APPUNTI PER UN RITRATTO POLITICO DI FRANCESCO GIALLOMBARDO
Salutano i miei immigrati contenti degli stracci più colorati che dopo anni di cottimo hanno indossato (E.A.,Samizdat Colognom, Ed.CELES, gennaio 1983)
di Ennio Abate
Non dovrei essere io a scrivere questo profilo politico di Francesco Giallombardo, sindaco socialista di Cologno dal 1980 al 1985, da tempo isolato, dimenticato e scomparso il 30 dicembre (2021) scorso. Lo avrebbero dovuto scrivere i suoi amici di partito o i suoi avversari politici o l’attuale sindaco, Angelo Rocchi. Ma parlare di Giallombardo significherebbe tirare in ballo la questione della sinistra a Cologno Monzese e del suo ruolo controverso nella storia di questa città: un argomento scomodo se non scottante. E, perciò, quasi tutti si sono limitati a reticenti e sbrigativi RIP.
Ne parlerò io, dal 1964 abitante di questa città (o “quasi città”); e per quel tanto o poco che so di lui, avendolo negli anni ’70 conosciuto e contrastato come avversario politico. Chiarisco in partenza che non mi occuperò delle leggende o delle dicerie su Giallombardo (né delle positive né delle negative). Anche se avessero elementi di verità. E per due ragioni: – non ho elementi sufficienti per pronunciarmi in modo meditato su di esse (altri, se li hanno e se vorranno, ne parleranno); – come nel famoso racconto de «La lettera rubata» di E. A. Poe, c’è una parte ben palese dell’operato di Giallombardo, del PSI colognese, della sinistra di una volta e delle sue attuali filiazioni; ed è del tutto sufficiente per ragionarci su e giudicare. Evitando, dunque, santificazioni o demonizzazioni e mantenendomi sul piano di un discorso onesto ma non neutrale, spiegherò più distesamente perché Francesco Giallombardo è stato per me – come ho già scritto giorni fa al momento delle pubbliche condoglianze su FB – il «testimone simbolo della fondazione caotica di questa città e della sua “meridionalizzazione”».
Giallombardo, il PSI e il ceto politico di Cologno tra dopoguerra e anni ‘80
È un dato di fatto che nella storia di Cologno Monzese il ceto politico (di tutti i partiti) non ha mai brillato per grande intelligenza politica o sensibilità sociale né per indipendenza di giudizio rispetto alle direttive delle segreterie di partito (di Milano o di Sesto S. Giovanni). È ben noto, infatti, che in passato (ma tuttora) i dirigenti politici e sindacali giungevano assai spesso dall’esterno, inviati, appunto, da Milano o da Sesto. (E sarebbero da capire le ragioni di questo prolungato stato di minorità del ceto politico colognese. Tante le possibili domande: il tessuto sociale di questa città non è stato mai in grado di selezionare leader locali di rilievo? Forse certe carriere sono state o sono bloccate dai rigidi rapporti gerarchici degli apparati di partito oltre che dalle invidie interne alle cerchie locali?).
Ma veniamo a Giallombardo. E’ stato uno delle migliaia di immigrati arrivati dal Sud (lui dalla Sicilia) con la proverbiale valigia di cartone. Era in possesso della sola licenza di scuola elementare e ha fatto la sua gavetta (pare come venditore di giornali e negoziante di scarpe). Ma la vera ascesa sociale cominciò per lui con la sua adesione (non so in che data) al PSI. Uomo di partito e leader sociale prima; poi sindaco (nel già detto quinquennio 1980 – 1985), la sua figura politica in parte rientra nel grigiore del ceto politico locale ma in parte se ne distingue. Tra i politici locali (e non solo di sinistra) è stato, infatti, uno dei più capaci: a tenere unite le varie “anime” o correnti del suo partito, a farsi riconoscere e rispettare anche dagli avversari politici, a ottenere un vasto consenso elettorale ma anche manifestazioni sincere di simpatia.
Va poi detto che dall’immediato dopoguerra il PSI ebbe a Cologno una sua roccaforte (soprattutto elettorale), tanto che fino agli anni ’80 i sindaci furono tutti socialisti: Barbanti, Cappalunga, Bonalumi, Giallombardo, Cantalupo. Che a livello nazionale questo partito ruppe, nel 1963, la precedente alleanza con il PCI (la sinistra di allora) per entrare nella «stanza dei bottoni» e dar vita con la DC al primo governo di centro-sinistra. Infine, per capire che tipo di socialista egli fu, serve sapere che il momento d’oro della sua carriera politica a Cologno coincise con l’ascesa alla segreteria del PSI nazionale di Bettino Craxi, di cui fu amico. Proprio con Craxi – si sa – cominciò il “nuovo corso” del partito quando, nel 1976, nella riunione del Comitato centrale del PSI al Midas Hotel di Roma, egli costrinse alle dimissioni il segretario di allora, Francesco De Martino, rompendo così definitivamente il residuo legame sia con il PCI e sia con il pensiero di Marx. (A quest’ultimo Craxi contrappose polemicamente una sua versione del pensiero socialista libertario e liberale di Proudhon e Carlo Rosselli). Giallombardo, dunque, è stato un socialista craxiano. E di Craxi ha seguito le sorti: ascesa (la “Milano da bere”) e caduta (nel febbraio del 1993 Craxi dovette dimettersi dalla segreteria del PSI in seguito all’inchiesta di “Mani Pulite”).
Che ruolo hanno avuto Giallombardo e il PSI di Cologno nella storia della sinistra colognese nel periodo che va dal dopoguerra agli anni ‘80? E, cioè, nel periodo del «boom economico», dell’industrializzazione e del caotico o “biblico” processo di immigrazione al Nord di masse di italiani dalle zone più povere del Sud o del Veneto; e della «nascita di una città», come ha intitolato Giovanni Mari il suo libro su Cologno Monzese.[1]
Va considerato che il suo partito, il PSI, anche quando in diverse elezioni politiche la DC otteneva la maggioranza, nelle elezioni comunali risultò sempre il primo partito[2]. E fu, per la sua rilevanza, il partito dove si manifestò con più durezza lo scontro tra gli interessi che in quei cruciali decenni si combatterono per definire lo sviluppo e, dunque, il paesaggio e la nuova fisionomia economica, sociale e ambientale di questo territorio (quella che ora abbiamo sotto i nostri occhi). Nelle riunioni di segreteria del PSI vennero affrontati dapprima (e risolti nel modo che tra poco dirò) i principali dilemmi – economici, politici e culturali – di quei due decenni. Che riassumerei in poche, elementari domande: che fare dei terreni agricoli (agli inizi degli anni ’50 Cologno era di fatto un paese contadino con circa 5000 abitanti)? se bisogna industrializzare, quali industrie attirare a Cologno? se c’è bisogno di numerosa manodopera, quale risposta dare alle esigenze di casa, trasporto, istruzione degli immigrati che arrivano qui con le loro famiglie?
È da quel confronto/scontro in un PSI Giano bifronte, che da una parte guardava alle élite e dall’altra alle masse, che emerge la preminenza politica di Giallombardo. Come? Attraverso quali scelte o alleanze o esclusioni? Per dirlo, ci vorrebbero informazioni che a me mancano. E tuttavia, sulla base della mia esperienza d’immigrato e di militante politico (di cui dirò alla fine di questo scritto), posso ipotizzare alcune cose: – avendo Giallombardo assaggiato, almeno all’inizio della sua carriera, le sofferenze ma anche i sogni di emancipazione degli immigrati come lui – quelli che poi hanno costruito materialmente i palazzoni di questa città -, diventato “uomo d’affari” e capo politico autorevole, meglio e più di altri seppe forse tener conto dei bisogni della gente; per – diciamolo – mediarli pragmaticamente con gli interessi degli “affaristi” e degli “industriali”, usando entrambi (quando gli riusciva) a vantaggio del PSI e della personale carriera politica.
Ci sono testimonianze (da vagliare ma da non sottovalutare) sulla sua capacità di stare “in mezzo al popolo”, di essere informatissimo sulle difficili condizioni materiali di molte famiglie, di aiutare (in modi generosi o calcolati in base a precise condizioni) chi veniva a trovarsi in difficoltà o i disuccupati o i poveri che a lui ricorrevano. Forse – sempre mia ipotesi – non si dimenticò mai della “puzza della miseria”. Anche se è certo che la sua filantropia, che era nel solco della tradizione socialista, come quella cattolica lo è nella dottrina sociale della Chiesa, resta parziale e secondaria rispetto alla collaborazione, ovvia e preponderante, con i potenti.
Posso ipotizzare ancora che, man mano che ebbe più voce in capitolo nel PSI, grazie alle sue conoscenze o amicizie con affaristi importanti, e specie con quelli della cerchia di Craxi, li consigliò e li spinse a concedere commesse e appalti alle piccole cooperative costruttrici “rosse” (socialiste soprattutto), le quali fiorirono numerose sotto l’ombra protettrice sua e del suo partito.
In conclusione, direi che hanno ragione quelli del PSI quando dicono: «Cologno l’abbiamo fatta noi socialisti». Sì, ma subito dopo questa orgogliosa rivendicazione dovrebbero partire varie domande (e trovare risposte). Ad esempio: cosa pensare di questa loro «fondazione della città» di Cologno Monzese? quale giudizio politico e storico dare sull’operato del PSI (nazionale e locale) e, per quel che gli spetta, sull’operato di Giallombardo? tra il Giallombardo espressione a livello politico di forze sociali popolari (ex contadini, studenti, impiegati, cooperative, commercianti, piccoli imprenditori) e il Giallombardo (forse) funzionario di grossi capitalisti (affaristi, industriali del mattone, grandi cooperative “rosse” già avviate a diventare imprese capitalistiche) quale ha prevalso? il PSI, gli amministratori socialisti, Giallombardo, hanno fatto tutte “cose buone”, “hanno fatto anche cose buone”, hanno fatto “alcuni errori”? quali classi o gruppi sociali essi hanno avvantaggiato di più? sono stati un un argine alla speculazione selvaggia o alla «vandalizzzazione» del territorio di Cologno o ne sono stati i promotori, gli alleati subordinati e a volte i complici? e infine, per ampliare il quadro all’intero sistema dei partiti, quali responsabilità (locali e nazional) vanno addossate al PSI e quali al PCI o alla DC?
Personalmente non ho quasi più dubbi: gli interessi dell’«industria del mattone» o degli affaristi, che avevano subodorato subito i profitti ricavabili anche qui a Cologno Monzese da una espansione urbanistica senza regole o con regole da Far West ed erano ben disposti a finanziare le campagne elettorali dei partiti più docili alle loro esigenze, prevalsero alla grande sui bisogni, quasi sempre urgentissimi e purtroppo disorganizzati della manodopera immigrata, tra l’altro poco o nulla sindacalizzata o politicizzata, che nei casi migliori ottenne le classiche briciole del grande banchetto.[3]
Espansione edilizia a Cologno e vandalizzazione di un territorio
Per rafforzare le mie ipotesi, ho ripassato un po’ della storia di Cologno seguendo (e saccheggiando: vedi note) il prezioso libro di Giovanni Mari, che è una vera miniera di dati, fatti, nomi. Da queste pagine si vengono a sapere notizie , che magari “si sanno già”, ma presentate in forma precisa e documentata fanno un altro effetto. Ad esempio, alla spicciolata, Mari ci dice che: – i peggiori episodi di speculazione edilizia avvennero nei primi anni Sessanta; – non solo il PSI ma anche gli altri partiti erano convinti che «alcune cose non si dovevano fare, però qualche volta dovevi soggiacere, per quieto vivere con le altre forze politiche» (Mari, pag. 221); – anche se «in quel periodo la giunta era retta da una maggioranza social-comunista […] c’erano delle spinte che venivano dall’esterno» (Mari, idem); – quello sviluppo fu davvero «selvaggio» (Mari, pag. 222). E leggendo attentamente questo libro, possiamo approfondire in dettaglio i temi principali della storia di questo territorio: le vendite dei terreni agricoli da parte di un gruppo ristretto di grandi famiglie “colognesi” (i Casati-Venino ad es.); l’abusivismo e i vantaggi relativi per chi vi ricorreva; la successione nel tempo della costruzione dei quartieri più giganteschi di Cologno (il quartiere Stella; il condominio di viale Lombardia 83; quelli dell’immobiliare Bogliardi in via Bolzano; il cosiddetto Colosseo di via Boccaccio (operazione condotta in porto da socialisti e democristiani nel periodo del centro-sinistra, 1962-’75, con appartamenti – si dice – offerti a prezzi scontati). Eccetera.
E, però, gira e rigira, sta di fatto che gli abitanti di Cologno hanno ricevuto un dono avvelenato: abitazioni tirate su senza un progetto generale minimamente razionale, un ambiente sempre più devastato da continue colate di cemento che hanno coperto quasi interamente il territorio di Cologno. Come sta di fatto che il fatidico Piano Regolatore arrivò troppo tardi. A misfatti compiuti: «“Chiudere la stalla quando i buoi sono fuggiti”, e ad esempio la figura a cui ricorse il Giorno per riassumere gli obiettivi del piano regolatore adottato nel 1969» (pag. 185).
Di fronte a quest’atrocità urbanistica il giudizio può essere, dunque, uno solo e amarissimo: «il più vandalico sfiguramento del paesaggio urbano dell’intera storia d’Italia» (Mari, pag. 161) è avvenuto anche qui, a Cologno. Ed è stato compiuto con le “migliori intenzioni”. Da chi? Si può buttare la croce della vandalizzazione del territorio tutta sul PSI e Giallombardo? Mari insiste in modo per me convincente sulla trasversalità delle decisioni, sulla fiducia acritica nel progresso (e tardi, troppo tardi, nel PRG) di tutto il ceto politico di allora, sulle contrapposizioni ideologiche che però si appianavano in una convergenza “pragmatica” tra maggioranza e opposizione[4]. Eppure le responsabilità restano. E sono del ceto politico di allora; e, tra i partiti, soprattutto del PSI (e, per la parte che gli spetta, di Giallombardo).
Tra meridionalizzazione e colognosità
Mi sono chiesto quali mutamenti nella mentalità di massa (quindi degli abitanti di Cologno) hanno prodotto i processi economici e politici descritti dal libro di Mari. La mia (ancora una volta) ipotesi è che ci sia stato uno scontro – sotterraneo e confuso – tra classi sociali. Ed esso si è presentato anche nella forma di uno scontro culturale tra spinte alla “meridionalizzazione” e controspinte alla “colognosità”. Finché, ad un certo punto, invece di produrre un salto, le due spinte si sono avvitate su se stesse, si sono confuse, intrecciate, sporcate a vicenda, producendo l’attuale, penosa “palude culturale” in cui tutti oggi ci dibattiamo.[5]
“Meridionalizzazione” di Cologno? Non è un cliché di destra, leghista? Non lo credo. Già negli anni ’70 e ben prima che la Lega spuntasse, avevo parlato di Cologno Monzese come «guanto rovesciato del Sud» e mi conforta che anche uno studioso giovane come Mari abbia usato questo termine [6]. A differenza di lui preciserei, anzi, che per “meridionalizzazione” non intendo tanto la preponderanza numerica dei meridionali tra gli abitanti di Cologno o una generica “tonalità emotiva” di solito ad essi attribuita (fatta di allegria, cordialità, convivialità, maneggi pulcinelleschi, rilassatezza morale di matrice mezzo pagana e mezzo cattolica). E mi riferirei piuttosto alla permanenza anche in chi ha avuto il coraggio di migrare di oscure memorie e di vischiosi legami familistici.
Della “meridionalizzazione” intendo sottolineare soprattutto l’ambigua valenza politica che ebbe nei decenni dai ’50 agli ‘80. Secondo me, essa allora si sposò (superficialmente) all’etica sociale che prevaleva (altrettanto superficialmente) nel ceto politico nazionale e locale di allora. E, cioè, all’etica del progresso, della modernizzazione, dell’attrazione edonistica verso gli stili di vita che s’imponevano a Milano,[7] del resto confinante con Cologno e meta quotidiana – per ragioni di lavoro o ricerca di divertimento – di tanti suoi abitanti. Ho detto ‘superficialmente’, perché sotto quella “meridionalizzazione”, apparentemente dinamica e modernizzante, ho sempre colto anche uno scetticismo cupo e una propensione a diffidare o persino a respingere gli stessi modesti cambiamenti proposti dai partiti di sinistra, che pur con le loro roboanti retoriche sulle “riforme” (il PSI) o sull’essere partito di “lotta e di governo” (il PCI) in fondo accettavano una mezza emancipazione subordinata (al Capitale).
Moltissimi immigrati (se non quasi tutti), anche quando aderivano al PSI e al PCI, continuarono ad affrontare individualmente o solo con l’appoggio di reti parentali gli ostacoli, materiali e psicologici, che inevitabilmente si parano di fronte a quanti provengono da mondi contadini o provinciali, quando entrano in contatto (e in conflitto) con le regole rigide imposte dalla vita (allora) industrializzata. (Si pensi al film «Rocco e i suoi fratelli» o alle testimonianze raccolte da Alasia e Montaldi in «Milano, Corea»).
C’era e c’è, poi, un’altra mentalità: quella che ho chiamato della «colognosità». Questa ha meno ambiguità e più rigidità della “meridionalizzazione”. E’ contrassegnata da un atteggiamento mentale localista: sospettoso verso le novità, difensivo, geloso, nostalgico, inchiodato quasi alla vita di una frazione spesso minuscola di un territorio.La quale viene ancora vissuta come paese o comunità o “piccolo mondo antico”, anche se questa frazione era ed è, come il tutto, a cui comunque è legata, in continua trasformazione. (Penso – e qui parlo a chi a Cologno vive – alla mentalità di certi abitanti di S. Maurizio al Lambro o all’arroccamento introverso di certi tenaci attivisti del Quartiere Stella o delle parrocchie).
Con gli anni la spinta alla “meridionalizzazione” di Cologno ha finito per mescolarsi e confondersi con la controspinta alla “colognosità”. E in sintonia con il logoramento del vecchio sistema politico, col venir meno della guida culturale della Sinistra (Mani pulite, caduta Craxi, implosione dell’Urss, fine PCI, ecc.), con gli effetti della globalizzazione e le reazioni ad essa (“piccole patrie”, sovranismo, populismo) abbiamo assistito al massiccio e sorprendente trasloco di tanti ex PCI e ex PSI verso la Lega o Forza Italia. E la “colognosità”, sbeffeggiata negli anni ’70, mano mano è diventata attraente o consolante per tanti meridionali ormai stabilizzatisi e invecchiati a Cologno.
Mari nel suo libro, senza chiamarla “colognosità”, ha colto acutamente le prime manifestazioni culturali di questo fenomeno regressivo: nella diffusione a livello di massa (e anche nell’area sociale di sinistra e non solo in quella cattolica e democristiana) del libro «Cologno Monzese nella storia, nelle immagini» (1980 e successive edizioni) di Giuseppe Severi [9]; in alcuni esperimenti quasi comici di recupero del folklore[10]; nelle attività nostalgiche della Pro Loco. Io pure li ho visti come sintomi di una perdita di egemonia della cultura di sinistra. Ed oggi è possibile leggerli come premessa all’ascesa apparentemente sorprendente o incongruente della Lega, che malgrado il suo spietato antimeridionalismo, ha sfondato in una Cologno, che appunto pareva quasi del tutto “meridionalizzata”. Le schiaccianti vittorie elettorali del leghista Angelo Rocchi, il sindaco “straniero” (solo perché nativo e residente a Cernusco S.N.!) sono state la prova lampante che la “meridionalizzazione” di Cologno s’è arrestata. O è finita in un vicolo cieco, perché s’era andata corrompendo da tempo, senza che i vari centrosinistra (Soldano I e II o l’ultima coalizione alle elezioni del 2020) fossero in grado di porvi rimedio.
Io (militante del GOS e di AO) e Giallombardo
Infine solo un cenno alla appassionata ma ingenua speranza inseguita da me e da molti altri con la fondazione del GOS (Gruppo Operai e Studenti) nel 1968-’69 e poi della sezione di Avanguardia Operaia a Cologno agli inizi degli anni ’70. Fummo quelli che ci contrapponemmo all’ideologia progressista e riformista sia del PSI che del PCI che della DC, come abbiamo testimoniato nel libretto del 2020: “Storie di periferia. Cologno Monzese negli anni ‘70» (qui). (In particolare, io più decisamente di altri anche alla “colognosità“ democristiana e parrocchiale, essendo stato il primo e forse l’unico a Cologno a criticare l’impostazione nostalgica e parrocchialista del libro di Giuseppe Severi (Cfr. sotto nota 9).
Proprio come organizzatore del GOS e in occasione della lotta per la Scuola materna al Quartiere Stella, che ho raccontato (qui), ebbi nel ’69-‘70 e poi fino al ’76, come dirigente locale della sezione di Avanguardia Operaia, contatti politici con Francesco Giallombardo. In quella prima lotta avvertii il nostro isolamento, la difficoltà di quagliare dei risultati, l’influenza dei discorsi del PSI e del PCI su molti che pur partecipavano alle nostre proteste.
Del modo pragmatico di fare politica di Francesco Giallombardo e della sua posizione di potere diffidavo. Lui poteva ben permettersi di liquidare come ingenue utopie le nostre ragioni. In fondo eravamo dei giovinastri politicamente inesperti che si erano messi in testa di organizzare lotte direttamente coi proletari saltando la mediazione dei partiti; e di formare anche a Cologno la sezione di un partito di “nuova sinistra” o “rivoluzionario”, come dicevamo allora. Anche se aveva la quinta elementare e noi eravamo più istruiti, ebbe la meglio. Lui il partito – forte, nazionale, ben collegato a interessi economici solidi e per lui indiscutibili – ce l’aveva. E indubbiamente conosceva ben più di noi questo territorio, la gente che l’abitava e i problemi.
Nel ’69, agli inizi, non avevamo alle spalle neppure una vera organizzazione politica, anche se un filo con Milano e la nascente Avanguardia Operaia lo stavo intessendo. E, anche quando cominciammo ad averla (con la fondazione di Avanguardia Operaia) e riuscimmo a organizzare lotte scandalose per molti benpensanti e che mai si erano viste a Cologno, come i picchetti con gli studenti in appoggio allo sciopero degli operai della Bravetti e della Panigalli, la lotta per la scuola materna al Quartiere Stella, l’occupazione delle scuole elementari di Via Boccaccio e di Via Liguria contro i doppi turni o quella delle case appena costruite di Via Papa Giovanni, Giallombardo fu avversario abilissimo. Le nostre rivendicazioni non le snobbò mai, come fecero i dirigenti del PCI di Cologno. Ci studiò e poi ci sgambettò, stoppò, attirò mano mano dalla sua parte anche qualche nostro infido compagno; e alla fine ci contenne e – devo riconoscerlo – si servì di noi, convertendo le nostre lotte in un vantaggio elettorale per lui e il suo PSI.
Sì, solo per pochi anni riuscimmo a scuotere alcuni pezzi vivi (giovani, operai, studenti, donne) della anonima folla che abitava questa periferia. E, tuttavia, mille volte meglio quella spinta al cambiamento, allora tanto potente e diffusa da arrivare in periferia, rispetto alla nuttate, che oggi non passa; e che ci vede politicamente confusi, reciprocamente sospettosi e disuniti.
Note
[1] “Nascita di una città: trasformazioni urbane e migrazioni interne a Cologno Monzese, negli anni Cinquanta e Sessanta” di Giovanni Mari http://www.biblioteca.colognomonzese.mi.it/ePub/Mari_Nascita_di_una_citta.epub
[2] Mari: «Un’analisi precisa dei dati elettorali e complicata dal fatto che fino al 1960 alle votazioni amministrative (e nel 1948, com’e noto, anche per le politiche), il PCI e il PSI presentarono liste comuni. Tuttavia è un fatto inequivocabile che soltanto in un paio di occasioni, alle politiche del ‘53 e del ‘58, la DC riuscì a conquistare la maggioranza relativa. Quanto alla carica di sindaco, essa resto ininterrottamente sotto il controllo del partito socialista dal 1945 fino al 1988, quando fu eletto il comunista Valentino Ballabio; mentre la prima volta che un politico di provenienza democristiana raggiunse quel posto fu con Giuseppe Milan nel 1995, quando la DC non esisteva più» ( pag. 222).
[3] Mari: «un altro [testimone intervistato], che esprime la convinzione che molte delle brutture colognesi siano state determinate dalla lunga stagione di potere della DC, quando gli viene fatto notare che fino a metà degli anni Sessanta le giunte erano social-comuniste ribatte che effettivamente i sindaci erano socialisti, ma “un po’ di centro» (pag. 223).
[4] Mari: «Per molti anni diverse delle delibere sugli strumenti urbanistici e tutte quelle relative alla scelta dei professionisti da incaricare per la loro redazione furono votate dai rappresentanti di tutti e tre i grandi partiti popolari. Solo nel 1967 il gruppo del PCI decise di astenersi sui nomi dei due professionisti a cui delegare la redazione del piano regolatore. Tale forte trasversalità dei voti consiliari si verificò in fasi storiche in cui pure le relazioni tra le forze politiche erano contrassegnate da forti scontri anche di carattere ideologico» (pag. 147).
Mari: «Questa convergenza al momento del voto colpisce perché molto spesso le esperienze pregresse con i tecnici a cui si stava per affidare nuovi incarichi erano considerate insoddisfacenti. A spiegare l’apparente contraddizione concorre probabilmente la fiducia progressista nella bontà in sé dei piani regolatori,[…]: è verosimile che i democristiani colognesi, tra i quali erano forti le correnti di sinistra, non fossero alieni da tale atteggiamento, e che pertanto pur da una posizione che fu a lungo quella dell’opposizione non volessero rinunciare a potersi intestare almeno in parte il merito di avere fornito a Cologno gli strumenti per il governo urbano» ( pag. 147).
[5] Questi mutamenti avevo cominciato a indagarli assieme al “Gruppo di ricerca sulla Storia di Cologno”, che ho coordinato tra 1995 e 1998 a partire da un documento del 28 gennaio 1994 da me preparato: «Per una storia metropolitana di Cologno Monzese». I materiali prodotti sono conservati nella Biblioteca Civica.
[6] Di meridionalizzazione parla esplicitamente anche Mari, quando sottolinea la «folta presenza di immigrati provenienti dalle regioni del Mezzogiorno. “Cologno Monzese è una autentica cittadina del Sud alle porte della ≪grande Milano≫. Fra tutti i Comuni che fanno corona alla metropoli, Cologno e infatti quella che si è più ≪meridionalizzata≫ per l’afflusso quasi continuo, dal dopoguerra ad oggi, di migliaia e migliaia di immigrati» (pag. 186). Egli ricorda pure che un testimone (di origine campana) da lui sentito per la sua ricerca aveva parlato di «“una tonalità meridionale che riprendeva piede”, e che, in chiave sarcastica se non dispregiativa, venne poi divulgata mediante il nomignolo ‘Cologno pugliese’, tuttora di ampia — e ovviamente informale — circolazione» (pag. 186).
[7] Mari scrive: «gli esordi di questa grande trasformazione si può infatti vedere la tendenza, in questo caso da parte della giunta municipale, a enfatizzare il rifiuto della condizione di paese rurale e a rivendicare al suo posto la qualifica di “bella e movimentata cittadina…citta. E anche a Cologno i politici di maggioranza e di opposizione a lungo associarono lo sviluppo demografico, edilizio e industriale in atto nei primi decenni del dopoguerra — uno sviluppo che per molto tempo venne visto come un processo univocamente positivo — all’abbandono della condizione di paese o borgata rurale, e all’acquisizione del “rango di cittadina della Lombardia”» ( pag. 184, 185). E cita anche un’affermazione di tono americanizzante del sindaco Barbanti: «il sindaco Giulio Barbanti, giunto al termine del suo mandato quasi ventennale, espresse in un’intervista l’auspicio che Cologno potesse diventare “una autentica citta satellite di Milano, una specie di Beverly Hills» ( pag. 186).
[8] Mari: «si diffuse sempre più l’espressione citta-dormitorio, a indicare l’addensamento di una popolazione costretta al pendolarismo e a vivere in casermoni: altro termine di ampia circolazione, che in un racconto recente si alterna con alveari nella lunga descrizione di uno scenario di orrore e squallore che si apre cosi: “per chi non lo sapesse, Cologno era, ed e tuttora, un sobborgo dormitorio alle porte di Milano» ( pag. 185).
[9] Mari riporta la critica che feci al libro di Giuseppe Severi in “Samizdat Colognom”, 2, 2000:
«E questa la storia locale che, a ‘900 concluso e in un mondo “globalizzato”, un’Amministrazione Comunale fa propria e propone ai suoi cittadini? […] Si ha perciò la sgradevole impressione di trovarsi ― come nei precedenti lavori di Severi ― di fronte ad una storia parrocchiale di Cologno, frettolosamente ampliata e aggiornata agli ultimi anni. Che senso storico ha dedicare ancora ben 4 capitoli sugli 8 complessivi a vicende di questo territorio che non superano la soglia dell’Ottocento e che sono ― da un’ottica culturale ampia e non da quella chiesastica dell’autore ― quasi “insignificanti” rispetto a quelle che vi accaddero soprattutto nella seconda meta del ‘900? Nessuno. Il libro esibisce soltanto la discutibile attrazione per un idealizzato mondo paesano, parrocchiale-agricolo-nobiliare, di Severi, dei committenti del suo lavoro e dei destinatari privilegiati del volume: i “colognesi doc” appunto, gli unici che forse proveranno “una certa commozione” riconoscendosi in luoghi e personaggi trapassati. […] La vera “origine”, il fenomeno fondativo di questa citta, l’immigrazione, e ancora una volta sottovalutato, edulcorato o rimosso.» (pag. 216).
[10] Mari: «tentativo ancora più scoperto di plasmare la tradizione, usando il folklore a fini identitari, e quello che si e concretizzato nell’organizzazione di un ‘palio dell’oca’, seguendo una moda di recente assai diffusa in tutta Italia» (pag. 210).
in questo post di Ennio Abate, sono descritti molto bene sia il sindaco socialista, Francesco Giallombardo, che il periodo storico della seconda metà del novecento, quando un piccolo borgo di tradizione contadina, di solo 5000 anime, Cologno Monzese, si va trasformando in una cittadina satellite di Milano grazie alla forte migrazione dal sud e allo sviluppo “selvaggio” di un’edilizia, civile ed industriale, non molto rispettosa dell’ambiente. Le responsabilità dei fatti sono da attribuirsi non solo al sindaco menzionato e al suo partito di sinistra ammanicato con gli interessi della finanza, ma anche ad altri partiti coinvolti nella gestione della cosa pubblica in quegli anni. E qui il quadro diventa sconfortante, un’atmosfera da “Principe” del Macchiavelli, per l’emergere di una forte corruzione, di un populismo di facciata, di scelte legate ad interessi privati da parte di partiti sedicenti di sinistra…Non solo una città disarmonica nelle costruzioni, ma anche una popolazione sempre sulle difensive a favore delle proprie identità ristrette, un atteggiamento superato dai tempi: si affermano, in chiave negativa, “Colognismo”, “meridionalismo”…a cui si deve aggiungere il “mondialismo” delle ultime migrazioni, come realtà a parte…Una gerarchia di realtà già presente, che la gestione della Lega degli ultimi anni sembra aver acuito, non promuovendo una rete di realtà in dialogo…Purtroppo succede in altre realtà periferiche, cittadine o quartieri della grande città, dove chi arriva prima su un territorio scarica chi arriva dopo, non rivive con gli ultimi la sua storia…e la gestione pubblica a sua volta spesso acuisce questi distanziamenti
Ho letto con interesse quanto scritto che offre molti spunti di riflessione. Forse per un approfondimento dei vari temi affrontati occorrerebbe raccogliere le testimonianze di coloro che, a vario titolo, hanno vissuto quegli anni come pure proiettare negli anni 80 e 90 quegli atteggiamenti così ben descritti e le conseguenze politiche che ne sono derivate.