di Ennio Abate
‘Salierne’ rime cu ‘vierne’ e ‘eterne’… O scrivette, in italiano, Alfonso Gatto, il poeta salernitano che non ho mai conosciuto da vivo. Ma a rime rimane pure si l’aggia scritte in dialett’e…E. tra le altre rime, mi segno anche: fraterno, governo, quaderno, inferno, interno, inverno, materno, padreterno, scherno, subalterno. (Avranno a che fare con questo narratorio).
E l’inverno ha a che fare con i venti? Cumme no! Ah, ve ricurdate? Che viente puliti, sicche, ca te tagliavan’e a faccie? E re gelune ncoppa a pieghe re recchie? Si, ricordo. Era difficile – e, dunque, impresa di cui andare orgoglioso da ragazzo – avanzare con l’ombrello aperto a lungomare in una giornata di forte maestrale. (Il tema dell’omino con l’ombrello, impacciato e quasi travolto dal vento, è comparso nei miei disegni decenni dopo…).
Il ricordo del vento d’allora, però, è legato a un inverno preciso. Era il 1948. Il giorno non so dirlo ma, mentre io e Eggidie stavamo alla finestra guardando fuori, – ploft! – il vento fece crollare davanti ai nostri occhi una parete di tufo che i muratori avevano già tirato su all’ultimo piano – il quarto? il quinto? – di un edificio in costruzione. Là, un po’ più in basso rispetto a noi che abitavamo un appartamento al terzo piano di una palazzina. Sì, scendendo, dopo la prima curva. Era uno degli edifici massicci che , dopo il nostro arrivo, cominciarono a spuntare in via Sichelgaita; e poi, anno dopo anno, l’invasero. Più tardi – io ormai lontano – la stessa sorte toccò a tutte le colline attorno alla città.
Spesso il vento – libeccio? maestrale? (mai saputo bene i nomi dei venti o degli alberi…) – tirava forte sul mare. E allora quella potenza, che a noi diventava visibile solo quando vedevamo piegarsi gli alberi o strascinarsi e mulinellare le foglie sul terreno o nell’aria, muoveva e cavallune.
E sempre da quella stessa finestra io e Eggidie col naso e la fronte schiacciati sui vetri freddi – allora si usavano ancora dei chiodini e uno stucco verdastro per tenerli bloccati alle cornici di legno delle finestre – seguivamo con ansia l’ondeggiare di una barca che faticava a rientrare nel porto di Salerno.
A tratti – per quanto tempo? – scompariva dietro le pieghe crescenti re cavallune con le loro creste biancastre e minacciose. Era affondata? Attesa inquieta e poi sollievo quando ricompariva. E ancora ansia prolungata quando ci pareva che, malgrado la tempesta, s’avvicinasse, ma sempre troppo, troppo lentamente.
Chiamavamo pure Nannine, che smetteva di cucinare o pulire e restava a guardare con noi. Finché la barca scompariva alla nostra vista dietro la quinta della collina ad ovest. Segno che stava ormai quasi per approdare.
Sempre in quell’inverno ma in un altro giorno, che sempre non ricordo, sentii mia madre parlare del porto. (Lo avrei visto da vicino qualche anno dopo, quando andammo d’estate a fare i primi bagni). Era sempre un giorno di tempesta. Lei ci chiamò alla finestra e ci mostrò una nave che s’avvicinava. A differenza delle barchette dei marinai, avanzava solenne e salda, indifferente ae cavallune. Ci disse che forse era una di quelle arrivate dalla Russia per portare un carico di grano.
attraverso gli sguardi di due bambini alla finestra, che possono solo osservare, si apre già una visione del mondo, là dove le forze della natura scatenate, vento e mare in tempesta coalizzate, sono potenze soverchianti la barchetta dei pescatori in rientro nel porto. I bambini sono in ansia per la sorte del fragile legno e del suo contenuto…Una sfida per la sopravvivenza…La madre riporta l’attenzione dei bambini sulla grande nave che sfida il mare in tempesta, ma con piu’ chance di arrivare in porto…Una nave russa che porta grano? Nell’inverno 1948, le prime avvisaglie della guerra fredda? Potenze naturali e potenze umane: le prime ciecamente crudeli, le seconde scientemente…Dal racconto resta un gran rumoreggiare di onde in movimento, di piccoli remi affannati e di motori rombeggianti… I colori sono blu cupo e grigi, gli sguardi intensi…Bello