di Antonio Sagredo
Torniamo dunque, tutti quanti noi, quando il cielo è in pace e finisce il giorno, come un infermo folle che sul letto si acquieta. Torniamo da viali chiassosi poco noti, dai luoghi strepitanti dei flâneurs, nei tranquilli cantucci di locande lussuose, bistrots lindi e colmi d’ogni sorta di pietanze; sono sfiniti i viali come un piacevole ragionamento di concreto disimpegno, e ci inducono a una domanda opprimente e ci allontanano da una sopportabile risposta. Oh, rispondete, cos’è?... quando saremo tornati da un consulto. In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili, erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo, e della chiacchiera. Il giorno limpido che scivola via dai corpi riflessi delle vetrate, l’aria pura che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti ha premuto e ha pestato coi denti i circoli dell’aurora, ha fronteggiato i tempestosi oceani delle chiaviche, s’è scrollata di dosso le scintille in fuga per la canna fumaria, è volata dal tetto decollando d’un tratto, e mirando una tempestosa sera primaverile ha sciolto i suoi anelli e s’è destata. E davvero non ci sarà da aspettare per l’aria pura che risale dai vicoli, che scivola via dalle labbra dei cristalli parlanti; e davvero non ci sarà da aspettare per improvvisare una maschera, non incrociare i volti. E davvero non ci sarà da aspettare per salvare e distruggere, e per oziare e per le notti dei piedi… che abbattono ed elevano una risposta sulla tua stoviglia. Non c’è tempo per noi due, e davvero non c’è attesa per mille decisioni certe e per mille realtà e reazioni dopo una mancata colazione: tè e mollica di pane. In quella sala d’attesa dove le donne erano immobili, erano mute nel convegno: orfane dell’arte del pettegolezzo, e della chiacchiera. E davvero non ci sarà più tempo di rispondersi: sarò vile e non sarò vile? Andare avanti diritto e salire sulle scalinate con la chierica ben in vista… e saranno muti per la folta capigliatura. Di sera mi vestivo al completo, il collo tutto libero e intorno nemmeno una fibbia allentata, e saranno muti davanti a grosse gambe e braccia! Non avrò timore di armonizzare gli universi? Nell’eternità non c’è tempo per indecisioni e reazioni che riempirà. Perché da tempo le ho ignorate, tutte le ho ignorate. Ho ignorato i mattini, le sere e i premeriggi, Non ho esagerato la mia morte a colpi di cucchiaio, ignoro i mutismi allegri senza battiti palpitanti sopra la musica che se ne va da un domestico spazio. Così, come stare al sicuro? E ho già ignorato gli occhi, tutti li ho ignorati, gli occhi che non ti mirano in una frase non espressa e quando non enunciato mi blocco su un pianoro, quando sono spuntato e mi raddrizzo sulla parete, come potrei allora finire a risucchiare tutti interi i miei giorni e le mie disabitudini? Perché non dovrei tutelarmi? E ho già ignorato tutte gli arti inferiori, li ho tutti ignorati, questi piedi senza armille, imbrunite e coperte, ma nel buio più totale liberate, quasi rasate!. È l’afrore che s’allontana da un vestito che mi fa annoiare così? Piedi sospesi su un tavolo, liberati da una sciarpa. E che dovrei tutelarmi, allora? E come finire? Muto, dall’alba sono fermo, affissato, nei larghi viali? E ho mirato l’aria buona che fluiva nelle pipe di tanti uomini in camicia insieme sui balconi? Non avrei dovuto o potuto essere tanti artigli levigati inchiodati sulle onde di mari tempestosi. E il pre-meriggio, il mattino, inquieto… sveglio, così! Irruvidito da corte dita, sveglio… attivo… o sanissimo realmente, in piedi sull’impiantito, qui lontano da te e da me. Non dovrei, dopo le leccornie, aver la debolezza di trattenere l’istante alla sua tranquillità? Malgrado abbia trangugiato e riso, bestemmiato e riso di nuovo, malgrado non abbia mirato la mia testa poco capelluta mancante su un vassoio… io sono un profeta – e questo mi interessa. Non ho visto l’eternità della mia pochezza infiacchirsi. Non ho visto il mortale valletto abbandonare il mio soprabito, ma aver [contegno, e alla lunga, ne ero confortato. E prima di tutto non vi sarebbe stato vantaggio, prima delle porcellane e delle leccornie, fra maioliche bianche e qualche mutismo tuo e mio, non ci sarebbe stato un vantaggio di rinascere con un pianto, di dilatare l’universo all’infinito e di fissarlo in una risposta liberatoria, di rispondere: “Non esiste ritorno! Lazzaro, Io non ritornerò! Lazzaro, rientra, perDio! Avevate ragione, Lazzaro, si risorge solo per finta, non vi dirò nulla!”. Se nessuno, sgualcendo il cuscino accanto al capo, rispondesse: “È quello che intendevo. Si, è così”. Ci sarebbe stato un vantaggio, prima di tutto, ci sarebbe stato un vantaggio, prima dei mattini e gli spazi urbani detersi: piazze e viuzze; prima i raccontini, le porcellane da tè, le sottovesti che strepitano sulla volta. E non è quello, o poco di più? È possibile non dire esattamente quello che non intendo! Ma come se assorbisse un lumicino schizzi di nervi in se stesso su una parete: ci sarebbe stato un vantaggio se , sgualcendo un cuscino o mettendo uno scialle sul corpo ritirandosi all’interno di una stanza, si rispondesse “Si, è così. Non è questo ciò che intendevo”. Si, sono il Principe PDNCQD, è il destino che lo vuole; non sono uno del suo seguito, uno che non servirà a renderlo meno pingue, ritirarsi da una scena o meno, dissuadere il principe, incerto indocile strumento irriverente, infelice d’essere inutile. Non politico, imprudente e disordinato, privo di ordinari verdetti, ma un po’ intelligente; quasi austero, o spesso davvero quasi un Bisbetico, spesso. Divento giovane, divento giovane. Indosserò calzoni srotolati per intero. Unirò i miei capelli torno al collo. E, sarò vile, a digiunare di una pesca? Indosserò calzoni di nera stoffa, e me ne starò fermo sui moli. Traducevano le sirene il silenzio una all’altra. Non credo che erano mute per me. Se ne venivano verso la riva per la sessa, scompigliando la nera peluria di onde avvilite quando svuota la bonaccia l’acqua né bianca, né nera.. Negli immensi spazi marini abbiamo prosperato accanto alle sirene non coronate d’alghe variopinte. Fino a quando suoni disumani ci assopiscono, e ci leviamo – su, dalle acque! (canto inverso s. t. e. ) Roma, 21/22 maggio 2015
il Bistrot di Antonio Sagredo è una operetta più che un poemetto, e si potrebbe cantare o declamare col recitar-cantando, ma tutto in falsetto, poiché la derisione e il sarcasmo sono contro ll malattie che vengono denunciate..
Versi che non lasciano spazio alla solitudine e ne all’inquietudine poiché è tutto scontato ed è tendente alla quiete alla luce come è scritto all’ultimo verso.
L’autore non usa qui il solito metro isterico e galoppante alla ricerca di chi sa quali immagini piene- ma sono vuote, come le varie tmosfere-per colmare la mancanza dI vitlaità: TUTTO è SOTTOTONO, inutilmente cerca il razionale in modo pacato, ma poi togli il velo o l’ombra e si rivela una rabbia a stento trattenuta.
Non sono convinta affatto che il verso di Sagredo sia “isterico” e invece di “galoppante” stranamente qui è dimesso e all’apparenza mordacemente insinuante.
Questi versi sono come creati in un padiglione di una clinica o di un ospedale, e sono quindi superficialmente asettici ma dotati di una linfa interiore che li sommuove e li rende pulsanti da realizzare un delle metafore mirabili, come “la nera peluria di onde avvilite”… che prelude a un uscir fuori dagli abissi (il vewrso finale) equindi un nuovo rinascimento.
Grazie, Sagredo.
La Poesia non si distrae per il Natale, prosegue diritta la sua rotta che include tuttele rotte possibili. Sono le persone che credono di amare la poesia che si distraggono… credono ma sono mancanti di fede. La Poesia non manca di Fede, è la fede stessa, e che decide a chi mancare. Ma la Poesia è misericordiosa prima di essere la paladina dell’Umiltà, e come tale accoglie tutti quanti. Ma non è una fede religiosa a cui bisogna \si deve\ credere necessariamente.
La poesia possiede quella consapevolezza della Umiltà, che non è gratuita, pur se qualche volta si avvicina al martirio.
E allora leggere un poemetto come Bistrot, che mi conferma Sagredo per telefono, sono versi minori deve pur significare una tendenza, e questa è scelta dal lettore.
Bistrot è dunque esempio di sublime asetticità.
g. a.
Sinceramente, anche se in alcuni tratti per me un po’ difficili da capire, leggo molta poesia, sensazioni vere che il poeta esprime attraverso cose, persone, natura , una vita. Batte un cuore grande vicino alla gente che si incontra a volte senza dare loro la vera importanza, il loro significato, che poi alla fine è il percorso della nostra vita, semplice onesta e dai, un po’ pazza.