI di Calice. Roberta ha trovato la “soddisfazione” nel lavoro (152). Piera la moglie del pittore Milo si uccide (152). 11. Brindisi la città di sua madre ai tempi della guerra. Cenni alla storia di sua madre ragazza e delle sue sorelle. La nonna che fa le orecchiette. La passeggiata nel corso di Brindisi: maschi da una parte e femmine dall’altra. Imitazione del cugino. Timidezza. I ragazzi insinuano che sia “ricchione”. Ruggero un suo amico che frequenta la biblioteca e scrive di filosofia. Specchiolla, paesino di BrIndisi [Spiaggia del Vietnam] [La casa degli zii a Specchiolla]. Ascolto della musica senza pensieri. Lui, Bianca e il bambino Leandro. A Brindisi in giro nella periferia dove abitano braccianti e muratori. 12. Studenti inquieti nella scuola. “Milano Studenti”, giornale dei GS. L’amico di San Vito dei Normanni che frequenta l’università Cattolica ed entra in urto col padre. La società è indietro rispetto all’uomo (168). La rivoluzione. [Thailandia: una donna anziana e una giovane cariche di cataste di legna sulle spalle e i turisti]. A distribuire volantini davanti ad un ITIS di Milano. Partecipa ad assemblea in piazza Leonardo. L’operaio di Lotta Continua della Pirelli Bicocca. Vorrebbe fermarsi nella chiesa di un prete giesse, ma poi prosegue e va alla manifestazione. Corteo: braccia e piedi. Liceo Parini di Milano e attacco dei poliziotti. Manifestazione bella seguita in bici. Un poliziotto dall’aria spaventata vicino alla Statale. Uno armato di pistola. Lui si butta dietro un’auto. I discorsi che si fanno: reificazione, immaginazione al potere, vogliamo tutto. Il dovere di volantinare alla Brion Vega. Non ha voglia di entrare a fare le ripetizioni ai figli degli operai (174). Cosa vuol fare? Una rivista. Miriam la compagna di Lotta Continua che gli piace. Fine delle lezioni ai figli degli operai. Vacanze. 13. Zia Rosaria che l’accompagna a scuola in prima elementare. [Prima lezione d’italiano agli immigrati a Baggio]. Su una ringhiera davanti alla scuola elementare da ragazzo. Il carretto del venditore di castagne. Le strisce pedonali: era obbligatorio passarci. L’edificio massiccio della scuola elementare. Cosa ci sarà dopo quei campi, fra le colline, al mare, da entusiasmarsi tanto? Descrizione di una folla: volti ossuti, etc. (181) [Hanoi]. Una festa ed esitazione a baciare una ragazza. Cosa c’è in alto e da lì cosa si vede: il bambino irakeno che picchia la scarpa sulla testa della statua di Saddam abbattuta e trascinata per strada. Parla il bambino. I mitra degli americani e il gioco da ragazzi di mitragliare [Huè, Vietnam: il figlio di un vietnamita che ha combattuto gli americani]. Ancora il bimbo irakeno che racconta. Un amico d’infanzia figlio di un amico del padre. Timido lui e sfacciato l’altro. A confronto. Con l’amico sul terrazzo gioca a fare il processo di Perry Mason. Il padre mai andato in villeggiatura. Perché lascia la moglie e i figli in vacanze? La carovana per la pace a Sarajevo. Il pullman coi partecipanti e gli olandesi che scambiano un funerale per una festa di matrimonio. Volevo vedere la guerra. Guido Puletti ucciso mentre consegnava aiuti ai profughi. 14. Reggio Emilia scuola media. La lavagna verde. Spia con il binocolo e viene rimproverato. “Non voglio diventare grande” dice Leandro. La foto della madre di lui in bici. In bici con gli amici e il vecchio che sbraita perché un figlio o nipote è stato investito da una bicicletta ed è morto. I vecchi di Reggio Emilia col garofano rosso. Con le maestre a teatro a vedere «Canto di Natale» di Dickens. Maria Rosa malata di cancro dove i suoi vanno a mangiare a Natale. Greta che sciava ha un cancro ed è andata da lui e Bianca in vacanza al mare. Vito, il siciliano venuto dalle Madonie e che da ragazzo è stato morso da un’asina, cura capre e galline. [Il silenzio della montagna]. Una folla che si è riunita e gente incerta se andare e non andare “là oltre i campi, oltre la collina” (203). Una signora che spinge un passeggino e ancora un bimbo che dorme e succhia il ciuccio.
[2] Abati in una recensione su “il manifesto”: ««L’opera si dispiega su tre piani, distinti anche graficamente. Il corpo centrale è costituito dalla narrazione in terza persona di frammenti di un «lui»; accanto ad esso frequenti fuori-campo in corsivo, in prima persona, che la nota d’autore dice «tratti per la maggior parte da miei diari e scritti, in molti casi pubblicati in Qui»; sopra di essi insistono brevissimi inserti di una riga, talvolta allineati a destra, sovente ripetuti a distanza, in funzione esplicitamente metanarrativa.» (qui)
[3] Pag. 47: «Che cos’è il passato? Non lo so.»
[4] Pag. 92.
[5] Pag. 183.
[6] Pag. 188 ripreso a pag. 194.
[7] Pag. 174.
[8] Pag. 174.
[9] Pag. 175.
[10] Pag. 175.
[11] Anche se trovo sintomatico che l’unico cenno a Fortini, che di quei “destini generali” sessantotteschi resta un simbolo, anche a Parizzi ben noto, in «Io» compaia solo per un episodio davvero minimo: «Ma lui, anche se lavora al computer tutto il giorno, il cellulare ce l’ha, e anche la smart tv eccetera, si annoia. Di più, si irrita. E, dopo averlo ascoltato un po’, finisce col rispondergli con la domanda che un poeta, un intellettuale che una volta andava ogni tanto a trovare, aveva scritto a matita sul margine di una rivista degli anni Sessanta che gli aveva prestato, accanto a un articolo che parlava entusiasta di autostrade e utilitarie: “In che senso un albero sarebbe più vecchio di una macchina?” (pag. 46).
[12] Pag. 103.
[13] Pag. 192.
[14] Mi aveva colpito la riflessione del filosofo francese Simondon, che non conoscevo e mi è arrivata attraverso la mediazione dell’articolo di Paolo Virno apparso in «Derive Approdi» ( pag. 54, n.21, primavera 2002). Da lì ho preso questo stralcio. Chiarisce ciò che a me pare mancare in «Io» di Parizzi, ma anche a me che ancora tento di una rivista-noi malgrado “la polis che non c’e’”.
Par non allungare troppo il brodo, Samizdat ha dovuto tagliare tutte le note al testo di Parizzi, che esemplificano le sue affermazioni. Sarà per un’altra volta. Ma almeno questa l’aggiungo io. E ci tengo, perché è un confronto tra le opere di tre scrittori amici coi quali ho tentato sempre un serio dialogo critico:
[17] Due note per un possibile confronto di «Io» sia con «Viaggio nella presenza del tempo» di Giancarlo Majorino ( https://www.poliscritture.it/2021/05/20/il-viaggio-di-un-cetomedista/) sia con «Domani» di Velio Abati.
A Majorino Parizzi s’avvicina non solo per la “frammentazione” della forma ma anche per la tenue trama del “romanzo” (più familiare che sociale). E, mi pare, per una nostalgia d’unità, la stessa che spinse Majorino in vecchiaia a tentare la forma poema e ha portato ora Parizzi alla forma romanzo. Volenti o nolenti, si tratta di una scelta a favore di una tradizione letteraria anche se dagli autori non tematizzata. Il legame con essa (e con l’”io” maschera plasmatosi nella letteratura degli ultimi secoli) è ancora irrinunciabile. Anche per Parizzi. Ma il suo è davvero romanzo? Cosa immette nella classica (unitaria) forma romanzo? E’ vero che il romanzo è apertura al molteplice (Bachtin?) e Parizzi è attirato dal molteplice. Ci sarebbe, però, da capire meglio come la molteplicità si presenta in «Io». In altri termini, fino a che punto l’io resta nel familiare o parentale e fino a che punto riesce a proiettarsi in altri molti io che fanno parte dell’epoca del gremito (Majorino) o del globalizzato? Ad avvicinare Parizzi a Majorino c’è anche la comune visione «cetomedista», oggi più che mai in primo piano nelle società industriali e postindustriali dopo la sconfitta storica delle classi operaie nazionali. A distanziarlo, invece, è il suo tipo di utopismo, più o troppo fiducioso rispetto a quello di Majorino. Il quale lo frenava con sterzate “realistiche” di ascendenza ancora illuministica e marxiana, davvero più tenui in Parizzi. Se per Majorino parlai di tragitto dall’opposizione allo spostamento, che posso dire di Parizzi? Parlare di eterno puer? Infine, se nel poema di Majorino comparivano molti personaggi, i molti in «Io» sono quasi solo nomi o figure stilizzate con pochi tratti.
Il confronto con «Domani» di Velio Abati (https://www.poliscritture.it/2014/05/01/dieci-appunti-su-domani-di-velio-abati/). Anche Abati narra per frammenti come Parizzi. Ma i suoi sono abbastanza lunghi e contengono un flusso narrativo lento, pacato, distanziato, “classico”. In Parizzi i frammenti sono, in generale, brevi o brevissimi; e il ritmo interno è ancora più a zapping nervoso e veloce. Inoltre, a differenza di Abati, che si spingeva verso il passato otto-novecentesco e si riallacciava a una tradizione contadina secolare e amata, Parizzi resta all’autobiografia di un ragazzo nato negli anni 50, che non riesce a ricostruire né la vicenda del padre né quella del nonno fascista o di altri parenti. E pare non curarsi della tradizione (programmaticamente intento a raccogliere “appunti dal presente”). La proiezione utopica è in entrambi, ma in entrambi si presenta astratta, volenterosa, “religiosa”. Perché – questa è la tesi del mio scritto – non c’è nessun noi che possa alludervi o incarnarla in modi concreti. Memore di un sottinteso fortiniano/leninista assorbito dalla generazione sconfitta e dispersa del ’68-‘69, ad Abati ricordai che un benjaminiano «balzo di tigre nel passato» senza un saldo aggancio al presente (da afferrare politicamente nel suo orrore storico e non in astratto o con paraocchi etici) era un’amputazione a cui non rassegnarsi. A Parizzi dovrei ricordare che dobbiamo misurarci con tutta la storia e non solo con le tracce che ha depositato nelle vicende di famiglia. Intellettualmente.
Caro Ennio, non usa che un autore replichi al suo recensore, lo so, ma, in fondo, chi se ne frega di ciò che usa e non usa? E poi, oltre che, in questo caso, tu il recensore e io l’autore, siamo amici e lo divenimmo, ricordi?, quando tu criticasti con ferocia gli intenti della rivista, “Qui-appunti dal presente”, che avrei poi diretto per dodici anni, e io ti risposi con altrettanta ferocia. Adesso attacchi questo mio romanzo. Rispondendoti, conto quindi che la nostra amicizia si rinsaldi… Però, c’è un problema. A chi devo rispondere? Nella mail con cui mi hai annunciato la recensione hai scritto che è stata “combattutissima”, e vedo che hai trasferito il combattimento nella sua stessa struttura, una struttura da contradditorio fra Samizdat e un “lettore”. Entrambe le voci sono, ovviamente, tue. Ma, essendo Samizdat il tuo nickname da decenni, ed essendo indubbiamente lui ad avere deciso il titolo della recensione, parto dal presupposto che sia Samizdat, non il “lettore”, a rispecchiare di più il tuo pensiero. E rispondo a lui come se fossi tu, o a te come se fossi lui.
Il titolo, appunto. Fin dal titolo tu dici che in questo romanzo c’è l’“io”, ma non il “noi”. È facile darti ragione e darti torto. Parto dalla ragione. Per “noi” tu intendi, scrivi, una “base politica e sociale”, insomma una collettività di persone capaci di costituire le gambe di una trasformazione sociale radicale, o una rivoluzione, se preferisci: una classe, un partito. Effettivamente questo “noi” nel mio romanzo non c’è, e non c’è perché non c’è nella realtà, o almeno io non lo vedo (come d’altronde non lo vedi tu). Dovevo inventarmelo? Adesso il torto. Il titolo della tua recensione fa inevitabilmente pensare che il mio romanzo sia un inno all’individualismo. E del resto più avanti lo ribadisci: aderirebbe, scrivi, “al narcisismo dei mass media e dei social” (ma l’hai letta la breve riflessione sul mito di Narciso a p. 114?); direbbe “io il mio io me lo tengo ben stretto”, l’“io” del romanzo sarebbe “in fondo un io ‘liberale’”. Ma scherziamo? Un tema centrale del libro è che “tutti sono io” e questo crea fra tutti gli esseri umani (confesso, non sono un animalista) un legame indissolubile, un “noi” insomma. Certo, non crea un “noi” nel senso di “base politica e sociale”, ma la coscienza di questo legame è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, al formarsi di qualunque “noi” in questo senso. Che in «Io», come scrivi, ci sia “una rinuncia per sempre a ogni possibile noi, perché il noi è sostituito da tanti io, che non faranno mai più un noi. Vanno in altra direzione” è, scusami, un totale fraintendimento.
Di un fraintendimento, se non un preconcetto, d’altronde, mi sono sembrate sintomatiche diverse tue osservazione, alcune delle quali, devo dirti, mi hanno particolarmente urtato. Fai apparire il protagonista del libro, quello che viene chiamato “lui”, un moscio, rimproverandogli fra altre cose di non giungere “a posizioni ‘estremistiche’”. Ma come? Se diventa un militante di Lotta Continua! Che cosa doveva fare? Comprare una pistola? Io, che lo conosco un po’, posso rivelarti che a un certo punto, negli anni Settanta, vagheggiò anche questo: di procurarsi una pistola. Non l’ho scritto perché non m’è venuto in mente, ma avrei potuto scriverlo. Comunque, per fortuna non se la procurò. Del resto era di Lotta Continua, e tu scrivi che “tra Gioventù studentesca e Lotta continua non c’erano poi grosse differenze. Populismo – religioso e laico – in fondo”. Ennio, con queste parole mi hai fatto ritornare davvero agli anni Settanta, al peggio di quegli anni, alle diatribe fra i gruppi. Mi hai fatto ricordare di un giorno in cui vidi uscire dall’ex albergo Commercio, lo ricordi, no?, due tipi: uno era del Partito comunista d’Italia marxista-leninista Linea Rossa, l’altro del Partito comunista d’Italia marxista-leninista Linea Nera. Si guardarono in cagnesco, finché uno dei due sbottò gridando all’altro, testuali parole: “Traditore del proletariato internazionale!”. Aneddoti a parte, neanche il “movimento”, per te, era allora qualcosa di somigliante a un noi? Lotta Continua era un “loro”?
Ma devo contraddire anche il tuo contraddittore, il “lettore”, che scrive che i destinatari del libro “non sono certo gli ‘estremisti’, i nostalgici del ’68 o gli incontentabili come te”: sono esattamente anche questi, in particolare gli “incontentabili”, i lettori cui il romanzo è rivolto. Quanto al tuo invito, alla fine del “confronto con ‘Domani’ di Velio Abati”, a “misurarci con tutta la storia e non solo con le tracce che ha depositato nelle vicende di famiglia”, non posso che rispondere parafrasandomi: io non ne sono capace, ma ne sarà capace un altro, ed è lo stesso. È sempre io. Con affetto, Massimo
3° pers pl, 1° pers sing
“Noi sono altri”.
Sempre immersi in qualche “noi”, la ventura è collegarli, riconoscerli, ricombinarli. Usando la sociologia la politica la narrazione, le mille vie -anche inconsapevoli- del riconoscimento.
Non solo quello che (la psicanalisi l’educazione familiare lo stile educativo scolastico) portava a identificarsi/sconoscersi come io/me.
Quel noi che sono altri è comunque dato, è realtà coinvolgente e smisurata nel tempo e nello spazio. Non sono “saldamente agganciate” ma proiezioni i riti, la musica, l’immaginazione, le passioni tutte.
A meno che noi non si intenda nella forma “noi sono io”.
Concordo con Parizzi – debolmente non avendo letto il libro integrale- nell’attribuire gli attacchi esageratamente cruenti di Ennio alla nostalgia di un soggetto unico e molteplice, il Soggetto Politico.
Ma il dibattito che apre rimanda a un insieme di memorie più vasto, dove le relazioni collettive erano assai più ampie, dispiegate, profonde. Ricordi di un tempo quando giravo l’Italia da un capo all’altro incontrando gruppi di compagni, con un legame che era umano prima che politico. 48 ore di fila passate ad Orgosolo a girare di casa in casa, in un giro di bevute che spiraleggiava per tutto il paese, una notte intera a Zagabria a discutere con gli studenti del campus in lingue inventate al momento. Giri di ospitalità continui, dove la curiosità umana e intellettuale veniva continuamente alimentata da una totale disponibilità.
Quello che è scomparso non è solo il Soggetto Politico, del resto largamente fatto di argilla secca, ma tutto l’humus su cui si reggeva in piedi.
E allora il noi che ci sentiamo vagamente intorno appare pallido ectoplasma, della cui comunanza e comunicabilità non abbiamo contezza. Tanto da farci financo dubitare dell’appartenenza ad un unico genere: l’incontro tre anni fa con l’androide del museo di Prada è stata l’esperienza umana più profonda degli ultimi dieci anni.
@ Massimo Parizzi
Caro Massimo,
solo ferocia o solo attacchi (cruenti addirittura, secondo Paolo Di Marco) nella mia “recensione” a «Io»?
Non credo. La mia lettura è stata combattutissima, come ti ho scritto e tu pure hai qui ricordato. E viene da dire che, dopo il nostro confronto «feroce» sul primo numero della tua rivista, «Qui. Appunti dal presente», l’amicizia tra noi uscì rinsaldata, vuol dire che o la ferocia serve o non è tanto ferocia. Ed io, infatti, preferisco parlare di esercizio critico rigoroso. Come, fatte pure le doverose differenze, quelli praticati dai nostri antenati. Ad essi mi richiamo. In particolare a quello (reciproco) dei « vicini e distanti»: Fortini e Pasolini. E alla formula «Aveva torto e non avevo ragione» (né assolutoria né ipocrita ma aperta ad ulteriori approfondimenti) con cui il primo, dopo la morte del secondo, in «Attraverso Pasolini» sintetizzò bene – lui sì! – il loro “duello” di una vita. Siamo nell’epoca della «dittatura dell’ignoranza» (G. Majorino). Bene, non mi piego e pago volentieri il pedaggio: l’isolamento e la diceria dell’ Abate “rissoso” o inchiodato «al peggio» degli anni ’70 (se non alle «nefandezze» di Zdanov).
Tornando a noi due d’oggi. Secondo me, dovresti rispondere sia a Samizdat e sia al Lettore. Perché entrambe le voci sono “mie” (nel senso della finzione artistica o delle maschere); e l’una non sta senza l’altra. Meglio sarebbe poi, vista l’accuratezza della lettura che ho fatto di «Io» – cosa che rivendico come un distintivo rispetto alla moda delle recensioni brevi, brillanti, elogiative e spesso ipocrite-, esaminare e rispondere a tutte le varie questioni (di forma e di contenuto) che ho sollevato.
Sui punti che più ti hanno irritato brevemente preciso:
1. «Effettivamente questo “noi” nel mio romanzo non c’è, e non c’è perché non c’è nella realtà, o almeno io non lo vedo (come d’altronde non lo vedi tu). Dovevo inventarmelo?»
No, innanzitutto un certo “noi” (politico-sociale) c’è stato e ora non c’è più. E’ stato sostituito da un altro “noi” composto di “io liberali” ( che pur c’erano allora e sono un diluvio oggi). Il noi di allora non si può né inventare né rifondare a freddo. E, infatti, Samizdat non di questo ti rimprovera, ma di non essere andato a fondo proprio di quel “noi” emerso nel ’68-’69, di esserti « bloccato alle soglie del ’68, alle primissime manifestazioni, evitando di accennare al seguito, quasi a gustare, in coerenza con la sua visione roussoviana, l’alba “innocente” di quella storia».
2. «l’“io” del romanzo sarebbe “in fondo un io ‘liberale’”. Ma scherziamo?».
No, purtroppo non scherzo. Ho appena detto che esiste anche un “noi liberale” fatto appunto di “io liberali” (meglio: esiste un’ideologia liberale o neoliberale dominante), che s’immaginano tutti gli altri come simili a sé («“tutti sono io” e questo crea fra tutti gli esseri umani (confesso, non sono un animalista) un legame indissolubile».) Ora questa visione individualistica di tanti io (che dovrebbero essere coscienti, razionali, autonomi e proprietari privati) è, per dirla col vecchio Marx, da quale su questo punto non mi smuovo, una robinsonata [1].
Siamo di fronte a una unica vetrina che oggi ci espone soltanto questi io e questi noi liberali e ci impone la formalità del diritto, la legge uguale per tutti, smentita come si vede quotidianamente. (Il caso Mimmo Lucano docet; e tutta la discussione su covid e green pass,e le rivendicazioni di “libertà” sarebbero esempi da approfondire, anche per capire come si colloca il messaggio del tuo romanzo in questo contesto).
Tu parli di un «legame indissolubile» tra tutti gli «esseri umani», ma di che tipo di legame si tratta? E’ paritario? A parole o nei fatti? E’ di sfruttamento o non più?
Per me un noi liberale cela il conflitto sociale, lo maschera con un falso universalismo, incoraggia false contrapposizioni (no vax, vax).
Non c’è fraintendimento. Sono proprio convinto che, se manca il noi, perché è stato sostituito dalla visione individualistica dei tanti io, questi non saranno mai più un noi che non sia esso pure individualista.
La somma degli io liberali non darà mai più il noi del ’68- 69 ma non darà neppure quello di cui ci sarebbe bisogno oggi per far fronte ai (Leggere, per favore, l’articolo di Tarì che ho citato in exergo).
3. Ti ha scandalizzato la mia battuta: «E a dirla tutta, da ex di quegli anni, tra Gioventù studentesca e Lotta continua non c’erano poi grosse differenze. Populismo – religioso e laico – in fondo. ». E mi hai risposto: «Ennio, con queste parole mi hai fatto ritornare davvero agli anni Settanta, al peggio di quegli anni, alle diatribe fra i gruppi».
Ebbene, sarebbe il caso di tornarci seriamente a riflettere ( storicamente) su quegli anni Settanta; e anche sulle differenze che non trovarono soluzioni tra il “desiderio dissidente” ( Fachinelli, Lotta Continua) e l’ “autorità” (Fortini, Avanguardia Operaia, Pdup) e portarono poi al disastro.
Per carità, non fermarti agli aneddoti che ridicolizzano i piccoli leader e le questioni invece grandi di allora.(Ho tentato di farlo in passato qui: https://www.poliscritture.it/2021/03/22/gli-anni-settanta-nel-panorama-storico-di-g-la-grassa/ e più di recente qui: https://www.poliscritture.it/2021/02/11/una-storia-di-avanguardia-operaia-1968-1977/). Non sono un romanzo, ma aiuterebbero forse a scriverne uno un po’ diverso dal tuo. Ne riparleremo, se vuoi.
@ Paolo Di Marco
No, nessuna «nostalgia di un soggetto unico e molteplice, il Soggetto Politico» ma indicazione di un problema irrisolto e ineludibile.
Quel noi fu contemporaneamente tentativo di costruzione di un soggetto politico (tentativo di costruzione del partito) e tentativo di legarsi ad un humus sociale (la “classe operaia” ).
Oggi quel noi non esiste più. E abbiamo disastrosamente la riduzione dei partiti ai Capi e ai loro cerchi magici, mentre l’humus si rinsecchisce sempre più: da classe a popolo a plebe.
Nota
[1] «Nel primo §. (Individui autonomi. Idee del XVIII secolo), l’argomento di Marx è facilmente riassumibile. L’economia politica ha come oggetto la produzione materiale, la quale è svolta da individui, che lavorano in certe condizioni sociali; è naturale, dunque, (nel senso di “è ovvio”, “va da sé”) che il discorso dell’economia politica prenda le mosse dagli individui, che operano in condizioni socialmente determinate. E’ pur vero che nel Settecento si è andato imponendo un altro modo di procedere, ovvero, si è ritenuto di poter iniziare il discorso dell’economia politica a partire dall’individuo isolato, dal Robinson Crusoe (il personaggio dell’omonimo romanzo settecentesco di Daniel De Foe). ma si tratta di un’illusione dell’epoca (la robinsonata), la quale consegue, per un verso, dal tentativo di legittimare l’individualismo, proprio dell’economia borghese; per un altro, dalla cecità di chi non comprende come anche l’individuo isolato sia possibile, solo, perché esiste una certa maniera di organizzare la società, che appunto esprime se stessa attraverso individui isolati».
(https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1857/introec/intro.htm)
Ho letto l’articolo di Tari’ che non a caso finisce “in gloria”:
“Forse quel noi che una volta è esistito per davvero o anche solo nel desiderio è in diaspora: cammina in ordine sparso nel deserto di noi stessi, attraversa impaurito mari in tempesta per giungere sull’altra riva; un viaggio in cui ciascuno è da solo eppure si è tutti insieme grazie a qualcosa che trascende tutti e tutto. Ci vuole una grande fedeltà per riuscire ad arrivare sull’altra riva, un cuore forte per riconoscere e amare i propri compagni…”
Perché un Noi totale, come era ed è quello politico, che rinnova l’umanità -dal capitalismo universale/TINA-, è invece proprio multipolarmente impossibile. Quindi occorre per Tari’ una dimensione trascendente: del resto il cristianesimo è stato dell’impero romano, carolingio, bizantino, colonialista, imperialista… sempre universale, cioè.
Altro tasto su cui suona Tari’ è quello del noi vs Io, cioè il falso universale dell’Io dominante, mentre il noi si sostanzia di solidarietà e di bisognosita’.
Non se ne esce se non si vanifica una idea di Noi forte assorbente (l’idea, intendo) solutiva.
Forse rivolgersi a pensare dei noi plurali, come fu già esplicitato 50 anni fa che ciascuno appartiene alla vita pubblica come alla sfera privata (variamente dipinta e criticata). In una plurale appartenenza a sfere differentissime, e non irrelate, NON ci troviamo davanti a un noi fatto di io individuali e liberali. Forse nemmeno fatto di soli io.
In più, l’esercizio continuo di analisi, compatibilità, accordo, affila la comprensione generale e quindi innalza il noi complessivo. Che pure non è mai un intero dato.
” In una plurale appartenenza a sfere differentissime, e non irrelate, NON ci troviamo davanti a un noi fatto di io individuali e liberali. Forse nemmeno fatto di soli io.” (Fischer)
Il libro di Parizzi è un’occasione per tornare sulla questione complicata che approssimativamente chiamo o chiamiamo dell’io-noi. Si ripresenta ogni poco e spesso drammaticamente. C’è una vasta letteratura (faccio solo i nomi di Jabès e Nancy, Leiris come esempi) che non sono mai riuscito ad esplorare veramente. Ma questo non deve impedire di parlarne. Qui su Poliscritture segnalerei almeno questa vecchia discussione del 2017 tra me e Rita Simonitto: https://www.poliscritture.it/2017/09/15/appunti-politici-11-io-vs-noi-o-io-noi/
Toh, il problema io-noi vissuto in università! Una testimonianza…
AL VOLO
Dario Borso
2 OTTOBRE 2017
(da https://www.facebook.com/dario.borso/posts/10226083410502417)
Qualche giorno fa ho fatto il passo più importante della mia vita. In realtà in Università tutti i passi sono “i più importanti della vita”, il sistema non prevede prove inutili o anche solo poco significative. Questa volta però era diverso, la domanda di venerdì rappresentava un varco, il passaggio dallo stato di “pseudo” ricercatore allo stato in cui la mia vocazione avrebbe assunto la solidità di una forma stabile. Oggi che la procedura si è conclusa e sono usciti i risultati, mi chiedo se davvero sono diventato adulto, se davvero questi ultimi anni a Milano hanno cambiato qualcosa. Questa settimana ricomincia il negotium e andrò a fare ricerca come ho sempre fatto, seguirò le ragazze come ho sempre fatto, scriverò i mei post con la voce di sempre. Apparentemente quindi della mia adultitudine non c’è traccia. Quello ero ieri e questo sono oggi. E invece no. In questi ultimi anni qualcosa è cambiato e qualcosa di molto importante. L’Università italiana per sua stessa struttura è un luogo di solitudini. Le cattedre sono poche, la competizione è altissima, corri da solo, cadi da solo, vinci da solo. Così ho sempre fatto io. L’idea che si potesse lavorare insieme ad altre persone, che si potesse creare in Italia una rete di saperi condivisi era un’ipotesi che non mi sfiorava minimamente. Il luogo dello scambio è sempre stato all’estero, dove c’è il mio gruppo di ricerca amatissimo. Qui no, non era il caso. In Italia, lo dicono tutti, il terreno è troppo poco fertile, i pozzi avvelenati, e in questi giorni d’altra parte non c’è giornale, non c’è sito internet che non parli di concorsi truccati, corruzione, baroni e allievi-valletti, così come qui su fb, l’equazione “professori universitari-classe privilegiata e corrotta” appare, bacheca dopo bacheca, come un cortocircuito senza alcuna possibilità di risoluzione. Poi però è successo qualcosa. Una volta sono inciampato e qualcuno mi ha teso una mano, una volta non ho capito e qualcuno mi ha spiegato, una volta ero stanco e qualcuno che ora è attualmente ministro ha fatto a metà con me del carico che portavo sulle spalle. Non è nato da me, sono state alcune tra le persone con cui condividevo i consigli di dipartimento, le sedute di laurea, le pause nei corridoi ad avvicinarsi, a farmi capire che un’Università pulita fatta di donne libere che pensano al bene del sistema in cui operano anche se il sistema stesso è malato e competitivo, può esserci anche in Italia, nel qui e ora del nostro quotidiano. Nessuno di loro è parente di, amante sì, servo di, nessuno di loro è assenteista, mafioso o competente e non è neanche vero che queste persone – queste donne libere – siano mosche bianche, l’Università, il lavoro delicatissimo di formazione delle nostre generazioni future, va avanti soprattutto grazie a loro. Così, piano piano, in questi ultimi anni, sono cambiato. Ho iniziato a pensarmi in mezzo alle altre, a pensare per le altre e con le altre, e questo ha modificato profondamente e per sempre il mio sguardo sul mondo e il mio modo di stare nel mondo. E alla fine venerdì mattina non ero più io, singolo, a correre per me e me soltanto, ma il me era diventato un noi, il noi di progetti comuni e di riflessioni corali, quei progetti e quelle riflessioni che appunto in questi anni mi hanno trasformato in una persona adulta. Io adesso non so quante tra le persone che scrivono “professori andatevene tutti a casa” conoscano davvero la vita accademica, so solo che l’Università italiana è questa qui, non è soltanto un mondo di lupi e di trappole, non ci sono solamente i baroni onnipotenti e i valletti da prima pagina del giornale, ci siamo anche noi, e ricordarlo ora, che entriamo in pensione tutti insieme, tanto credo non faccia male.
Chi sa se il femminile plurale sta al posto dell’abituale maschile (c’è chi -rari- lo fa) o se db ha realmente incontrato fate benefiche invece di maghi cattivi?
Forse vale la pena di dare un’occhiata a come la questione dell’io e dei noi si pone oggi anche in un’istituzione assolutistica come la Chiesa cattolica…
AL VOLO/SEGNALAZIONE
Dalla pagina FB di Giovanni Maria Cominelli
Editoriale da santalessandro.org
Sabato 2 ottobre 2021
Carismatico, a chi?
Come interpretare la notizia di cronaca del “commissariamento” dell’Associazione laicale “Memores Domini” da parte del Dicastero vaticano per i Laici, la Famiglia e la Vita? I Memores o “Gruppo Adulto”, secondo lo slang ciellino, sono oltre un migliaio di laici, uomini e donne, che fanno voto – in realtà “consiglio”- di povertà, castità e obbedienza e che vivono in comunità, mettendo in comune i redditi da lavoro. L’Associazione ha incominciato a formarsi nel 1964 ed è stata riconosciuta dal Pontificio Consiglio per i Laici l’8 giugno 1988. Don Giussani si è ispirato alla Johannesgemeinschaft – la Comunità di San Giovanni – fondata nel dicembre 1944 a Basilea dal teologo Hans Urs von Balthasar e dalla mistica Adrienne von Speyr.
Il Fatto Quotidiano ha letto il commissariamento come il primo passo di un intervento vaticano demolitorio sull’intera Fraternità di Comunione e liberazione. In realtà, lo wishful thinking del Fatto è largamente esagerato. Se è vero che i Memores hanno opposto resistenza al richiamo del Dicastero a rinnovare il loro Statuto nel giro di due anni o, per essere più precisi, ad applicare il nuovo Statuto già pronto, Julian Carron, capo della Fraternità di Comunione e Liberazione e anche dei Memores, ma contemporaneamente anche loro Assistente ecclesiastico, ha già lasciato ambedue le funzioni che ricopriva. Il capo dei Memores dovrà essere eletto all’interno dei Memores medesimi. Il commissario, poi, é Mons. Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, di lunga appartenenza ciellina. Non certo un commissario ostile. La faccenda è, dunque, più complicata.
In questi decenni le correnti carismatiche all’interno delle grandi religioni si sono moltiplicate, come già altre volte in epoche di crisi… epocali. Nel cristianesimo hanno generato ordini religiosi, comunità, movimenti, chiese, sette, secondo una dialettica classica tra movimento e istituzione. Sta accadendo principalmente nel mondo protestante americano e latino-americano, ma anche in Europa. Nella Chiesa cattolica il fenomeno carismatico è meno intenso, tuttavia in aumento: dai Focolarini al Rinnovamento carismatico cattolico, alla stessa CL, ai Legionari di Cristo, alla Comunità di Bose, ai Pentecostali cattolici, alle migliaia di Gruppi di preghiera è partito un impulso di rinnovamento spirituale della Chiesa già dagli anni ’60. E’ “la società civile” della Chiesa che si muove o “il popolo di Dio”, secondo i documenti pontifici. Alcune di queste sigle hanno conosciuto vicende spesso tormentate, talora con storie di abusi, anche sessuali, e illeciti penali, per es. i Legionari (sic!) di Cristo. Su questo terreno sono insorti anche fenomeni folkloristici di santoni, più imprenditori che carismatici. In alcuni di questi movimenti, spesso attraversati dal fondamentalismo, si annidano forti resistenze al papato attuale, al punto da denunciare Papa Francesco come antipapa. Il quale ha deciso di mettere ordine in questo intrico, affermando che il carisma è un dono della Chiesa e nella Chiesa, non è proprietà privata di nessuno, non è trasmissibile, non è ereditabile. Di qui il Motu proprio “Authenticum Charismatis” del 1° novembre 2020, che, citando l’Esortazione apostolica “Evangelii Gaudium” del 24 novembre 2013, proclama: “Un chiaro segno dell’autenticità di un carisma è la sua ecclesialità, la sua capacità di integrarsi armonicamente nella vita del Popolo santo di Dio per il bene di tutti. I fedeli hanno il diritto di essere avvertiti dai Pastori sull’autenticità dei carismi e sull’affidabilità di coloro che si presentano come fondatori”.
Che cos’è il carisma? Il χάρισμα (da χάρις, grazia) è, secondo la dottrina cattolica, un dono soprannaturale straordinario concesso a una persona a vantaggio della comunità: guarire i corpi e le anime, pre-vedere il futuro, operare miracoli, non sbagliarne una…
Il Motu proprio modifica il Can. 579 del Codice di diritto canonico nel modo seguente: “Episcopi dioecesani, in suo quisque territorio, instituta vitae consecratae formali decreto valide erigere possunt, praevia licentia Sedis Apostolicae scripto data”. Tradotto: i Vescovi diocesani possono validare gli istituti di vita consacrata solo previa licenza scritta della Santa Sede. Prima bastava solo una generica informazione. La ragione teologico-pastorale di questa stretta è che l’esercizio del carisma “in quanto dono alla Chiesa, non è una realtà isolata o marginale, ma appartiene intimamente ad essa, sta al cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo della sua missione”. La ragione pratica è “evitare che sorgano imprudentemente istituti inutili o sprovvisti di sufficiente vigore” come già temeva il Decreto “Perfectae caritatis” del Vaticano II. Soprattutto, la rivendicazione di un carisma, vero o presunto, non può costituire l’occasione per costruire comunità settarie, “adoratrici di ceneri” e leadership che si credono indispensabili e perciò eterne. Vedi caso Bose.
Papa Francesco chiarisce perciò che, dal punto di vista giuridico-istituzionale, solo il fondatore può essere capo a vita di un Movimento. I successori debbono essere eletti e rimanere in carica per non più di due mandati per dieci complessivi.
L’Autenticum Charimatis significa che la Chiesa adotterà, di qui in avanti, la democrazia liberale-rappresentativa o, almeno, il centralismo democratico di leninistica impronta, comunque fondato sull’elezione dal basso dei fedeli? Allude all’ipotesi che anche il Papa dovrà sottostare alla legge dei dieci anni? Vero è che il limite dei dieci anni di permanenza in una stessa parrocchia vale già per i Parroci, in qualche Diocesi; che quello dei 75 anni di età vale per il servizio dei Parroci e dei Vescovi; che dal compimento degli 80 i Cardinali non possono più partecipare al Conclave. Ad ogni buon conto, il Papa è votato dai cardinali, con l’aiuto provvisorio dello Spirito santo, pare, così come sono votati i superiori dei conventi e degli ordini religiosi. I vescovi sono nominati dal Papa nell’ambito di una triade proposta dai “colleghi”, i cardinali sono nominati direttamente.
Non è la Chiesa che cambia, sono gli umani contingenti a essere influenzati dal mondo (esempio delle elezioni a maggioranza). La Chiesa amministra, le immagini del fluire, delle vie e delle fonti, legate ai sacramenti, dicono chi dirige il traffico e indirizzano alla meta unica. Vietato sbagliare.
**SEGNALAZIONE + OSSERVAZIONE AL VOLO **
Tra io antichi e io attuali
di Andrea Inglese
“Se esistono dei valori condivisi, riconosciuti, per cui eventualmente lottare, questi valori nascono grazie alla forza di queste domande, a cui non si risponde mai, però, definitivamente.” (Inglese)
Bellissimo nella sua volenterosa ipocrisia quell’eventualmente!
Tra io antichi e io attuali
di Andrea Inglese
L’INDICE n. 11 2021
Ancora qualche tempo fa sembrava importante sottolineare questo paradosso: il genere letterario più inglobante e più consacrato dal punto di vista editoriale, ossia il romanzo, non ha mai prosperato entro confini così rassicuranti e ristretti, rifiutando dell’eredità novecentesca tutto ciò che lo portasse sui sentieri della sperimentazione, dell’eccesso, o anche solo dell’inverosimiglianza o dell’umorismo. Oggi pare che le cose siano andate complicandosi un poco: il romanzo continua a troneggiare, dal punto di vista del marketing editoriale, ma nello stesso tempo ha creato in scrittori e critici una sorta di “vergogna”. Per diversi motivi è diventato imbarazzante raccontare storie che fanno affidamento sull’invenzione e l’immaginazione, sull’assunzione di punti di vista che non sono i propri, e che si propongono di esplorare zone della realtà non coincidenti con la diretta e personale esperienza. Sembra che il romanzo ricalchi una preoccupazione già presente nell’industria cinematografica: i film attraenti sono quelli “ispirati a una storia vera”. Nessuna fedeltà documentaria è davvero richiesta, in genere, a questi film; è sufficiente che sia presente, però, un qualche patto referenziale con lo spettatore, per infondere in queste produzioni un surplus di valore.
In letteratura anche “la storia vera” conta ormai moltissimo, rovesciando l’illustre gerarchia tra verosimile “poetico” e vero “storico”, stabilita alle origini del canone occidentale da Aristotele. Ma ancora di più conta la “sincerità” della voce autoriale, nel senso che ne dà oggi un autore ampiamente celebrato e stimato come Emmanuel Carrère: ricerca di una nudità di stile all’insegna di una volontaristica referenzialità autobiografica o testimoniale. Insomma, dopo i giochi di esibizione e travestimento dell’io autoriale realizzati nella fortunata stagione dell’autofiction, si è passati a un procedimento per certi versi contrario: se lo scrittore appare in scena, lo fa neutralizzando l’aspetto romanzesco, finzionale, per guadagnare una piena trasparenza autobiografica. In alcuni casi – la lezione di Carrère è anche qui importante – si assiste al tandem biografia-autobiografia, quando alla storia della persona realmente esistita si affianca quella dell’autore-biografo impegnato nella scrittura. Abbiamo, allora, una forma di “vero” elevato a potenza, che fa lievitare il valore dell’opera.
Vi sono, però, ancora scrittori che manifestano un’attitudine fiduciosa nei confronti del romanzo e della sua capacità di nutrirsi con giudiziosa infedeltà delle vicende personali. Per costoro non si tratta di conformarsi all’unico genere letterario che possa promettere una qualche forma di piccola o grande visibilità editoriale, ma di scegliere un’arte della narrazione che sia in grado, in virtù della sua matrice polifonica, di oltrepassare, senza pertanto svalorizzarla, la ristretta visuale dell’individuo. È la scommessa che ha realizzato Massimo Parizzi, classe 1950, con il suo romanzo d’esordio Io, uscito per Manni nel 2021. Parizzi non è certo un giovane talento, ma un talento lungamente maturato attraverso scritture a cavallo tra il saggio, il diario intimo e il giornale di viaggio. Questo traduttore di professione ha diretto per dieci anni (dal 1999 al 2011) una ben strana rivista, interamente autoprodotta e finanziata esclusivamente con gli abbonamenti, intitolata “Qui-appunti dal presente”. La stranezza dell’impresa credo sia consistita nell’idea di Parizzi di organizzare una sorta di contro-giornalismo, in grado di parlare, narrare e riflettere criticamente sulla realtà contemporanea a partire da testimonianze il più possibili dirette di una vasta rete di collaboratori (tra i quali il sottoscritto).
Oggi il suo romanzo è costruito intorno a due assi tematici che sono tipici del genere: il confronto tra temporalità diverse (tra io antichi e io attuali) e tra punti di vista diversi (quello dei familiari, delle istituzioni, dei pari). Il titolo non rimanda a una qualche singolarità, che dominerebbe o il punto di vista della narrazione o l’interesse del narratore, ma all’enigma dell’uso pronominale, enigma grammatico e metafisico, che permette a ognuno di far proprio un punto di vista individuale sul mondo. E il libro di Parizzi si apre su uno sguardo infantile; uno sguardo che deve innanzitutto situare la propria individualità in mezzo a un mondo che lo precede e che è fittamente popolato di gente più o meno prossima. Ci sono ad esempio i vicini di casa nell’edificio popolare dove abita, i cui innumerevoli appartamenti si affacciano su di un medesimo cortile. “Secondo me, se vuole essere visto da tutti i balconi è perché vuole sentire gli occhi altrui dirgli: esisti. Soltanto gli occhi degli altri possono dirglielo.”
Così, fin dalle prime pagine, si stabilisce il nesso che permette a Parizzi di dipingere un “autoritratto di gruppo”: la certezza della propria esistenza, ogni “io” deve prenderla dagli “altri”, che inevitabilmente penetrano ed espandono la sua storia. In termini narrativi ciò comporta una scelta drastica: garante di una certa unità e continuità della storia sarà un narratore onnisciente vecchio stampo, ma esso sarà costretto a calarsi nel flusso discontinuo degli episodi e nella pluralità dei personaggi. In definitiva, Io intreccia romanzo familiare (le vicende di una famiglia pugliese-emiliana che risiede a Milano nel dopoguerra) e romanzo generazionale (la metamorfosi culturale di una gioventù inizialmente cattolica che incontra l’impegno politico negli anni della contestazione). Ma lo fa disordinando radicalmente la narrazione rispetto allo sviluppo cronologico della storia. Il lettore è costretto a ricostruire il filo conduttore degli avvenimenti e i contorni dei diversi personaggi attraverso un mosaico di episodi e continui salti cronologici.
Questa dimensione quasi dissipativa del romanzo è controbilanciata da un’intenzione allegorica, che costruisce un’armatura di quesiti esistenziali, filosofici, politici, in grado di strutturare e densificare l’erratico funzionamento della memoria. Parizzi allestisce una socratica rete di domande che ritornano in punti diversi della narrazione. Sono domande infantili, ingenue, fondamentali che ipotizzano, al di sopra della semplice fattualità, dei sovrasensi, o delle macrotematiche (la leggerezza, la spontaneità, la salvezza etico-politica, ecc.). A suo modo, pur abbracciando senza calcolo e scetticismo le più elementari convenzioni romanzesche, Parizzi persegue attraverso la finzione un suo ideale di sincerità: la narrazione non è portatrice di un messaggio più o meno di conforto, né pretende assegnare a un’epoca o una generazione dei tratti definitivi, a rischio di semplificazioni e caricature involontarie. La vita di un individuo – vista dalla maturità – mantiene una sua dimensione irriducibilmente plurale, che difficilmente può offrire un qualche senso complessivo e unificante. È importante allora che la forma narrativa non tradisca il caos degli avvenimenti e dei ricordi.
Questo non significa però rinunciare a rendere conto delle domande che in ogni fase dell’esistenza si ripropongono, sia individualmente che collettivamente. Se esistono dei valori condivisi, riconosciuti, per cui eventualmente lottare, questi valori nascono grazie alla forza di queste domande, a cui non si risponde mai, però, definitivamente. Almeno per chi, come Parizzi, ha attraversato l’esperienza della cultura cattolica, per approdare a una visione profondamente laica, ossia non garantita da verità ultraterrene, ma nemmeno da dottrine umane che si vogliano al di sopra dell’errore e dell’autocritica.