di Donato Salzarulo
Sono arrivato a Bisaccia l’otto luglio, verso mezzogiorno. Nel pomeriggio parto con Agostino per Montella. Franco Arminio, amico da oltre quarant’anni, presenterà «Lettera a chi non c’era. Parole dalle terre mosse», il suo ultimo libro. Lo farà nel Complesso monumentale di Santa Maria della Neve, un luogo in cui non sono mai stato. Vado volentieri a dare un’occhiata. Sarà un’occasione anche per salutarlo. Lo so impegnato a tempo pieno per tutto il mese di luglio e agosto, nella promozione dell’opera…Un’opera che conosco.
Prima che l’otto giugno venisse pubblicata, Franco ha continuato a inviarmi in posta elettronica le varie bozze. Non che abbia messo mano. Cambia le pagine a un ritmo vertiginoso. Ma so di cosa parla e come è distribuita la materia. La prima poesia, che ho letto decine di volte, è dedicata a suo padre, zio Luigi, una persona che ricordo benissimo:
Il Grillo d’Oro sta sul lato morto della strada, è l’ultima casa aperta sulla destra di via Mancini. Il luogo è antico e c’è ancora un’aria che tiene caldo il cibo: mio padre cura ogni tavolo come se fosse un nido, riempie il piatto, gli dà peso. Io sono il figlio che scrive, la mia pietanza non si vede, lo smalto è leso. Io recrimino sul mondo sempre più sfinito e astratto. Mio padre non pensa al mondo ma solamente al piatto.
La sintassi della poesia è scorrevole e semplice. Pochissime le subordinate (due relative e una modale). Il lessico è quello quotidiano. I versi, quasi tutti piani, eccetto l’ottavo (“mio padre cura ogni tavolo”), hanno un’oscillazione metrica che va da un minimo di cinque sillabe (versi: 1, 5, 13) ad un massimo di dieci (verso 2). La maggioranza si attesta sulla misura media dell’ottonario (versi: 3, 8, 11, 14, 15, 16); tre sono novenari (versi: 4, 10, 12), tre settenari (versi: 7, 9, 17) e uno è senario (verso 6). La musicalità è assicurata prevalentemente dalle allitterazioni, da alcune ripetizioni di parole (“piatto” e “mondo”) e da alcune rime (peso / leso, astratto / piatto).
Arminio risulta attento alla lingua, ma non insegue (e non ha mai inseguito) esperimenti neo-avanguardistici né pensa (o ha mai pensato) che una poesia possa risolversi tutta sul piano dei significanti linguistici o degli istituti tradizionali (metrica, rime, ecc.). Si tiene lontano tanto dal linguaggio oscuro, ermetico quanto da quello manieristico. Il suo tono è gnomico, osservativo, riflessivo. Recrimina “sul mondo /sempre più sfinito e astratto”, ma ha bisogno di quel mondo. Ha bisogno di nutrirsi di “terracarne” o di “terre mosse”.
In questa poesia la divisione del lavoro tra padre ristoratore e figlio scrittore appare pacifica, scontata: il primo si muove in un’atmosfera calda, cura ogni tavolo “come se fosse un nido” (immagine di sapore pascoliano) e pensa solo al piatto (ossia al lavoro e a servire i clienti); il secondo scrive, ma la sua “pietanza non si vede”. Come non si vede?…In quest’ultimi mesi è il poeta che vende libri di poesia più degli altri. Diciamo che, al tempo della stesura di questa poesia – parecchi anni fa – la sua attività non era giudicata granché. A cominciare forse dai familiari. (Penso alla poesia di Palazzeschi sul poeta che si diverte…). Il suo splendore è metaforicamente danneggiato. Perciò è inquieto, s’affligge, si cruccia per l’andamento del mondo “sempre più sfinito e astratto”. Due aggettivi che richiederebbero una lunga analisi.
Il Grillo d’Oro è il nome del ristorante gestito da zio Luigi. Attualmente continua l’attività paterna Vito, il primo figlio. Il ristorante non si trova più sul “lato morto” della strada di Via Mancini – “lato morto” perché secondo il Piano di ricostruzione post-terremoto dell’Ottanta, doveva essere abbattuto. – Il ristorante oggi si trova in Piazza Convento. “Lato morto”, però, rimane un sintagma efficace: non solo perché nella poesia si oppone all’aria calda (di vita) che caratterizzava l’osteria e zio Luigi, ma perché Via Mancini, pur non essendo stata abbattuta, grazie ad una variante provvidenziale dell’amministrazione dell’ex sindaco Frullone, continua ad avere, comunque, molte porte chiuse. Tutto il paese ha ormai un “lato morto”. O forse più lati.
Ora hanno un respiro rassegnato questi paesi. Non sono più luoghi del sangue, non ci sono più alberi e angoli segreti, e non c’è più una morte che sia solenne, sembrano morire come foglie, come semplici conseguenze di un affanno.
Ritornando al libro. Dopo la pubblicazione, mi è capitato di leggere delle recensioni. Quella di Roberta Scorranese sul Corriere della Sera del 17 giugno: «”Terre mosse”. Il sottotitolo ha la ricercatezza poetica di uno abituato a usare le parole, ma questo non inganni: la raccolta di scritti (in poesia e in prosa) non è un elenco di reportage dalle terre terremotate. Terre mosse è da intendersi in un senso più ampio: terre mutanti, in continuo movimento, terre che potrebbero non esserci più da un momento all’altro. Cancellate da sismi, alluvioni, frane, abbandoni, incuria. Ecco perché Arminio, da quel 1980, ha cominciato a visitare paesi, fondando il nucleo di una poetica precisa, in equilibrio fra elegia del paesaggio e ritratti umani.»
Quella di Filippo La Porta su Il Riformista del 2 luglio: «Il libro di Arminio si rivela infine come un esercizio spirituale laico, la proposta di una “filosofia”, di una postura di fronte al terremoto, al tremore. Per i terremoti non ci sono cure né vere spiegazioni, e certo non dipendono da noi: “La stessa cosa accade nel profondo di noi stessi, non possiamo entrare e uscire a piacimento dalla nostra inquietudine”. Che significa? Significa imparare che la vita non può essere immunizzata o assicurata, che quasi niente è sotto il nostro controllo (come ci promette la tecnologia), che il futuro non esiste e perciò si riempie di ogni nostra fantasia (la virtù teologale della speranza, per quanto umanamente comprensibile, secondo Pasolini genera alienazione dal presente). Si delinea qui l’abbozzo di una filosofia antica, segnatamente stoica: “il destino conduce chi lo asseconda, trascina chi vi si oppone” (Seneca). Il messaggio non è però solo di rassegnazione: bisogna “tremare” e al tempo stesso usare il tremore. Accettare la finitezza umana – sarebbe insensato opporvisi! -, la fondamentale impotenza, la nostra “infermità”, ma costruire attraverso l’infermità un senso dell’esistere e una solidarietà di tutti gli esseri umani di fronte al nemico comune (si veda la “Ginestra” leopardiana).»
Arminio stoico?… E pensare che nel mese di maggio, quando ho sfogliato il pamphlet di Walter Siti «Contro l’impegno», nelle due paginette e mezza a lui dedicate, ho letto che, malgrado la sua farmacia poetica, restava un “nichilista riluttante”… Ah, questi critici!…Se lo conosco bene, tra la prima e la seconda etichetta, Franco, preferisce la seconda.
In macchina, mio cugino mi racconta che si è ritrovato in posta elettronica pure lui il file del libro in bozza e che ha corretto scrupolosamente gli eventuali errori di stampa. Ha così potuto leggerlo attentamente e per quest’incontro tradurrà in inglese qualche poesia. Canterà anche…
Ascoltarli sarà per me un vero piacere. Non ho voglia di scrivere niente. Non sono mai stato un critico letterario o uno scrittore in servizio permanente effettivo. Dopo il viaggio mattutino, mi rilasserò e potrò continuare a produrre il vuoto nella mente.
«Ancora non lo sai - sibila nel frastuono delle volte la sibilla, quella che sempre più ha voglia di morire – non lo sospetti ancora che di tutti i colori il più forte il più indelebile è il colore del vuoto?»
Siamo arrivati. Scaccio i versi di Sereni dai neuroni e, nel frattempo, Agostino parcheggia la macchina in una radura non molto ampia, vicino al Complesso monumentale. Non è stato facile arrivarci. Nonostante avessimo cliccato luogo e via sulla mappa del cellulare, sbagliavamo l’ultima parte di strada in salita. Attenzione alle merde di vacca! Ce ne sono parecchie intorno a noi.
Breve tratto a piedi, in leggera discesa, tra alberi di castagne e finalmente la vista del Complesso. Davvero bello e incantevole. Lo sguardo spazia su una vasta vallata. Sotto il monte si vedono i tetti dell’agglomerato urbano di Montella.
Saluto calorosamente Franco ed altri amici. Dopo un po’ gli organizzatori ci propongono di visitare la mostra di Enrico Mazzone. Mentre ammiriamo le opere dell’artista, alle quali accennerò più avanti, buttiamo l’occhio anche sugli ambienti che attraversiamo: il chiostro, i lavatoi, le cucine, il forno per il pane, il refettorio, i dipinti murali…Tutto il complesso comprende il Castello Angioino, la Chiesa di Santa Maria della neve e l’ex Monastero francescano. Noi siamo riusciti a visitare soltanto quest’ultimo. L’incontro deve cominciare…
Prendo posto nello spazio all’aperto in cui Franco parlerà. Prima, però, a mo’ di introduzione c’è l’esecuzione di alcuni brani musicali da parte di un gruppo di musicisti. Si tratta di Diego De Simone, Vincenzo Natale e Gerardo Pizza. È la prima volta che li sento. Mi sembrano abbastanza bravi…Ascolto in religioso silenzio.
È il momento del mio amico. Su come conduce ed anima questi incontri ho già scritto su Poliscritture. (“Ad Avigliano con Franco Arminio”, qui). Siccome il canovaccio è, più o meno lo stesso, ho poco da aggiungere.
Siamo in uno dei luoghi più belli del mondo, dice e condivido. Tutti hanno diritto a un attimo di bene… E se la poesia riesce a donarlo, perché no?… Quando nessun essere umano ti cerca, abbraccia un albero. Sia nel senso più comune e banale che il rapporto con la natura può rinfrancare e rigenerare lo spirito, ma anche in quello più radicale del porre fine al nostro divorzio dalla natura: «Forse una buona cosa da fare è abituarci a pensare che le cose che accadono alle piante o agli animali hanno la stessa importanza delle cose che accadono agli umani. […]. La differenza tra umano e non umano non ha più senso.»
Sono tornati i miracoli: il tiglio di Bisaccia in piazza Convento, che sembrava destinato alla morte, si è ripreso. È importante stare in un luogo che si ama…
Non rimuoviamo il fondo religioso che c’è in ognuno di noi, ecc. ecc.
Voglio bene al mio amico, ma quando assume il tono profetico o da guru, preferisco tapparmi le orecchie.
Ascolto, invece, con molta attenzione le traduzioni in inglese che Agostino fa di due poesie tratte dal libro. Le riporto non soltanto per l’attenzione alla musica di un’altra lingua, ma perché sono tanti i bisaccesi (e non solo) in giro per il mondo.
Venticinque anni dopo il terremoto dei morti sarà rimasto poco dei vivi ancora meno. Twenty-five years after the earthquake of the dead little will have remained. Of the living ones even less Tu non eri qui quando il paese aveva tutte le sue case aperte: ogni vicolo era vivo come una piazza, il paese sapeva di sudore e di terra, galline sui ciottoli e uccelli sui rami, il sonno freddo dell’alba sul dorso dei muli, i padri di quarant’anni che sembravano vecchi. C’era una volta la desolazione della miseria. Ora c’è la miseria della desolazione. You were not here in the village when all its houses were peopled: any alley alive like a city square, the village smelled of sweat and soil, hens on the pebbles and birds on the trees the cold rest of the dawn on the mules’ back fathers in their forties looking much older. Once upon a time it was the desolation of misery. Now the misery of desolatio.
Dopo aver tradotto le poesie, Agostino canta – molto bene, devo dire – una bellissima canzone di qualche decennio fa. La canta in italiano e poi anche in inglese. È quella che fa:
Sola me ne vo per la città Passo tra la folla che non sa Che non vede il mio dolore Cercando te Sognando te Che più non ho
La serata termina con gli applausi entusiasti di tutti. Una mezz’ora se ne va tra complimenti e saluti agli amici. Alla fine, io e mio cugino andiamo a mettere qualcosa sotto i denti in una trattoria dalle parti di Lioni. L’unica che troviamo ancora aperta.
LA MOSTRA DI ENRICO MAZZONE
«Nigredo, Albedo e Rubedo. Magnum Opus: omaggio a Dante». Questo il titolo della mostra.
Pur avendola guardata in fretta e superficialmente, voglio accennarvi. Enrico Mazzone è un’artista giovane, nato a Torino nel 1982, e il suo omaggio a Dante ha tratti di sicura originalità. Non ha illustrato la Divina Commedia come hanno fatto diversi grandi artisti; un’illustrazione che era ovviamente anche un’interpretazione. Ha dipinto una sua Divina Commedia ispirandosi all’illustre fiorentino. Questa sua Grande Opera – 97 metri di lunghezza, 4 di larghezza, 6 mila matite consumate, 5 anni di lavoro – rappresenta una metamorfosi, un percorso spirituale che gli consente di passare da Nigredo a Rubedo attraverso Albedo…Un po’ come Dante che viaggia dall’Inferno al Paradiso attraverso il Purgatorio.
La sua poetica è abbastanza “ermetica, criptica e sibillina” – sono parole sue -; il suo enorme lavoro, tuttavia, suggestiona, suscita meraviglia e volontà di capire di più. Sia chiaro, non sono riuscito a dedicare ad ogni pannello esposto più di trenta secondi. Ma mi sono permesso di scattare qualche foto delle tavole e me le sono guardate e riguardate con calma.
All’inizio ci sono frammenti di rocce granitiche incise: il profilo di un volto, due mani congiunte per pregare, i molti raggi di una stella…È così rappresentato il contatto con la materia prima e la voglia di trasformarla. Questa è Nigredo.
Poi vi sono le tavole di Albedo, per lo più gremite di figure disegnate a matita: vi sono figure realistiche, altre mitologiche, fantastiche, oniriche, folcloriche. Sono tavole che stupiscono per la pienezza, densità e vitalità delle scene rappresentate. Insieme a queste ci sono diverse tavole che l’artista contrassegna col titolo “Postilla”. Sono dipinte a colori e rappresentano personaggi del poema dantesco (ad esempio, Minosse), ma non sempre. Davvero Mazzone ha voluto personalizzare molto il suo percorso di lettura, assimilazione e trasformazione del poema.
Infine, Rubedo, che non abbiamo potuto vedere perché era esposto nella Chiesa, dove noi non siamo andati. Sia perché stava iniziando l’incontro con Arminio, sia perché – se non ho capito male – era chiusa.
Io, però, ho fatto in tempo a fotografare un pannello in cui Mazzone, imitando i versi danteschi, cerca di dare un senso al tutto.
Lo trascrivo qui:
«NIGREDO, ALBEDO E RUBEDO
Ho scritto infine dei versi, per aiutare l’osservatore a svincolarsi dalle convenzioni dalla cifra stilistica dantesca e dare più spazio alla sua personale interpretazione.
Compaiono dipinti in rosso sangue le battute iniziali:
“Per versi oscuri e affini or prova ancora
A ripropor la selva e il suo disagio
Arbitrio affine all’utile del plagio
Fondato sulla inutile Paura
Lo sguardo assente invidia la calata
dei Denti e invoglia a guisa di Plutone
Non era certo facile al vantaggio
Portare avanti e ferma una opinione
Così mi son celato in sette anni
lontano dalla casa dei miei Numi
Amati per i sempreverdi affanni
Nei miei confronti (che interpreto oggi acumi)
O Disio, avvezzo al fascino del Fato
Mai non sentito di cotanto sprezzo
Con sol Due Denti al vacuo e umil palato
Ritorno in fretta umano “Io non mi spezzo”.
I versi evidenziati [in grassetto], sono realmente stati dipinti con sangue di renna (importato dalla Finlandia in vasi protetti e sigillati a norma) per dare i connotati del color porpora (rubedo) e per simboleggiare la sofferenza del parto che dà alla luce la procreazione.
Una nuova realtà nasce.»
Al di là della metrica che in qualche punto zoppica, sono versi con una loro energia che si vogliono programmaticamente “oscuri e affini” a quelli dell’illustre fiorentino. Ha senso oggi riproporre “la selva e il suo disagio”? Il poetante avverte un certo “arbitrio”; ma è un “Arbitrio affine all’utile del plagio”. L’aggettivo “affine” ritorna e “l’utile del plagio” (della Commedia ovviamente) è “fondato sull’inutile Paura”. Nel gioco oppositivo dell’utile/inutile, par di capire che chi verseggia abbia provato una Paura (personificata) come quella dantesca nelle prime terzine dell’Inferno.
Più avanti accenna al fatto che “portare avanti e ferma un’opinione” non gli è stato facile né vantaggioso, perciò è stato costretto a celarsi per sette anni “lontano dalla casa dei miei Numi” (non solo i domestici Lari torinesi, ma anche autori di riferimento come Dante). Ho l’impressione che in questi versi il poetante alluda ai suoi viaggi per le città del Nord Europa: Oslo, Laavrik, Carlsberg, Berlino, Reykjavik, Rauma…(leggo nella sua biografia). Destino, ormai, più o meno comune, a molti nostri giovani. Che dire?…Ben tornato a Montella e in Italia.
“O Disio, avvezzo al fascino del Fato”…Purtroppo il Fato vuole che il mio incontro con queste opere si svolga in concomitanza con quello di Arminio. Penso che questo gigantesco lavoro meriti sicuramente più attenzione e approfondimenti. Spero che il Fato mi riservi un altro momento più propizio. Il “Disio” di arricchire la mia conoscenza dell’opera di Mazzone c’è ed è vivo.
Caro Donato,
ho letto con interesse le tue dotte considerazioni e quelle riportate dei vari recensori.
Ma in quanto dotte , penso che si discostano alquanto dal significato delle poesie di Arminio.
La poesia di Arminio non necessita di critica, di esame, del vedere oltre e dentro , perché non va interpretata ma sentita. È così come è!
La ragione, la logica la mutilano , impediscono lo sgorgare fluido del suo sentimento lirico.
Parla direttamente al cuore dei suoi lettori e colpisce soprattutto la gente semplice. A me piace raffigurare Franco come un rapsodo, un cantore, di quelli che andavano un tempo di paese in paese a cantare la varietà dei loro temi in gran parte occasionali e non costretti in schemi rigidi e dimostrativi.
I suoi canti pertanto non hanno una pretesa metrica ma seguono il ritmo delle percezioni: vista, suono, odorato, gusto, che noi possiamo recepire( meglio nei luoghi della solitudine) perché ogni elemento della natura, dall‘immensamente grande all’immensamente piccolo, ci manda segnali, in quanto è vivo, ha un anima.
Questi segnali non vanno interpretati basta lasciarsi trasportare. Questi elementi non alimentano un turbine impazzito ma un’armonia , una sincronia , una legge dialettica che si svolge nell’Unita’: il panteismo.
La poesia di Franco è armonia panteistica cantata da un rapsodo. Altrettanto rapsodo era zio Luigi , non girovago, ma ultimo degli osti.
Di lui il figlio ha ereditato il sarcasmo, l’ironia, l’insofferenza verso il pettegolezzo e le superstizioni popolari. Certamente il padre era più espansivo e simpatico. Di questo ne sono certo . Della passione per la squadra dell’Avellino non so…
Caro Domenico,
ti ringrazio per queste tue osservazioni. Sono molto belle e colgono sicuramente dei tratti delle poesie di Arminio: la semplicità, la rapsodia, il suo lasciarsi trasportare dalla sensibilità delle percezioni (vista, suono, odorato, gusto) e io aggiungerei dal ritmo del suo passo-respiro…Quando, però, scrivi che “Questi elementi non alimentano un turbine impazzito ma un’armonia, una sincronia, una legge dialettica che si svolge nell’Unita’: il panteismo. La poesia di Franco è armonia panteistica cantata da un rapsodo”; quando scrivi questo, non puoi negare che la stai INTERPRETANDO, che stai esprimendo legittimamente un giudizio di valore. E questo si fa ANCHE con la critica, l’esame, il vedere oltre e dentro, la ragione, la logica, ecc. So che chi scrive poesie vorrebbe andare spesso oltre questo “muro della ragione”; ma so anche che chi legge – e forse il poeta stesso in quanto lettore – vuole capire quali sono gli elementi di questa “unità” o di questa “armonia”. Può darsi che sia uno sforzo inutile, può darsi che la creazione poetica abbia sempre qualcosa d’insondabile e, per così dire, di misterioso, ma provarci è quasi inevitabile. Il tentativo è andare un po’ oltre l’impressione, il “mi piace”.
Interessante anche l’accostamento fra padre, “ultimo degli osti”, e il figlio poeta rapsodo. Nella poesia c’è chiaramente un confronto. L’autore ne sottolinea la discontinuità. Tu cogli una continuità…Del resto, la passione per la squadra dell’Avellino era forse comune a padre e figlio, come si legge a pag. 151 dell’ultimo libro: «Quando l’Avellino vinceva, mio padre prendeva le paste. Era il fiocco sulla festa, il ritorno a casa glorioso, come se fossimo stati proprio noi a giocare e a vincere la partita.»
Ancora grazie davvero per le tue considerazioni.
Devo dire che mi sono trovato affascinato alla fine della lettura di questo tutt’uno che è poesia, opera, critica, commento. Resta nello sguardo e nell’orecchio come un lungo sospiro che circonda l’anima di un posto.
Caro Donato,
come potevo non scrivere? Quando la parola scritta stessa e’ mezzo di espressione artistica della poesia.
Comunque la logica a cui ho fatto riferimento è la logica oggettiva , a cui l’anima dell’oggetto da’ armonia,relazione, integrazione, sintesi.
Ed e’ proprio questa anima, non intesa in senso trascendentale, che dà segni di se’ , per mezzo della vista, dei suoni , del gusto, anche , è vero , dal rumore dei passi. La logica oggettiva , in questo caso è da distinguere dalla logica soggettiva , pur essendo ambedue attività razionali. Difatti questa ultima risente delle opinioni , è spesso sofistica , aporetica e criptica e quindi inaccessibile ai più’ , in quanto fa sfoggio di erudizione.
A me sembra che la logica dei critici sia quella soggettiva. La logica di Arminio risponde piuttosto ai canoni di quella oggettiva. Io leggo Arminio ponendomi nella schiera dei non eruditi, e mi piace lasciarmi trasportare perché mi muove qualcosa dentro di genuino ,di primordiale.
Un’ultima considerazione e nessuno me ne voglia .
Ho l’impressione, e questo fa parte della logica formale soggettiva, che molte volte i critici, i pedagoghi ed i pedanti, mettono in bocca all’artista o nella sua mente, congetture che egli non aveva mai immaginato di avere. In tal caso si rivelano più psicanalisti protagonisti che amorevoli cultori e saggi passivi interpreti.
«Resta nello sguardo e nell’orecchio
come un lungo sospiro
che circonda l’anima di un posto.»
Grazie, Paolo, per questo pensiero poetico.
E grazie anche a Domenico che si lascia trasportare dalla “logica oggettiva” di Arminio che «gli muove qualcosa dentro di genuino, di primordiale». Direi che va bene così. In fondo, ogni lettore o lettrice ha diritto di chiedere alla poesia il “trasporto” che più desidera.