di Brunello Mantelli
Nella notte tra il 6 ed il 7 ottobre scorso ci ha lasciati Enzo Collotti.
Era nato a Messina il 15 agosto 1929; dopo un’infanzia trascorsa tra Roma, Cagliari e la città natale, si sarebbe trasferito nel 1941 a Trieste, dove il padre aveva iniziato nel 1939 ad insegnare all’università.
Lì si sarebbe formato, in un luogo attraversato da tutte le linee di frattura dell’Europa, diventate prima incandescenti per l’azione coscientemente eversiva esercitata dai fascismi europei, e deflagrate poi disastrosamente nella Seconda guerra mondiale.
Come Collotti stesso ebbe a dichiarare, il suo farsi studioso di storia non nacque da una pura curiosità intellettuale, ma si radicò in quell’esperienza di vita:
Appartengo alla generazione, anno più anno meno, che ha vissuto la lacerazione del sangue d’Europa e che in questa lacerazione ha imparato a interrogarsi sul destino dell’umanità e dell’Europa. Ho conosciuto bambino gli ebrei profughi dalla persecuzione nazista che cercavano ospitalità in Italia; e ho visto i profughi tornare a emigrare cacciati dall’Italia fascista. Ho vissuto la guerra e l’occupazione nazista in una terra di frontiera, potenziale crocevia tra tre civiltà, latina, tedesca e slava, trasformata da fascisti e nazisti in luogo di spietate sopraffazioni. La mia ricerca non è nata sui libri ma dal conflitto aperto in me dalla scoperta di una grande cultura come quella tedesca e della sua incompatibilità con una realtà così lontana dai miti e dagli ideali di questa grande cultura. Il suo oggetto è stato la volontà di capire attraverso le antinomie di un paese uno dei più grandi conflitti di civiltà della nostra epoca (dalle parole di Enzo Collotti allorché gli fu conferito il Premio Montecchio, nel 1993).
Proprio per questo, le definizioni che si sono succedute dopo la sua scomparsa: “storico della Germania / delle Germanie”, “storico dei fascismi / del nazionalsocialismo”, storico della Resistenza /delle Resistenze”, pur cogliendo tutte aspetti reali della multiforme attività di studio, ricerca, alta divulgazione e capacità d’intervenire pubblicamente (la bibliografia, per altro parziale, dei suoi scritti dal 1952 al 2009 occupa ben 50 pagine del volume, di taglio autobiografico, Enzo Collotti, Impegno civile e passione critica, curato da Mariuccia Salvati, Roma, Viella, 2010; va da p. 230 a p. 279), sono apparse a tutte e tutti coloro che lo conoscevano più da vicino, me compreso, assai riduttive se non, francamente, fuori centro.
Enzo Collotti fu prima di tutto storico dell’Europa nel secolo Ventesimo; al centro del suo programma di studi stava prima di tutto il bisogno di comprendere come il movimento operaio non fosse stato in grado di fronteggiare ed opporsi al dilagare nel continente del modello politico fascista, comprensione a cui era possibile avvicinarsi solo grazie ad approfondite conoscenze: “sono sempre stato convinto che ci sono certi livelli della conoscenza che si possono raggiungere solo con la specializzazione (…) (e a un certo livello lo specialismo richiede sforzo e sacrificio) (…) la mia intenzione è stata quella di evitare il pericolo di cadere nel dilettantismo” (da Impegno civile e passione critica, pp. 136-138).
Non per caso, il primo vero libro di Enzo Collotti, uscito nel 1959, ebbe come titolo La socialdemocrazia tedesca. Dalla sconfitta alla rinascita economica, dal problema dell’unificazione a quello del riarmo, la realtà della Germania d’oggi nelle prospettive della socialdemocrazia (Torino, Einaudi). Per quanto relativamente breve, il volume dimostra l’attenzione verso l’universo della sinistra socialista, mondo non riconducibile né al comunismo di matrice bolscevico-leninista-sovietica, né alla logica meramente redistributiva della destra socialdemocratica postbellica, che avrebbe rappresentato un centro di gravità, a mio parere cruciale, dello sguardo analitico ed interpretativo di Collotti, trovando espressione in numerosi testi, di diversa natura, dedicati sia al movimento operaio prima austroungarico e poi austriaco ed alla sua peculiare elaborazione teorica, l’“austromarxismo”, sia alle diverse correnti della sinistra socialista tedesca, sino a giungere alla curatela della monumentale opera collettanea L’Internazionale operaia e socialista tra le due guerre, pubblicata nel 1985 (Milano, Feltrinelli. Il volume, di ben 1240 pagine, costituiva il numero 23 degli Annali della Fondazione Feltrinelli).
D’altronde, della Ios fu segretario tra il 1923, anno della sua costituzione, e il 1940, anno del suo scioglimento, Friedrich Adler, esponente di punta della Sozialdemokratische Arbeiterpartei (Sdap). Come si leggeva nella quarta di copertina, ripresa in larga parte dalla Presentazione dello stesso Collotti al volume:
Il volume raccoglie per la prima volta una serie numerosa di saggi intorno alla storia a lungo trascurata dell’Internazionale operaia e socialista [Ios] tra le due guerre mondiali. Scopo principale dell’opera è quello di offrire un primo contributo alla ricostruzione della Ios come organismo politico e apparato organizzativo, che coesiste ed opera nel movimento operaio internazionale, parallelamente o anche in concorrenza o in conflitto, all’Internazionale comunista. Tuttavia i contributi raccolti in questo volume dimostrano che il raggio d’influenza della Ios non si può misurare soltanto nell’ambito delle sue strutture organizzative, ma attraverso le molteplici esperienze politiche e intellettuali che si realizzano nei diversi ambiti nazionali, nei quali per la prima volta i partiti socialdemocratici sono chiamati a responsabilità di governo. In questo senso il volume mira a riflettere la tensione tra riforme e rivoluzione che caratterizzò buona parte del socialismo europeo negli anni tra le due guerre. Ricevono così piena luce i fermenti teorici e intellettuali posti alla tradizione socialista (indipendentemente) da appartenenze di partito) dall’emergere del bolscevismo, dalla novità del fascismo, dall’esigenza generale di ridare vitalità alla democrazia in una rinnovata concezione del ricorrente rapporto tra democrazia e socialismo, in presenza dei grandi problemi di trasformazione della società capitalistica, non da ultimo di fronte all’impatto della grande crisi.
Un progetto tanto limpido quanto, a mio parere, ancora oggi – e forse ancor più di allora – estremamente attuale.
In questo senso, quantunque Enzo Collotti non sia stato in senso stretto uno storico del movimento operaio, si può affermare che fu fondamentale la sua funzione di portare all’attenzione della cultura e dell’opinione pubblica colta italiane aspetti della storia e del presente di quel movimento che erano stati laterali per geografia ed elaborazione teorica.
Del resto, come egli stesso ebbe a dichiarare, riferendosi alla propria giovinezza, “Mi sentivo naturaliter socialista, ma non ero attratto dal Pci, che mi sembrava una chiesa chiusa, e tantomeno dal Psi, nonostante il fascino di Nenni; mi sentivo di dover navigare in quell’area, ma in nessuno dei due partiti esistenti. Avevo già letto qualcosa di Blum e di Otto Bauer, era in quell’area a livello europeo in cui mi sentivo a mio agio” (Impegno civile e passione critica, p. 44).
Come si autodefiniva, di conseguenza, intellettualmente e culturalmente, Enzo Collotti? Un Linkssozialist (termine tedesco pressoché intraducibile in italiano: renderlo con “socialista di sinistra” ne impoverisce notevolmente la gamma semantica originale), appartenente cioè ad un percorso politico ed intellettuale in nuce affatto diverso da quello comunista di derivazione terzinternazionalista; a ciò egli si aggiungeva, come più volte ebbe ad esprimermi, la considerazione, del tutto realpolitisch, secondo cui nell’Italia del dopoguerra non ci fosse spazio per una sinistra non comunista che non si rapportasse sia pur criticamente con ciò che il Partito comunista esprimeva e rappresentava.
Aspetti entrambi che lo resero una sorta di ircocervo, difficilmente inquadrabile sia in patria sia all’estero. Se buona parte dell’intelligencija tedesco-occidentale coeva non riusciva a non classificarlo quale “comunista”, e lo stesso accadeva sul versante italiano, nella Penisola l’intellettualità in senso proprio comunista cadde non di rado in un errore uguale e contrario.
Questo suo collocarsi lo avvicinò non poco ad un altro grande intellettuale, anch’egli assai attento alla cultura tedesca, il quale aveva scelto però di curvare il proprio percorso prevalentemente sul terreno politico: Lelio Basso.
Mi si conceda la ferma convinzione che solo da questi riferimenti una qualche sinistra, intellettuale e politica, può oggi ripartire.