Alla ricerca del Marx perduto (2)
di Ennio Abate
Sulla pagina FB di Lanfranco Caminiti (qui) dove la lettera di Donatella Di Cesare è stata ripresa e ampiamente commentata, ho lasciato questa mia riflessione:
La mia impressione è che la critica della Di Cesare ad Agamben è su alcuni punti precisi condivisibile (confusione tra stato d’emergenza e stato d’eccezione, silenzio su rivolte in carcere, brutta fine degli anziani delle RSA, migranti scacciati e brutalizzati alle frontiere) ma rimane incastrata nel comune riferimento – come dire “di famiglia” – ad Heidegger (quando gli rimprovera di ” non considerare il ruolo della tecnica, quell’ingranaggio che come insegna Heidegger impiega quanti pretenderebbero di impiegarlo”). Condivido il giudizio di Lanfranco: “in agamben non c’è soluzione di continuità tra liberismo e nazionalsocialismo (in questo si invera quello) e nella di cesare c’è un “richiamo” a qualcosa che fugga dal liberismo e dal progressismo. ”
E però, se vogliamo sfuggire alla “finta bipolarità”, che ha messo “nell’angolo ogni critica sacrosanta alla gestione della pandemia”, bisogna pur indicare una base di pensiero meno ambigua di questo heideggerismo.
Per me manca il riferimento a Marx, nome richiamato – unico dei commentatori – da Cristoforo Prodan. Sempre più mi convinco che abbiamo fatto male a perdere di vista quel pensiero. Quei pochi che ancora ne difendono l’importanza (con tutte le precisazioni necessarie per distanziarsi dalle scolastiche che l’avevano deturpato) hanno criticato con più efficacia della Di Cesare Agamben e compagnia.
Si veda la presa di posizione di Roberto Finelli e Tania Toffanin – Sul privilegio (Note critiche su Agamben-Cacciari) del 3 settembre 2021, da cui stralcio il seguente passaggio:
"A noi sembra che l’approccio dei due riproduca quell’eurocentrismo tanto debole quanto inservibile per spiegare la complessità attuale, ma anche per proporre soluzioni capaci davvero di non discriminare e non creare nuove divisioni tra coloro, ad esempio, che possono utilizzare servizi sanitari qualificati e in tempi celeri e coloro che devono accontentarsi della disponibilità contingente con lunghi tempi di attesa. Dove sta l’eurocentrismo di Agamben e Cacciari? È tutto espresso nell’attacco a quella che considerano essere una forma di stigmatizzazione via legis. Non sono forse altre le forme fattuali della discriminazione nel nostro paese (e non solo)? Classe, genere e razza sono categorie superate forse nelle riflessioni che hanno a che vedere con norme e pratiche discriminatorie? In quali termini la pandemia sta intaccando la popolazione sulla base di un’analisi di classe, di genere e di razza? Ce lo vogliamo chiedere o pensiamo davvero che la pandemia, come tutte le patologie, agisca su tutte e tutti allo stesso modo? O forse la discriminazione espressa da Agamben e Cacciari vale solo per maschi, adulti, bianchi e di classe agiata?! Ancora: la pratica discriminatoria secondo i due inflitta dallo Stato all’individuo come si pone di fronte all’interesse collettivo? Chi sarebbero dunque quei «tutti (che) sono minacciati da pratiche discriminatorie» richiamati nelle poche righe apparse nel sito dell’Istituto italiano per gli studi filosofici? Non c’è richiamo alla collettività negli scritti di Agamben e Cacciari. Il perno delle loro invettive è l’individuo e l’attacco all’autodeterminazione individuale" (Cfr. qui )
DA POLISCRITTURE 3 SU FB
Lanfranco Caminiti
sono d’accordo con te, sul “bisogno di marx”. come sulla necessità di districarsi dalle sue “scolastiche”. epperò, la critica all’eurocentrismo e alla mancanza di una visione collettiva in nome dell’individuo, di finelli e toffanin che riporti – mi paiono molto “scolastiche”
Ennio Abate
Lo temo io pure. Ma fare tabula rasa per ripartire da un grado zero mi pare impossibile. O fuori dalla portata delle scarse forze che attualmente ancora si ricordano un po’ di “assalti al cielo”. Meglio usare (fortinianamente) le “buone rovine”. E allora alle “scolastiche” (e accademiche) heideggeriane preferisco le pur insufficienti “scolastiche” di Finelli e Toffanin o di altri che un po’ di Marx lo hanno frequentato.
Alta filosofia, sullo schema cristiano dell’incarnazione:
“Tanto che Cacciari, recuperando la radicalizzazione teologica dell’ultimo Schelling, ci può dire che «l’Inizio, come puramente Com-possibile, contiene in sé ogni possibile, fino alla propria stessa im-possibilità». Ed appunto proprio in questo campo originariamente infinito di possibilità come Inizio di ogni inizio si iscrive l’autenticità della vita di ognuno come «decisione» e libera affermazione di sé.”
L’im-possibilità di Schelling in realtà viene superata -di slancio- dall’incarnazione del Figlio di Dio, ragione ultima della Creazione.
Non vedo però come possa tradursi questo tipo di speculazione, millenaria mi pare, nella polemica circostanziale pandemica.
Di fatto anche la polemica di Finelli-Toffanin contro Agamben-Cacciari cade in questa banalizzazione filosofica, per cui la libertà individuale -CHE E’ ESATTAMENTE QUELLA A CUI SI RIFANNO LE NORME GOVERNATIVE, CHE OBBLIGANO I SINGOLI A VACCINARSI SOTTO LORO, DI CIASCUNO, RESPONSABILITA’- rimanderebbe all’Altrove, che figurarsi se non è elitario aristocratico bianco europeo!, fondamento filosofico del povero Agamben.
si licet parva componere magnis, Agamben sulla scorta di Heidegger riproporrebbe
“una categoria filosofica del tutto arcaica ed estenuata, a nostro avviso, quale quella di «Essere», con la conseguente consegna di tutta la realtà, umana e non-umana a un principio ad essa ulteriore – quale appunto quello di Essere – indefinibile e non determinabile”
come se, santodio, quell’Essere non segnasse l’emergere umano sociale e culturale della specie sapiens, un po’ eterogenea rispetto alla vita animale e vegetale circostante, no? Paroloni a parte, è il mondo umano che abbiamo creato come specie -chiamatelo Essere o come volete- e con cui ce la dobbiamo smazzare, per esempio con questa dannata epidemia.
Che fanno Agamben Cacciari &co se non sottolineare non solo che è AFFARE NOSTRO da risolvere, e poi, non meno importante, che -NON ORA MA IN PROSPETTIVA- stanno zappando le basi di una convivenza regolata dalla democrazia, frutto prezioso della cultura occidentale?
Insomma, quanta filosofia sprecata per combattere al presente avversari altrettanto filosofi ma che guardano, forse, più lontano e più radicalmente, cioè FANNO POLITICA?
« Paroloni a parte, è il mondo umano che abbiamo creato come specie -chiamatelo Essere o come volete- e con cui ce la dobbiamo smazzare». (Fischer)
No, non è la stessa cosa se questo «mondo umano» lo chiamo «Essere» (Heidegger), «Spirito» (Hegel), Capitale (Marx). Comunque, preferisco lo “zappatore” Marx (o, sulla sua scia, lo “zappatore” Finelli o altri consimili). E trovo più utile confrontarmi con chi parla così:
« Il capitale è dunque soggetto di totalizzazione perché, oltre a produrre economia ed ontologia sociale (quanto a divisione e riproduzione di classi), produce anche gnoseologia, cioè modi e forme generalizzate di conoscenza. Ossia produce – ora che la forza lavoro è sempre più forza lavoro mentale – intellettualità di massa, la quale, mentre lavora, produce, allo stesso tempo, dissimulazione e falsificazione del proprio operare. […] proprio perché l’astrazione del capitale produce, attraverso il doppio movimento dello svuotamento del concreto e della sovradeterminazione della superficie, direttamente intellettualità di massa, agli intellettuali di professione, ai maîtres à penser, non lascia altro che la conferma di tale suo operare svuotante e superficializzante. Lascia cioè il compito di produrre pensieri, filosofie, configurazioni ideali che siano ispirate al principio della smaterializzazione del mondo e che si vietino ogni oltrepassamento nel verso della materialità sociale. Tanto da potersi facilmente e schematicamente affermare che, di fondo, tutta l’alta cultura dell’ultimo quarantennio ha celebrato l’epopea di un’assenza di strutturazione, di ogni gerarchia possibile, di ogni sistematica della realtà, per il darsi di un accadere sempre evenemenziale, esito di parallelogrammi di forze e di significazioni sempre cangianti e mai concluse in una qualche permanenza e identità. Né dunque è stato un caso se tale autosequestrarsi della cultura in una propria smaterializzata autoreferenzialità4 abbia avuto come massimo evento inaugurale, almeno nell’ultimo cinquantennio, la filosofia dell’«Essere» e della «differenza ontologica» di Martin Heidegger, la cui genialità reazionaria è consistita nel riproporre come principio dell’intendere e del vivere una categoria arcaica ed astrattamente metafisica come quella di Essere, il cui superamento critico aveva invece costituito la condizione prima di ogni svolgimento positivo sia della filosofia antica di Platone ed Aristotele sia della migliore filosofia moderna»
( da Roberto Finelli, Critica, capitale e totalità, in L’OSPITE INGRATO N. 10 , luglio- dicembre 2021, scaricabile qui: https://www.ospiteingrato.unisi.it/lospite-ingrato-n-10luglio-dicembre-2021critica-e-totalita/)
Sono stata spesso in consonanza con Finelli ma la questione – limitata- di cui ho scritto riguarda la sua polemica, con Toffanin, a proposito delle categorie filosofiche con cui svalutano le posizioni *politiche* e circostanziali di Agamben e Cacciari sulle norme governative circa la pandemia.
Il brano che citi riguarda invece l’uso che i filosofi hanno fatto di Heidegger in senso non marxista. In generale.
Ora è senz’altro vero che la filosofia di un filosofo è presente anche se parla di calcio, ma discutendo con lui di calcio al campo calcistico ci si dovrà attenere.
Nel caso specifico del piano individuale imputato a A. che sarebbe necessariamente derivante dalla sua filosofia ho notato invece che il governo si rivolge proprio ai singoli e alla responsabilità individuale di ciascuno- tutti che, per magico accordo, condurrebbe alla salvezza comune.
Niente di strano perciò che i due A. e C. filosofi anch’essi ribattano che quella pretesa, dei singoli che tutti devono confluire nell’unico comportamento che porterà alla salvezza globale, è una pretesa farlocca… che ricorda, infatti, ben altre adesioni dei singoli al tutto-stato, al tutto-comunita’ e così via. Di questo si tratta e solo di questo.
@ Cristiana
Ripeto: sarà solo mia, ma sento l’esigenza di uscire dalla discussione della “famiglia heideggeriana”.
E in riferimento alla pandemia mi è venuto in mente questo scritto di Negri del giugno 2020:
https://www.dinamopress.it/news/post-scriptum-sulla-quarantena/
Mi dice di più di A. e C.
m
piuttosto astratto, Toni Negri!
“il corpo, i corpi sono il comune”, scrive. Quanto a *generalismo* la memoria mi corre alle frasi di Finelli-Toffanin:
“Ce lo vogliamo chiedere o pensiamo davvero che la pandemia, come tutte le patologie, agisca su tutte e tutti [i corpi posso aggiungere!] allo stesso modo? O forse la discriminazione espressa da Agamben e Cacciari vale solo per maschi, adulti, bianchi e di classe agiata?! Ancora: la pratica discriminatoria secondo i due inflitta dallo Stato all’individuo come si pone di fronte all’interesse collettivo? Chi sarebbero dunque quei «tutti (che) sono minacciati da pratiche discriminatorie» richiamati nelle poche righe apparse nel sito dell’Istituto italiano per gli studi filosofici?”
Ed ecco che N. ripropone l’*unità*:
“decidere quali saranno le «produzioni dell’uomo per l’uomo» e scegliere quali commons privilegiare: su questo sarà aperta la battaglia”.
N. non ci spiega perchè i corpi shockati dal virus dovrebbero unirsi e combattere, più e meglio dei corpi sopraffatti e sfruttati dal lavoro e dal capitale.
“Con la crisi dobbiamo chiudere quest’epoca di divisioni. «Tous ensemble», «tutti insieme», questa è invece la parola d’ordine da eseguire.”
Non vede, forse perché è nel giugno 2020, le profonde divisioni reali e concrete che il virus ha creato -e che il governo rinforza-, e non capisce che l’unità “etica” che il governo sbandiera sanziona proprio quelle divisioni.
Qui non si tratta di nessuna famiglia heideggeriana, ma di politica, e la proposta di Negri è appena un aggiornamento di quelle sue vecchie.
A me, al di là della vaghezza del termine ‘moltitudine’, interessano soprattutto questi due spunti (autocritici e pessimistici) di riflessione che si pongono fuori delle logiche settarie e fratricide della ex sinistra “rivoluzionaria”:
1. Oggi, nella crisi che viviamo, ci chiediamo come liberarle, queste nuove potenze. Di fronte, sul lato dei governi e dei padroni, si intende frenetica la previsione che nulla sarà come prima (accompagnata dal sussurro: che tutto cambi perché nulla cambi!).
Non avevamo speranza di farcela prima che intervenisse la crisi del coronavirus. Oggi, la speranza non è aumentata. Temiamo di essere di nuovo vinti. Questo è quanto rivela la crisi: la distanza enorme che sentiamo dal passato (che non sappiamo come superare, nell’incombenza della lotta) struttura la paura che il possibile non riesca a farsi reale. Di nuovo, in questo interregno siamo prigionieri della consueta variante del canone novecentesco (l’eccezione del comando, l’oblio dell’essere, la morte di Dio), e la storia resta confinata nella memoria dei vinti. Manca il desiderio dove manca la memoria della vittoria. Quando mi guardo attorno, nella stanza in cui lavoro, circondato da biblioteche piene di libri, in nessuno di questi trovo più speranza; c’è tutto quanto quello che è stato scritto dalla Rinascenza in poi, quello di cui ogni memoria è degna: eppure mi sembra in ogni momento che questi libri possano crollarmi addosso perché non mi indicano altro che la pesantezza di una sconfitta.
2. Il primo compito per chi lotta per «un altro mondo possibile» sarà dunque quello di rompere quella perversa dialettica di assoggettamento che della moltitudine mostra, da un lato, la potenza produttiva cooperante, ma nello stesso tempo ne mette in risalto la frammentazione oggettiva, la separazione individuale e talora l’ostilità corporativa. Noi stessi, militanti della sinistra operaia, abbiamo vissuto e lottato dentro contesti e opposizioni stolte e settarie. La nostra etica è stata ideologica e non pragmatica. Con la crisi dobbiamo chiudere quest’epoca di divisioni. «Tous ensemble», «tutti insieme», questa è invece la parola d’ordine da eseguire. Quasi due secoli di lotta di classe, ma soprattutto la contorta (entusiasmante per certi versi, orrida per altri) vicenda del Novecento e le sue perfide propaggini dissolutive hanno lasciato i lavoratori divisi e relativamente impotenti. La crisi, riportando i corpi e la loro sofferenza in prima linea, e la chiara percezione che la sua soluzione (se lasciata alle attuali classi dirigenti) potrebbe esaltare la peggiore restaurazione, mette ogni militante comunista davanti al dovere di ricostruire, dalla moltitudine, una forza di classe. Chiunque pensi di riprodurre il passato è folle. Risorgendo da una fatale per tutti noi discesa agli inferi, bisogna ribattezzare il nostro progetto. Internazionale comunista dei lavoratori, lo chiamiamo. Ed è un nome totalmente nuovo.
Sul resto non ho nessuna voglia di fare dispute scolastiche.
-in primis non capisco perché scomodare dei e luminari per trattare una questione disciplinare: ‘pierino, tonino e la matilda durante la lezione di biologia tiravano palline ai compagni e chiaccheravano fra di loro, con un comportamento egoista e antisociale’..ma ad ognuno i suoi gusti
– ma c’è una netta mancanza di logica (voluta o no non è importante) che fa cadere in perfide trappole ideologiche, dato che risulterebbe che prima del covid eravamo liberi e poi il governo (e forse altre forze oscure dietro di lui) ci ha tolto la libertà; detto con la massima serietà, cancellando per magia non solo il dominio del capitale su tutti gli aspetti della nostra vita, stampa, informazione e divertimento inclusi, ma anche la trasformazione in farsa di quel poco che restava di un’illusoria democrazia ‘rappresentativa’; come se il vulnus alla parvenza di libertà non fosse un governo nato da un golpe (pacifico ma sempre tale) ma gli inevitabili provvedimenti di igiene pubblica
– se non vogliamo vedere il mondo attraverso questi occhiali VR (da realtà virtuale) che ci vogliono mettere a tutti i costi (col grazioso aiuto di Cacciamben) converrà tornare a ragionare cosa sia la libertà, e in questo il libro di Graeber (di cui parlo nell’errore di Rousseau) dà spunti preziosi che riprenderemo; ma solo un accenno: gli indiani (d’America) della civiltà di Hopewell (c.a. 400-800 dc) erano individualisti incalliti, e nessuno poteva (nè ci provava) obbligarli a fare quello che non volevano; eppure vi erano momenti dell’anno in cui cooperavano come un sol uomo per il bene comune, fossero monumenti o giochi o incontri di meditazione, e nessuno si sognava di astenersi; chi lo faceva usciva per sempre dalla civiltà.
A proposito della democrazia ‘rappresentativa’ ho notato, da televisionaria che sono, che ogni quarto d’ora fior di inviati ci resocontano su possibili, necessarie, conflittuali, corrette, ridotte, integrate, tagliate, congiunte, alterate… misure legislative cui si applicano -discussivamente o registrativamente- proprio i nostri eletti diosacome *rappresentanti*… prima di essere in gran parte rispediti a casa.