Cappella di S. Vincenzo a Casalbarone
Narratorio 1
di Ennio Abate
Stevene a Casebbarone. Cumm’a pullicine[1] dentro un guscio d’uovo. Ievene ca mamme a piere ra[2] Casebbarone a Acquamele o a Saragnano o a Barunisse o a Antessane. Paesini, paesotti. Pochi chilometri di distanza tra loro. Tutti lì i loro spostamenti. Case ogni tanto, campi e giardini. Strade polverose, muretti bassi attorno ae terre re signuri. Altri campi ancora. Di granurine.[3] Toccavano le pannocchie gonfie col pennacchio rossiccio. Piante di pere e mele e ciliegie. Nella casa della nonna stevene. Una tana. Sempe cumm’animalucci. Ma miezz’e ae cugine: Vincenze, Guglielme, Vittorie, Antonie. E ad altri ragazzi della loro età. A Balduccie. E a Rosarie, o figlie e Rusiline. E a Mimì e Michele, e figlie ra berzagliera.[4] E chi chiù? Nisciune chiù.[5] Oh, mondo minimo! Po n’gerene – quacche cinche o sei anne chiù e lore[6] – e cuggine: Checchine, Fortunatine. E mamma loro. E e zie, a nonna e e mamme e l’ati guagliuni. Sfondo di donne per le loro azioni. A loro ricorrevano quando si ammalavano. O se, quando, giocando, si ferivano un dito, un piede, un braccio, la testa, avevano bisogno di soccorso. E poi, nu fridde! E na luce! Ca , malate, verève ra ret’a na feneste.[7] E poi scendeva il buio compatto della notte. E c’era la lotta contro le paure. Per i rumori indecifrabili là fuori. Per i latrati dei cani. Per il vento che scuoteva gli alberi.
Di botto a Salierne. In Via Sichelgaita. Basta con Casebbarone e con la casa di nonna Fortuna. Basta coi cugini. Basta con le stradine che s’insinuavano silenziose nella campagna senza rumori. Lì ci passò sempre a piedi. E qualche volta più tardi – d’estate, durante le vacanze, ai tempi delle elementari e della media – sulla bicicletta dei cugini Alfano. In auto, solo tanti anni.
Via Sichelgaita era un posto nuovo per loro due guagliuncielli, curiosi e spaesati. Il nome della via suonava strano e duro. Si-chél-gà-i-ta. Sì, un nome di principessa normanna.[8] Saputo dopo, tardi, molto tardi. Anche questo ritardo aveva un perché.
Note
[1] Pulcini
[2] Andavano con la mamma a piedi da
[3] Granoturco
[4] I figli della bersagliera (soprannome, forse perché vedova di un bersagliere)
[5] E chi più? Nessuno più.
[6] Poi c’erano – di cinque o sei anni più di loro
[7] Che, malato, vedeva da dietro una finestra
[8] Cfr. https://www.poliscritture.it/2020/06/03/a-principesse-sichelgaite/
Appendice
San Vincenzo a Casal Barone
Il libro è il Vangelo con cui S. Vincenzo invita alla conversione.
(da https://www.facebook.com/baronissinellastoria/posts/2575067549376206)
CAPPELLA DI CASALBARONE
Nella cappella dei santi paffuti
i gatti si rincorrono la coda.
Il vento sfoglia in fretta il messale.
Le cugine ripongono il velo.
( da E. A. Reliquario di gioventù, 1958- 1963)
Tutti lì i loro spostamenti
muretti bassi attorno ae terre re signuri. Sfondo
di donne per le loro azioni. E poi, nu fridde! E na luce!
E na luce!
La vecchia statua andata rubata,
forse non avrei dovuto raddoppiare na luce. Invece
il rejet (e il prima enjambement
con le donne di sfondo: anche la metrica segnala
il fuoco del discorso?) ma la prosa accomoda
parte del discorso che è per ora
altro discorso che poesia non onora: non onora la poesia
che fissa nel tempo ogni crudele
memoria quando sa
riassumere la storia.
“Stevene a Casebbarone. Cumm’a pullicine dentro un guscio d’uovo…Una tana. Sempe cumm’animmalucci:” (E.A.). Mi sembra centrale, in questo racconto, il tema della casa a cui faceva riferimento la famiglia allargata di Ennio…molti i bambini..Sembra la descrizione di un gruppo tutto sommato equilibrato: ai bambini importa poco delle grandi scomodità, allungano la mano e raccolgono frutta dagli alberi, giocano a perdifiato e quando si sbucciano le ginocchia accorrono le tante mamme a soccorrerli. Una casa del sud, matriarcale, sembra, sotto la guida di una nonna…Certo alla sera, pur stretti gli uni agli altri, negli animi infantili si fanno spazio le paure, il freddo…la luce di chi vede e non sogna…
Mi viene spontaneo fare un confronto con la Villa San Venanzio, aristocratica abitazione di una famiglia del centro Italia…Chi vi abita vive una vita ritirata consapevole del suo rango sociale…Il concetto di “proprietà” è dirimente e, come forse direbbe la mamma di Elena, consapevole del valore del mattone…Poi la vita, e non solo la morte, livella…
Mi piace molto soprattutto la prima parte per l’alternanza di dialetto e italiano. Io non sono tanto per l’uso del dialetto, benché capisca la tentazione. Però in questo caso l’alternanza con l’italiano crea una doppia voce, o meglio due voci, che appartengono a due tempi diversi: il dialetto al passato dell’infanzia e l’italiano al presente della riflessione e della scrittura. Il dialetto è la lingua del ricordato, e attraverso il dialetto il ricordato ricompare nel presente. L’italiano è la lingua del ricordante, che assiste al ricomparire del passato, o meglio lo evoca come un mago gli spiriti, ma con una certa tristezza, un’asciuttezza un po’ sconsolata, consapevole di essere lo schermo bianco su cui si proiettano i fantasmi. L’alternanza delle due voci crea un effetto di profondità che non c’è ad esempio nella seconda parte, tutta in italiano (ma è chiaro che non si poteva continuare a “giocarci” all’infinito). Crea una tensione pieno-vuoto, presenza-assenza, immediatezza del fenomeno-distanza della didascalia esplicativa esteticamente molto ricca, secondo me.
ANNOTAZIONI
@ Cristiana
Non interpreto bene: 1. “forse non avrei dovuto raddoppiare na luce”; 2. “il rejet”.
Puoi chiarire?
@ Annamaria
Casebbarone e Villa San Venanzio. Due luoghi del passato distantissimi e forse inaccostabili sia sul piano materiale che antropologico. Equivalenti di Sud e Nord Italia. Non possono non indurre – anche ( e forse) – a scritture distanti e inconciliabili.
@ Elena
Cogli bene il senso che attribuisco all’alternanza di dialetto e italiano: due voci, due tempi diversi. Ma anche – qui sottolineo con forza – due culture e condizioni materiali in conflitto tra loro.
Nel comporre il “narratorio” sono ancora indeciso su quanto spazio deve avere il dialetto (almeno nella primissima parte della ricostruzione storico-biografica che riguarda l’infanzia e il periodo della prima scolarizzazione) rispetto alle parti successive che sono quelle dell’acculturazione all’italiano ( e ai valori trasmessi attraverso l’italiano).
Per me – insisto – tra i due tempi e le due culture c’è conflitto, non semplice diversità. E la gerarchia tra loro, storicamente realizzatasi e innegabile, ancora non l’ho digerita tranquillamente. Non riesco, cioè, a convincermi che in me il dialetto appartenga soltanto al “passato dell’infanzia” e “l’italiano al presente della riflessione e della scrittura”. E sia il ricordato che la riflessione mi si presentano spesso in questo narratorio sia in dialetto che in italiano. Anche tristezza e asciuttezza o immediatezza o distanziamento s’insinuano in entrambi. Il braccio di ferro è continuo e sono spinto a narrare gli eventi ora nel tono elementare, popolaresco e passionale del dialetto ora nel tono intellettuale, razionale, sociale. Come se insistessi a dialogare o a fare i conti ora con certi morti (che parlavano per lo più in dialetto) ora con i viventi ( come qui tra commentatori). Sintesi possibile? Non so. Dialettica negativa? Forse.
Come autore del narratorio penso e scrivo sia in dialetto che in lingua. Certo, non indifferentemente. Ma a secondo del bisogno di esplorare (nel senso della finzione letteraria comunque) degli strati di esperienza arcaici e popolari e terrestri; oppure di chiarire il valore da dare alle proiezioni dei personaggi verso il nuovo, il moderno o l’ignoto, lo spirituale, l’ideale.
So però che non posso richiedere al lettore (a meno di non rivolgermi solo alla stretta cerchia di chi conosce il mio dialetto e l’italiano) lo sforzo di sorbirsi una narrazione interamente in dialetto (trascritto, tra l’altro, con una certa libertà rispetto ai dizionari dialettali esistenti) come, ad esempio, quella del pezzo sulla principessa Sichelgaita.
Da qui alcune scelte che forse mi si imporranno:
a) ridurre le parti dialettali a brevi citazioni nel corpo del discorso in italiano (come in questo brano);
b) traduzione dei vari pezzi, finora buttati giù in dialetto, in un italiano “poroso” ai toni elementari, bassi o popolareschi del dialetto (echi dell’operazione che fece ai suoi tempi Verga?);
c) conservare rigorosamente in dialetto (con traduzione in appendice) alcune parti che giudicherò essenziali.
Sul mio commento: ho raddoppiato na luce perché significativo, intanto da nu fridde e poi perché introduce il cambio della lingua.
Il rejet -come prima l’enjambement che separa le donne dallo sfondo- si riferisce al fatto che avrei immediatamente messo na luce di seguito nello stesso verso.
Infatti poi commento -di seguito- il mio commento che commenta il tuo testo: che cioè la metrica accentua o divide secondo il senso che attribuisce alle parole: per me le donne non sono mai di sfondo, ma la prosa “accomoda” la crudele memoria che parifica e non separa con l’enfasi, mentre la poesia sa isolare quello che predilige.
Perché, lo sai, la poesia marcia riassumendo concetti, immediata sì, ma ragionante.
Sul fatto che na luce apra al cambio di lingua… be’ è un tuo cruccio, però è anche… un fatto nel “tuo” testo.
*Non riesco, cioè, a convincermi che in me il dialetto appartenga soltanto al “passato dell’infanzia” e “l’italiano al presente della riflessione e della scrittura”* (E.A.)
Capisco. Però preciso che io non ho detto questo. Io mi metto dalla parte del lettore e parlo di un certo effetto di profondità, un effetto estetico, raggiunto in questo testo attraverso l’alternanza – più o meno intenzionale, inconsciamente intenzionale – di dialetto e italiano. Nel pezzo sulla principessa Sichelgaita invece, tutto in dialetto, le due voci non sono veramente due voci. E’ una distinzione di superficie e il pezzo risulta più piatto – secondo me. Su come stanno le cose nella psiche dell’autore, sul suo atteggiamento nei confronti di italiano/dialetto però, io non dico nulla, ascolto quello che dici tu.
“… due culture e condizioni materiali in conflitto tra loro” (E.A.)
Di questo conflitto non ho nessuna esperienza. I miei genitori parlavano entrambi italiano (come quasi tutti quelli della loro età), ma la loro lingua madre era il dialetto, e fra loro e con gli altri adulti della famiglia parlavano dialetto. Non ho mai avuto la percezione di un conflitto. Piuttosto di un arricchimento. I conflitti erano altri.
Però, a proposito del conflitto, mi è venuta in mente una cosa che vorrei aggiungere – sperando di non diventare noiosa e, l’argomento essendo scivoloso, di non finire nel patetico.
Nel tardo pomeriggio di una piovosa giornata del settembre 1974 mi trovavo nell’atrio della stazione di Lubecca, dove aspettavo una persona. Fui abbordata da un signore che, immagino, mi aveva riconosciuta come italiana. Dico “abbordata” perché in effetti eravamo l’uno per l’altra dei perfetti estranei, ma era una persona assolutamente onesta e il suo “abbordaggio” non aveva nulla di equivoco. Era sulla cinquantina – o almeno così parve a me che avevo allora vent’anni – ed era un Gastarbeiter – ipocrisia lessicale con cui i tedeschi indicavano i lavoratori stranieri – sostanzialmente gli immigrati. Nonostante la sventatezza dell’età mi fece molta impressione perché doveva essere estremamente infelice, ed era chiaro che era solo come un cane. C’era qualcosa di folle anche semplicemente nel fatto che fosse a Lubecca. A Lubecca! dove d’inverno all’una dopo mezzogiorno fa buio e d’estate alle tre di notte ci si vede ancora. Cercava qualcuno con cui parlare. Ma la cosa veramente tragica era che quando parlava io non capivo quasi niente. Parlava un dialetto del Sud – almeno credo, perché non ricordo da dove venisse o forse non lo capii affatto.
Quindi: l’appartenenza esclusiva a una comunità linguistica ristretta e, all’epoca, perdente, impediva al signore il reale accesso e installazione a qualsiasi livello di una comunità vincente, e lo condannava alla solitudine e alla marginalità.
Credo che il motivo per cui io non sono tanto per i dialetti sia questo: appartenenza a una comunità ristretta. E quando prima dicevo che riguardo al dialetto avevo la percezione di un arricchimento: certo, ma per chi sapeva anche l’italiano.
Toh, qualcuno – al di là delle differenze tra lui e me – batte sentieri che io pure frequento…
“Possiamo infatti dire che lo scopo principale del romanzo è proprio quello di ottenere tale riconciliazione sia al livello di trama che di discorso narrativo. Come ha dichiarato lo stesso Starnone nell’intervista rilasciata alle curatrici di Reading Domenico Starnone: “Adesso, in vecchiaia, mi sono deciso a dedicare un racconto allo scontro originario tra napoletano e italiano come l’ho vissuto io e come lo vivono i miei personaggi.”
( Da https://www.leparoleelecose.it/?p=42687)