Riordinadiario 1981
di Ennio Abate
Piero Del Giudice è morto il 30 agosto 2018. Ne abbiamo ricordato la figura (qui, qui, qui, qui). Qualche suo articolo era apparso prima anche su Poliscritture (qui, qui). Mentre proseguo la sistemazione del mio “riodinadiario”, per ricordare ogni tanto anche ad altri la sua figura, pubblico (scannerizzandola da una fotocopia: i riquadri sono stralci di articoli tratti dai giornali, qui illeggibili) una sua poesia, Oggi si leva, e due lettere del 1981. [ E. A.]
PIERO DEL GIUDICE A ENNIO ABATE
18.5. 81 Cuneo
Caro Ennio,
ho virato il primo anno di carcerazione preventiva (8.5) nella bolgia di S. Vittore – nella botola della sezione speciale. Dentro la botte di Diogene di una cella sono dunque stato a Milano per undici giorni; al mio ritorno qui ti scrivo; subito prima di partire avevo ricevuto una lettera di M. L. che mi aveva detto di averti visto.
Ti avrei scritto, Ennio, anche prima; considero la scuola ancora una condizione e una situazione rispetto alla generalità frammentata ed estraniata, non tanto per quello che si insegna ed impara ma per il possibile scambio. Croce e delizia questo scambio ‘umano’, alibi e quotidianità; considero gli anni di insegnamento all’Itis, ed in genere nelle scuole dell’hinterland, densi di rappresentazioni future (i ragazzi delle inferiori, i giovani delle superiori, l’emarginazione totale del ‘serale’, la realtà e il dibattito di quegli anni, la vistosità delle cariche dirompenti cultura, valori, modalità di modificazioni del reale cui noi eravamo rapportati storicamente); così mi sono anche messo a scrivere a scuola: una cartolina – una vostra risposta solidale con poche righe e molte firme – una mia prima lettera – un biglietto d’auguri della Vamc serale(ex-IV dove avevo insegnato l’anno prima) – una mia lunga lettera a loro – una mia lunga lettera a T. Vorrei tra l’altro sapere se e quanto queste lettere sono state divulgate tra amici ed ex-colleghi, poiché evidentemente l’intenzione era questa, entrare in rapporto collettivo con voi. Avevo consigliato a T. di fotocopiare e diffondere un minimo (anche per la diaspora all’Itis di Sesto) non so se l’ha fatto.
In ogni caso non intendo con te ripetermi, salvo aprire una discussione a distanza, ma allora aspetto da voi notizie, controfatti, attualità. Tieni conto che tra me e l’osservazione diretta del reale e del sociale, non c’è soltanto l’ormai più di un anno di separazione, ma la particolare separazione dello “speciale”, vero luogo di rimozioni, di cesure ed amputazioni delle normali facoltà. L’osservazione di me stesso e su altri di questa degradazione inesorabile è vistosa ed ha dell’incredibile; separazione che non esclude anzi accentua e accelera scelte di organizzazione separata, clandestinità, antinomia bellica. E tu sai quanto io fossi invece, e sia, diffuso e sociale; individuo e battitore libero; tutte ‘virtù’ che qua dentro non fanno che accentuare solitudine e sideralità dei rapporti (bus spaziali a parte). A Milano sono stato per ‘atti istruttori’, cioè due interrogatori; ed anche lì mi è apparsa quasi insopportabile la solitudine di fronte alla Legge, quando ho creduto di essere collettivo e parte sociale, non solo di un maturato sociale (fine anni 60-inizio anni 70) e della sua eclissi, ma anche dei suoi rapporti con la generale trasformazione/transizione e quindi anche con la transizione/modificazione di settori dello Stato (pensa soltanto alla Pretura del lavoro). Solitudine, la mia, di fronte alla convergente capacità del Giudice di capire una complessità sociale e di movimento e al tentativo di riduzione a ‘crimine’ di una lotta di classe e sociale amplissima.
Ma non ti voglio affliggere con le realtà giuridiche anche se, quasi per dovere sento di dire a te e agli altri amici e colleghi, che si sono nella fase attaccati a morte alcuni nodi vitali, alcuni principi-base che riguardano tutti. Per es. la ‘riduzione’ e la ‘riduzione a bestia’ (San Vittore) della galera ed in particolare delle carceri di massima sicurezza, non può non preoccupare tutti; i margini sono assai ridotti, il passaggio alla liceità della eliminazione pare ormai soltanto un passaggio formale. Tu sai che io non esagero e non melodrammatizzo. Per es. la distorsione della memoria etc. Discorsi su cui tornerò.
Probabilmente – non so più quante speranze vi siano di non passare di lì – bisognerà passare attraverso un inveramento ancora più fisico, ancora più mortale, per una riedizione inedita di quella dimensione ancora razionale, ancora prevedibile di mutamento cui almeno io facevo riferimento; e ti assicuro che avendo sempre avuto il terrore intellettuale possibile per il terrorismo (il salto, la sovradeterminazione, il meccanismo-panico etc.) non sono proprio a mio agio in questa realtà. Del resto abbiamo predicato invano, inascoltati profeti, curatori del reale senza capacità di modifica, o più semplicemente culture e civiltà morte.
Penso soltanto – per rimanere in tema – a tutti i motivi e le battaglie date – per es. – dentro al movimento dei precari, indicando nel territorio della qualificazione (o nel territorio in generale o nella disoccupazione intellettuale in generale) e non nella scuola di Stato la battaglia giusta e possibile sul precariato. Mi pare giusto, infatti, quanto mi scrive M. L., e cioè che l’insegnante della scuola di Stato gode di uno ‘status’ invidiato, oggi (volontà dello Stato di aggregare e compattarsi una sezione di classe) dentro la modificazione sociale, produttiva, lo sconquasso generale del mercato del lavoro etc.
Ma di questo più a lungo e con calma vorrei con te discutere se me ne scriverai, tenendo conto che ho davvero bisogno di un aggiornamento sul ‘fuori’, scuola e in generale; tuo e di altri colleghi.
La comunicazione con voi è importante, in una certa misura fondamentale.
Aspetto vostre in questo senso; da questa separatezza ci si salva anche e in misura di energia sviluppata nella comunicazione con l’esterno (leggevo una intervista a Teufel – credo un simpatizzante Raf stato negli speciali in Germania per quattro anni – che parlava di migliaia di lettere scritte in quel periodo.
Sempre a proposito di inveramenti, è possibile anche venirmi a trovare. Da due /tre mesi il Giudice Istruttore di Milano dà permessi di colloqui anche a non parenti; basta andare all’ uff. istruzione di Milano, dott.ssa Elena Paciotti chiederlo e poi mettersi d’accordo con mia moglie e mia sorella per il colloquio (sempre vetro e citofono) (sempre uno, comunque, alla settimana, quindi necessario calibrare calendario).
C’è poi una iniziativa di cui ti parlerà mia moglie di re-identificazione della mia figura, rispetto alle dosi massicce di criminalizzazione, ma è problema a parte rispetto a quello di avviare uno scambio di lettere con te/altri e stabile una tua possibile visita qui.
A presto, in una forma o nell’altra, saluti affettuosi ad amici, compagni e colleghi-ghe, un fraterno abbraccio, tuo
P. S. La forma “racc-express – r.r.” dipende anche dal fatto che ho qui il tuo indirizzo di casa e neanche sono sicuro che tu insegni ancora all’Itis. So solo che sei al “Parco Nord”
ENNIO ABATE A PIERO DEL GIUDICE
21. 5. 1981 Cologno Monzese
Caro Piero,
seguo come mi è possibile la tua vicenda. Ho letto tuoi scritti su “alfabeta” (febb.81; maggio81). Ho ricevuto la tua del 26 rivolta a R. e colleghi.
Sono rimasto a lungo impacciato su come e cosa scriverti… In una mia prima lettera – quando eri a Saluzzo (forse non la hai ricevuta) – me l’ero cavata “brillantemente” parlandoti del mio grigio “quotidiano” da hinterland (impressioni ricevute come presidente di seggio, notiziole sul “riflusso”, qualche raccomandazione fraterna). Gli scritti su “alfabeta2” mi segnalavano che tu ti muovevi su un registro troppo “alto” ed eri intenzionato a dialogare con altri interlocutori di cui io – provincialmente ?! – diffido. Da qui un mio rincantucciarmi.
La lettera del 26 genn. Su di essa mi sono soffermato a lungo, attirato e respinto. Ma ancora: come risponderti? Sono schietto: “luogo di rimozione, di cesure ed amputazioni delle normali facoltà” (come tu scrivi) non è soltanto il carcere, ma – purtroppo – anche la quotidianità di noi esterni (saprai del risultato dei referendum…!). Mi dispiaceva contraddire le tue aspettative. Mi sentivo male a polemizzare nel merito con la stessa franchezza di quando lavoravi all’Itis e te ne venivi con la tua bozza di volantino (una specie di “tagliola” pronta ad afferrare certi incauti sensi di colpa dei colleghi più tiepidi!). Da qui il mio ulteriore silenzio.
La tua ultima del 18.5 m’incoraggia a superare queste esitazioni.
Innanzitutto, sulla mia esperienza di “prof”. Attiro la tua attenzione sulla soggettività del mio punto di vista e sul carattere più modesto (magari asfittico) delle mie impressioni. Non sono in grado di fare un “ANALISI” dell’istituzione-scuola. Non mi riconosco neppure in quella da te tentata nella lettera del 26 genn. Tu vedi la scuola marginalizzata ed evanescente; e noi – i colleghi – con essa. Affermi che “calcolatori semplici e complessi, nastro e video-cassette possono sostituire praticamente tutto l’insegnamento di base”. Io tendo a sfuggire questo schema basato su un confronto tra “realtà immediata” e potenzialità “tecnologica”. Un confronto del genere può scrollare le illusioni “precapitalistiche” più becere, ma può indurre anche paralisi e frustrazioni, impedire lo stacco (della nostra generazione?) da fantasmi ideologici e inceppare la fragilissima ricerca di strumenti per una trasformazione che sia padroneggiabile (da noi, dagli studenti…) Non ho entusiasmi tecnocratici (anche se sono in un Itis Elettronica…sì, insegno al Parco Nord, siamo indipendenti dall’Itis di Sesto S. G.) per le macchine, né vedo in me e attorno a me gente capace di conoscerle e di programmarne un uso sociale. Tendo di conseguenza ad attestarmi in un’osservazione (forse pignola) della funzione attuale (congelata…) dell’istituzione, negli effetti che essa tuttora produce sugli “utenti”(ho in mente – frutto di letture un po’ disordinate e fuori moda – le cose scritte da Althusser; e certi squarci – magari da me troppo facilmente trasbordati sul mio campo d’osservazione – della “Nascita della prigione ” di Foucault). Pertanto, quest’anno scolastico ho cercato di registrare – sotto forma di un pseudo-racconto di un immaginario “prof”. (te ne spedirei qualche stralcio, se è possibile…) – la vicenda “scolastica” fuori da una logica oggettiva, “scientifica”. Non so dirti se ho soddisfatto – in questo modo – qualche desiderio da scrittore represso (che come tanti colleghi anch’io coltivo!) o se ho adottato una terapia per sopravvivere (magari tappandomi gli occhi!) in una condizione senza sbocchi. Vorrei non abbandonarmi allo sgomento nel riconoscere di essere incastrato in una professione che potrebbe stare nel museo dei “mestieri scomparsi”. Vorrei cogliere i germi di vitalità e di comunicazione (anche nevrotica, disturbatissima) che sussistono dentro l’atmosfera livida dei nostri collegi. Insomma, mi ostino – sebbene sempre più in difesa e in isolamento (dinamico, però!) – proprio a non “produrre nello studente” quello che un calcolatore “è in grado di fare cento volte meglio”, ma proprio quello che un calcolatore non è disposto a trasmettere.
E pensa che – pur nello sfilacciamento generale dei rapporti (d’ogni tipo) – si riesce ancora a sollevare (con un certo seguito, studentesco e di personale non docente, soprattutto) tematiche importanti. Abbiamo avuto un anno molto intenso, che ha portato una certa chiarezza sulle “disfunzioni” scolastiche e alla sospensione della preside da parte di un ispettore ministeriale. Non è il caso di dilungarmi, ma è la prova che la caduta di certe iperdecorazioni ideologiche e il gelo paralizzante che ci circonda non bloccano una dinamica sotterranea di fatti e di idee.
Certo non c’è più quella “mente collettiva” visibile cui si era abituati (magari nelle forme – oggi degne di caricatura – delle organizzazioni). Si è in isolamento (dinamico, ripeto!). I miei tentativi di costruire una risposta “collettiva” alla tua lettera – è giusto che tu lo sappia – sono per il momento caduti.
Io questo isolamento cerco di riempirlo – contenendo l’angoscia – con lo studio, scontando una certa separatezza dal mondo culturale oggi “centrale”. Faccio (fuori moda, ma con grande convinzione) letture che “ai bei tempi” erano riservate alle élites. Mi arrabatto sui testi di Marx (mentre impazza il post-moderno!) cercando di decifrarmeli e di stabilire il grado della sua obsolescenza. Trovo inquietante e stimolante Foucault. Scribacchio. Disegno (ti mando qualche fotocopia) ogni tanto. Leggo, anche in funzione delle discussioni con gli studenti (sono passato anch’io al triennio…). M’intrufolo in qualche dibattito come cauto osservatore (sono stato di recente al circolo della stampa dove ho sentito Bocca, Molinari, Rambaldi ed altri parlare appunto della situazione delle carceri e di S. Vittore in particolare).
Faccio una vita “monacale” (da abate?). Con i colleghi dell’Itis di Sesto non ho più contatti. Lì la situazione sembra essere molto statica. Come vedi, da questa mia collocazione riesco abbastanza a com-patire (intendimi bene!) la drammaticità della tua separazione dal tuo “habitat” sociale e culturale. Non basta. Non basta.
Troppo grandi sono gli sconvolgimenti che si succedono e le lacerazioni del tessuto sociale che ci sosteneva. Tu sei stato strappato da questo tessuto e scaraventato in una rete di rapporti più tremendi. Io e altri siamo sprofondati e raggelati in quella rete di rapporti quotidiani che pareva dovesse essere sfondata. È una grossa prova. Non so se ricorrere all’utopia (con rischi di religiosità incontrollabile?) o ribadire la fiducia nella dialettica del corpo sociale (pare – da quel che intendo – che anch’essa è strumento ormai spuntato.)
Non so darti “suggerimenti”, “consigli”. Non so neppure se l’aggiornamento sul “fuori”, che sarò in grado di produrre nelle mie lettere, risponderà alle tue aspettative. M’impegno comunque in questa comunicazione con te, malgrado i difetti e le lacune che prevedo. Farò circolare la tua lettera fra i colleghi. Prenderò i contatti necessari per venirti a trovare e partecipare all’iniziativa di “re-identificazione” della tua “figura”.
Interrompo qui. Scrivimi ancora. Fammi sapere cosa stai leggendo (o scrivendo). Ti salutano, con me, mia moglie e i miei due ragazzi.
Fraternamente.
Nota
Negli anni Settanta avevo incontrato Piero Del Giudice davanti alle fabbriche di Sesto S. Giovanni e Cinisello, dove – militante di «Avanguardia Operaia» io, di «Lotta Continua» lui – andavamo a distribuire volantini o a discutere con gli operai. Lo ritrovai poi all’ITIS di Sesto. S. Giovanni, come collega di lettere. Dal 1980, anno in cui fu incarcerato, fino al 1985 scambiai con lui numerose lettere e andai più volte a trovarlo in vari carceri. Avevamo prima e abbiamo mantenuto poi, dopo la sua scarcerazione, traiettorie di vita, passioni culturali e politiche, approcci alla realtà diversi e spesso in urto. Ma aver partecipato, ciascuno a suo modo, alla storia sociale e politica milanese, che dal ’68-’69 aveva per quasi un quindicennio dinamizzato settori operai, studenteschi e intellettuali “a sinistra del PCI”, spiega a sufficienza, secondo me, il persistere (mai facile e spesso teso) di un confronto-duello tra noi anche dopo la sua incarcerazione. Condividevo, infatti, sia il garantismo costituzionale, che in quegli anni fu di pochissimi intellettuali (tra cui Fortini stesso, Rossanda, Ferrajoli) sia una visione anticapitalista di ascendenza marxiana, nella quale non è contemplato il rifiuto morale ed assoluto della violenza. Le coraggiose prese di posizione di Rossanda e Fortini, in particolare, furono allora per me un saldo ancoraggio etico e politico contro ogni forma di pentitismo. E, scegliendo da quel maggio 1980 di scrivere lettere a Del Giudice detenuto in un carcere “speciale” – per me una forma elementare di solidarietà, che molti colleghi “democratici” della mia scuola giudicarono inopportuna o sospetta – sapevo che avrei dovuto, come ad una perquisizione, castigare la mia libertà di pensiero e controllare il confronto con lui, che era stato più libero in luoghi specifici e negli anni delle lotte. Il ricatto sottinteso da parte del giudice di sorveglianza era evidente: soltanto a “pie donne” e “san giovanni” era concesso scrivere o visitare un detenuto di un carcere “speciale”. Sapevamo entrambi che la nostra corrispondenza non aveva franchigia, al di là della distrazione o di una ipotetica lungimiranza degli addetti alla censura. Le nostre comunicazioni, perciò, furono in ogni istante ancora più di prima pressate da fantasmi. Eppure, malgrado condizionamenti e diversità di carattere, continuammo per cinque anni il duello che conducevamo da “liberi”. E affrontammo, sotto l’urto di stimoli esterni, i temi di quegli anni: la scuola, il “terrorismo”, il carcere, le trasformazioni della Sinistra, la memoria, le ipotesi di soluzione politica per i detenuti del 7 aprile e per i “lottarmatisti”, le spinte internazionali verso la guerra, il mercato dell’eroina, i giovani e – non ultimo – il “fare poesia”. Sapevo pure che per gli altri ero comunque uno che aveva rapporti con un “terrorista”. Poiché, conclusa l’esperienza di «Avanguardia operaia», non avevo scelto “prudentemente” di entrare in Democrazia Proletaria o di passare al PCI, attorno mi crebbe il vuoto sociale, simile per alcuni aspetti a quello di Del Giudice nel carcere “speciale”. In quei mesi, se evocavo ad amici o conoscenti la sua condizione e tentavo di farli riflettere almeno sugli “eccessi” della «politica di emergenza», mi accorgevo subito che non mi seguivano. Avevano incapsulato l’immagine di Del Giudice in un “allora” astorico e psicologico- Richiamavano sue scortesie o crudezze di espressioni o modi aggressivi, che, secondo loro, facevano già prima presagire un “destino” o convalidavano in parte le accuse formulate dai giudici contro di lui. A nulla valeva far notare che ora era un “altro”, un carcerato, uno sconfitto politico. In quegli anni erano già svaniti i criteri di giudizio comuni ai molti che avevano masticato politica fino al 1977-‘78. E senza più l’argine di ragionamenti politici, le antipatie personali e i sospetti predominavano. Avanzava quel processo di corruzione della cultura democratica che oggi s’è pericolosamente aggravato.
[*] In Italia i carceri “speciali”, sul modello di quelli nella Germania Federale, nacquero nel ’77. Lo Stato scelse di isolare i prigionieri politici e di limitare i loro contatti con i detenuti comuni. Dapprima furono realizzate «sezioni speciali» all’interno dei carceri normali. Poi essi vennero concepiti ex novo per garantire il massimo controllo dei detenuti. Uno di tali carceri, quello dell’Asinara, venne semidistrutto nel 1979 durante una rivolta dei prigionieri e poi chiuso. Nei carceri “speciali” veniva applicato l’art.90, che prevedeva colloqui con i vetri, isolamento, riduzione delle ore d’aria, ecc.
(da https://www.poliscritture.it/2021/03/24/un-filo-tra-milano-e-cologno-monzese/)
bella la lettera di Piero dal carcere, con la lucidità e la mancanza di rassegnazione che l’hanno fatto sempre apparire più grande della vita.
Quando l’ho incontrato dopo l’uscita aveva già iniziato l’esperienza di Sarajevo, insieme cesura col passato e nuovo slancio di quell’intreccio di intelligenza e passione che caratterizzava il suo percorso. La sua rudezza semplicemente insofferenza verso pigrizia e stupidità, accentuate dalla lucidità di lettura dei rapporti sociali in tutti gli ambiti interpersonali.
Non altrettanto lucida la sua lettura sociale ai livelli più alti, limite che riconosceva cercando fraterni tutori. Il passaggio dal circolo operaio di Sesto e Cinisello che fonda con giovani operai al circolo Lenin di Milano e Sesto ha questa valenza, col passaggio poi tutti insieme alla fusione col circolo Marx di Pisa nell’OLC. È stato un breve periodo entusiasmante, dove l’unione delle giovani avanguardie operaie della Marelli, della Breda, della Carlo Erba cogli operai tradizionali dell’Alfaromeo e dell’Innocenti, e tutti insieme coi lavoratori della scuola, dell’editoria sembrava attuare, non solo prefigurare, l’egemonia del nuovo soggetto politico-sociale di cui avevano parlato i Quaderni Rossi.
Più si sale più la caduta è dolorosa; per Piero l’ingresso in LC dopo la scissione dell’OLC è una sconfitta, anche perchè rappresenta la rinuncia a quell’orizzonte vasto che aveva intravisto ma si era poi sfilacciato. La scelta per alcuni altri della lotta armata non è un culmine ma un residuo.
Ma per capire Piero aiuta un episodio, quando incontriamo un segretario sindacale che ci tratta con disinteresse e sufficienza: al che Piero reagisce con orgoglio e passione spiegandogli che un segretario sindacale non è il capo ma il rappresentante dei lavoratori, un funzionario al loro servizio. Nefasto equivoco che per decenni PCI e sindacati di tutti i colori hanno perpetuato e che Piero vedeva e denunciava con chiarezza. Essere poeta è anche questo, per lui.
La risposta di Ennio Abate a Piero Del Giudice, maggio 1981, esplicita la situazione di crisi e di svolta rispetto a “quella ‘mente collettiva’ visibile cui si era abituati”, come scrive Del Giudice stesso (da ora: PDG).
Una fase, un periodo che vedo con distanza, “storicamente”, nel senso di un passato concluso, chiuso, non riattualizzabile (del resto allora non c’erano la Ue, l’euro… eravamo giovani, nati intorno alla guerra… e alla guerra civile, secondo la tesi dello storico Claudio Pavone). Il fatto che gli anni ’60/’70 appartengano fisicamente alle stesse vite nostre del presente, non per questo fa di quella appartenenza una continuità.
Ma voglio approfondire quella distanza, tra il movimento degli anni ’60-’70 e la situazione di divisioni e conflitti attuali, rapportandola anche a un evento che, nato tumultuosamente allora, è cresciuto in modo tale da permeare tutto il presente nel mondo: la “nuova dimensione individuale” (uso una espressione di PDG) femminile.
Il distacco femminile da quella politica degli anni ’70 è anche la ragione della distanza storica con cui vedo quegli anni. (Segnalo comunque il Corso online “Gli autonomi, le storie, le lotte, le teorie” annunciato dalla rivista Machina.)
È del resto lo stesso Ennio Abate ad avanzare un ardito paragone con la condizione di PDG nello speciale: “Sono schietto: ‘luogo di rimozione, di cesure ed amputazioni delle normali facoltà’ (come tu scrivi) non è soltanto il carcere, ma – purtroppo – anche la quotidianità di noi esterni…!”
Ed è la immediata associazione che anche io ho fatto tra la condizione nello speciale e quella di me, e non solo me, bambine e ragazzine, che in quanto femmine abitavamo un luogo -simbolico e fisico- “di rimozioni, di cesure ed amputazioni delle normali facoltà”.
Fin quando istruzione e femminismo non hanno reso molte, moltissime, “individue e battitore libere”, per riprendere un’altra espressione di PDG. (Escludo quindi si tratti di una lettura neoliberista dell’individualismo!)
Questo diventare individue è oggi mondialmente diffuso, e PDG stesso si rende conto del problema quando si trova nella ex Jugoslavia:
“Ci sono state donne stuprate. Ne ho visto, perché avevo intervistato delle ragazzine. La cosa che mi colpiva nelle altre donne, quando mi confrontavo su questo discorso, era una specie di orribile passività della donna rispetto allo schema cacciatore/preda, che sollevava la donna da una responsabilità, da una conquista di uno spazio. Certo non sono tutte così. Ci sono le intellettuali, le scrittrici, le donne intelligenti, quelle che sfidano. Ma c’è un letto di tenebra dove sta l’anonimato della gente […] Una delle cose per me più irritanti era vedere come queste donne in realtà fossero lì e, sì, ma sono cacciatori, invece di esser delle bestie!”
Passività, ir-responsabilità, letto di tenebra… La condizione femminile era così, diffusa, anche quando io ero bambina. Ma PDG ancora non focalizza bene il problema, se scrive di quelle donne che “era un po’ guardare il mondo con un asse spostato rispetto al nostro”, in cui la parola *nostro* ha almeno due significati: quello cui probabilmente pensava lui, cioè del mondo “sufficientemente democratico”, e l’altro che è invece abbagliantemente chiaro per me: nostro cioè maschile e non femminile.
Perché non si vede chiaramente che la rottura in quella politica anni ’70 ha un segno di sesso? Che cioè le ragazze quella politica la hanno disertata perché estranea alla questione sostanziale della loro libera esistenza in una autonomia possibile appena raggiunta?
Per questo dico che questi scritti e scambi relativi a quei due quasi decenni hanno per me il rilievo di una vera distanza, di un periodo concluso, non più riattivabile in alcun modo.
Penso che riguardando quei tempi salti all’occhio una comune miopia: il libro di Graeber di cui ho parlato in Rousseau, col suo rovesciamento della storia antropologica e dei miti sulla natura umana, ci mostra quanto ancora fossimo condizionati e accecati da miti fondativi introiettati anche da noi. Ma anche la difficoltà di un compito di ricostruzione da zero della visione del mondo che spiega, nella sua necessaria improvvisazione, le difficoltà del movimento di allora di trovare un’uscita dal labirinto.
Ci sono due termini paralleli: l’origine patriarcale dello stato e dei rapporti di oppressione da una lato, la possibilità di libertà solo in una organizzazione sociale senza catene.
Abbiamo separato i due termini e ne abbiamo fatto movimenti distinti..e non ne siamo più usciti.
Comunisti e femministe rimasti con un pugno di mosche in mano..qualcuno un poco più consapevole, ma tutti ancora impigliati nella tela.
Se scrivi “la possibilità di libertà solo in una organizzazione sociale senza catene” sei impigliato anche tu in una soluzione al futuro, e globale: il sol dell’avvenire. Il femminismo condivide invece la trasformazione ora, un tempo che è il tutto mentre avviene e cambia nel suo interno. Così è stato ed è ancora per quel rovesciamento di presenza che riguarda le donne (anche in Cina) e di conseguenza gli uomini: e affronta “quel” conflitto. Non ci preparavamo per il domani ma eravamo e siamo già il cambiamento. Ci siamo prese la libertà, anche se non abbiamo abolito la miseria, lo sfruttamento e la guerra… ma finora neanche voi.
spiacente, non vi siete prese alcuna libertà…
a meno che tu chiami libertà lavorare in ufficio o in fabbrica o ….8 ore al giorno a fare cose di cui non ti interessa nulla e avere 0,2 ore libere per te—tranne il fatto di sentirsi un poco più libere dentro; ma dopo un poco molti lo trovano frustrante. E non credo sia libera neanche una manager da 100 milioni di stipendio.
il 68 è stato bello perchè si vedevano giovani (di tutti i sessi) felici perchè si impegnavano a fare ciò che li interessava e si sentivano padroni del loro presente e futuro..finchè è durato.
Poi non sto parlando della libertà al futuro, ma di cosa è stata nella storia: abbiamo avuto epoche in cui c’era (che contrariariamente alla vulgata corrente non erano epoche selvagge nè di caos) e altre in cui è stata eliminata. E la libertà è inscindibile da sfruttamento e miseria e guerra e…cioè dalle condizioni materiali e sociali concrete in cui ti trovi a guardare il mondo. Le prigioni con un bell’arredo e pasti abbondanti come era quella dei lord in galera per debito nell’Inghilterra vittoriana toglievano solo una delle componenti della libertà reale: oggi siamo meno liberi di loro, femmine e maschi.
“spiacente, non vi siete prese alcuna libertà…” Che ti devo dire? Sei cieco? Sordo? forse solo maschio… Cerca, in tutto il mondo, quante donne man mano partecipano all’istruzione, alla politica, alla cultura, al lavoro e alle professioni, rifletti sul calo dei matrimoni, dei figli… Rifletti pure sulle politiche dei diritti civili. E poi: guardale le donne oggi, quelle che combattono e quelle che godono e quelle che parlano e che vivono autonomamente. Ma a quale dove sei rimasto arretrato?
La libertà “che c’era” riguardava di solito le donne-ragazze di ceto privilegiato. O le regine.
“La libertà è inscindibile da sfruttamento e miseria e guerra e…cioè dalle condizioni materiali e sociali concrete in cui ti trovi a guardare il mondo”, quindi TU non sei libero? Perchè la questione è: viene prima la libertà o lo sfruttamento? Dato che, senza libertà propria, chi combatte lo sfruttamento?
è vero che rispetto al 700/800 quando le donne vivevano nelle fabbriche, lavorando di giorno e violentate di notte, oggi la situazione è molto migliore. Ma è la prima volta? Se diamo retta a Graeber, (che M. Bloch considera il miglior antropologo del mondo, e che ha rovesciato molti luoghi comuni-infondati) :”per gran parte della nostra storia gli esseri umani si sono spostati avanti e indietro fluidamente tra diversi ordinamenti sociali, combinando e smantellando gerarchie regolarmente, com’è che siamo finiti invischiari in un solo modo? Com’è che abbiamo perso la coscienza politica una volta così tipica della nostra specie? Come siamo arrivati a trattare eminenze e servitù non come espedienti temporanei o teatrali ma come elementi inevitabili della condizione umana?” E questo dopo aver tratteggiato le società africane dove sono egualitari nel corso dell’anno ma alternano mensilmente ordini rituali dominati dagli uomini con ordini dominati dalle donne. Dopo aver detto di Creta che non era maschile ma matriarcale, società di donne e uomini liberi; di altre città di decine di migliaia di abitanti (in Mesopotamia, Ucraina, Turchia) senza gerarchie. Quindi dobbiamo toglierci i paraocchi con cui vediamo una socità autoritaria e priva delle libertà essenziali come l’odierna (poi Graeber fa anche una storia di ciò che si può chiamare libertà) come inevitabile o un progresso rispetto alla nostra storia generale. E combattono per la libertà proprio coloro che l’hanno persa-ma che non si sentono dentro schiavi.
Trovandomi in una situazione storica che, per quanto mi riguarda come donna, è in movimento, i paragoni li posso fare con mia madre le mie nonne e perfino una bisnonna. Di queste conosco soprattutto quella libertà interiore che si è trasmessa attraverso le generazioni fino a me. Quando mi interesso della parte femminile antropologicamente leggo, soprattutto nella tradizione religiosa, valori simbolici decrescenti attribuiti al femminile. Il mondo greco e romano era patriarcale e il cristianesimo prese presto questa piega. Lungo il tempo magnifiche donne affermarono la loro libertà – libertà rispetto a un quadro che le ammutoliva.
Ma cosa mi dicono le antiche società matriarcali e non gerarchiche? Che il presente è ricco e aperto.