di Elena Grammann
Dopo i temporali cammina col cane lungo la collina oblunga tenendosi un centinaio di metri sulla destra. Su tutta la collina il bosco è marezzato dal vento; sopra, il cielo ha un colore marcato come per un residuo di burrasca. Fino a qualche tempo fa questo la riguardava. Perché non trasferirsi su Marte si dice ora.
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Esamina i pneumatici. Mentre venivo su ho trovato un ramo in mezzo alla strada. Dopo un tornante, in una zona d’ombra. L’ho visto all’ultimo e ho sterzato ma l’ho preso, ha fatto un gran fracasso. Non era grosso; comunque un ramo. Circa così. Arrotonda pollice e indice per mostrare il diametro e lo rivede nell’ombra della curva, spoglio, bianco-calce con delle screziature nere. Le era sembrato che avesse un’esistenza e una consistenza tutte particolari, pronunciate, come non ce ne sono più. Appunta la cosa su un foglietto poi lo butta. Ogni tanto arrotonda pollice e indice, circa il diametro. Le sembra che qualcosa dell’esistenza di quel ramo le passi nel cervello.
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Ogni volta si stupisce di quanto sono in alto; vorrebbe chiederlo, poi non ci pensa più. Però capisce che si sentano qualcosa a parte. Orgogliosi di resistere.
Orgogliosi di resistere, d’accordo; ma intanto l’esistere scricchiola. La vecchia è morta, la qualità del ristorante è scaduta, un maschio adulto è stato sostituito, una femmina giovane si è autosabotata. Nulla rimane uguale. E meno male che Salvini offre ancora una sponda; anche a Gianni, il pilastro; che oggi però non c’è; e l’Emma non si fa vedere. Ma come, se proprio l’Emma aveva detto che ci sarebbero stati tutti?
Al tavolo di famiglia fa quattro chiacchiere con la zia, nessun problema. Non la disturba neanche che la zia l’abbia correttamente scannerizzata e classificata. Mica stupida la zia. In ogni caso non ha nessun problema a mettersi fra parentesi e fare quattro chiacchiere con la zia; e nemmeno con l’altro mai visto, una new entry ma solo per lei, qui si conoscono tutti e si vogliono tutti bene. Non è che sono più felici però; a occhio tanto come in pianura. Comunque la new entry è stagionato e un po’ legnoso, leggerissimamente imbarazzato dalla sua presenza. Le piace il vino dolce? dice la zia. L’ha fatto lui. Solo due dita, grazie. Porta il bicchiere al naso: si sente il nostro vino!
Questo è sicuro.
Il vinificatore sembra preoccupato che la zia possa arrivare in ritardo al funerale del primo pomeriggio. Un paio di volte le fa notare l’ora. Quando la zia si alza balza in piedi anche lei, si sa mai che. L’altro cerca di trattenerla col fiasco, gliene versa nel bicchiere ma lei è già alla porta. Non disponibile a risolvere problemi altrui. Per di più irrisolvibili. Almeno in questo mondo.
Le vivande ingurgitate, più le due dita di vino, ruotano nello stomaco come panni sporchi in una lavatrice. Ogni vivanda sfiotta il suo tono, scalato nel registro del compostabile. Si fa strada un senso di intossicazione.
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È piuttosto orgogliosa di riuscire a parlare – con l’Emma, con l’Amedea, persino con il vinificatore. Fino a qualche tempo fa non ne era capace – o soltanto a prezzo di sforzi visibilissimi. Ha capito l’errore: tentava di comunicarsi. Senza riflettere che comunicarsi ci si comunica soltanto in chiesa – quelli che ci credono naturalmente; per il resto si tratta di automatismi verbali. Con un minimo di allenamento si producono da sé, con un dispendio irrilevante di energia. Funziona che uno dice una frase, generalmente una frase qualsiasi, magari una delle quattro o cinque richieste dalla circostanza. A questo punto non bisogna commettere l’errore di cercare dentro di sé qualcosa di vero o di autentico – qualcosa di extralinguistico – esistenziale magari, o metafisico, da tradurre a fatica, incompiutamente, nella lingua della comunicazione. Neanche ne andasse della verità. Da questo bisogna astenersi. Che presunzione sarebbe, e che maleducazione, uscirsene fuori con l’autentico – pretendere che il prossimo si occupi di te. Astenersi! astenersi! – e la frase corretta verrà da sé: rilassata, opportuna. Lasciarsi prendere in carico dalla lingua.
Al massimo, negli individui predisposti, può indurre fenomeni di sdoppiamento che tendono a regredire spontaneamente nelle ventiquattro ore.
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La lingua d’uso non è mai in imbarazzo di nomi. Ha un nome per ogni cosa e ogni cosa ha il suo nome. Bisogna stare attenti alle deviazioni: non imbroccare il binario verso la Lingua Maior e i nomi sconosciuti.
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Nella zona ci sono molti castelli. Quindi molte rievocazioni storiche. Le rievocazioni sono il romanzo storico dei poveri.
I castelli migliori sono parallelepipedi squadrati. Angoli affilati, muri a piombo. Poiché nella zona non c’è quasi turismo, visti da lontano si comportano come se fossero depositari di qualcosa.
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Il suo passato continua ad apparirle favoloso. Non ha accesso al suo passato se non nel modo favoloso. Quindi: ha o non ha accesso?
Il grande romanzo favoloso dell’io.
Il grande romanzo psicologico dell’io.
E pensare che c’è gente che si occupa d’altro.
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Mentre il Paese sprofonda nell’insignificanza, c’è gente che si occupa dei paesi. Piccoli. Dei piccoli paesi. Conservazione delle tradizioni, arti e mestieri, presepi viventi. Associazioni di sbandieratori.
Troppo memorialista e nessun dialogo (se non indiretto). Il racconto di suo ha una trama e una fine liberatoria.
Scusami: il racconto “avrebbe” una trama e una fine liberatoria. Forse tu tenti una strada in cui quei legami non stringono, e la separazione tra i singoli attori è determinata. Il racconto quindi si indirizza a chi non si può rivolgere alla sintonia con nessuno? Intanto il risultato è lo stesso: si parlano solo le frasi del discorso comune di legno.
In realtà non so se denunci o descrivi.
A essere precisi non è un racconto; sono frammenti, genere imparentato con la massima e l’aforisma, ma che col romanticismo ha acquisito una sua autonomia. Sono frammenti di un discorso geografico perché la geografia è in qualche modo centrale: il paesaggio naturale, che per la tizia che parla ha perso lo spontaneo essere-provvisto-di-senso, è il paesaggio di quei luoghi; la gente di montagna, che scommette sul calore delle piccole collettività, è gente di quelle montagne; e così certe forme spacciate per cultura popolare che dovrebbero cementare le collettività. La tizia che parla crede di distinguere l’inautentico sotto le apparenze comunitarie, ma sa di essere stata smascherata dalla zia che la individua come estranea e non assimilata. La sfiducia della tizia nelle possibilità di reale comunicazione attraverso la lingua d’uso la spinge a vedere nel discorso (letterario) su di sé l’unico discorso minimamente fondato.
La distanza tra l’io narrante e la comunità , evidente nel primo frammento, ritorna nell’ultimo e rende infruttuoso il tentativo di cercare in se’ , nel proprio atteggiamento i motivi di una comunicazione difficile, se non impossibile. Molto bello in particolare il frammento in cui compare il ramo. C’ è tutta l’ambivalenza dell’atteggiamento di chi narra. C’e la constatazione di un impedimento ma anche la curiosità verso l’impedimento, una sorta di attrazione.
Grazie del commento Giacinta, optima lectrix. E grazie di aver sottolineato il ramo. Il ramo rappresenta per l’autrice la nostalgia lancinante per un’illusione perduta.