Henry Moore
di Ennio Abate
Pubblico qui due stralci da miei vecchi saggi: uno del 2004, l’altro del 2014. In essi avevo delineato le prese di posizioni di fronte alla guerra, e alla Guerra del Golfo in particolare, di Franco Fortini. Non vi si parla, è evidente, di Ucraina né di Putin o Biden, ma ogni generazione ha le sue guerre e i suoi desideri frustrati di pace e le parole di Fortini, un poeta comunista come Brecht e tanti altri. potranno aiutarci a fare i conti con quella d’oggi e a non cedere alle semplificazioni propagandistiche “democratiche” o “patriottiche” che si vanno moltiplicando in queste ore di nuovo tragiche.
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Da “Fortini, la guerra, la pace” di E. A. (6 settembre 2004)
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E perciò [Fortini] non “ha elevato in tutta la sua opera un altare di lugubre e tormentosa devozione barocca alle idee di guerra, guerra di classe, antagonismo, conflitto, contraddizione” come scrisse Berardinelli, in Stili dell’estremismo (Diario 10 1993), iniziando, con un infelice autodafé, una revisione riduttiva non solo della figura di Fortini, ma della stessa formula di cui stiamo parlando, coniata tra l’altro dallo stesso Berardinelli. Quel suo saggio affronta temi psicanalitici interessanti da indagare (come aveva già fatto Remo Pagnanelli in Fortini), ma scolla completamente il fondamento psichico della biografia e dell’immaginario di Fortini dalla storia sociale e politica del Novecento.
Eppure il costante ripudio della guerra (altro che “devozione barocca” ad essa!) da parte di Fortini non pare affatto originato da voglia di un interiore quieto vivere né da pulsioni inconsce di cui sia impossibile cogliere le radici storiche. L’inconscio di Fortini, per dirla con Jameson, è politico e le metafore, che il poeta vi attinge e che Berardinelli giudica “ossessive”, si precisano meglio proprio alla luce di fatti reali e storici.
Una tale rimozione della realtà della violenza nella storia, ridotta da Berardinelli ad immaginario quasi privato poteva aver breve credito, assieme alle teorie della “società trasparente” e di un nuovo ordine imperiale pacificato e quasi augusteo, soltanto all’indomani della caduta del Muro di Berlino del 1989 e dell’implosione dell’ex Unione sovietica.
Ma tutto il “secolo breve” e il ritorno, nel suo scorcio, della guerra come mezzo normale di soluzione dei conflitti internazionali o come risposta ottusa ad oscuri terrorismi, smentiscono l’ottimismo frettoloso di una variegata generazione, comprendente sia Berardinelli sia il Revelli di Oltre il Novecento e, per certa fiducia in una postmodernità imperiale dai tratti esageratamente progressisti, anche Negri e Hardt.
Il vecchio Fortini, con la sua inquietudine mai conciliata e la sua attenzione alla storia e per la volontà di tenere assieme le radicalità di due tradizioni (la cristiana e la marxiana), non ha sottovalutato l’aspetto tragico presente anche nella possibile (“il socialismo non è inevitabile”!) rivoluzione socialista.
Da “Le disobbedienze dimenticate di Franco Fortini” di E. A. ( 6 novembre 2014)
1.
Di fronte alle delusioni dei dieci e poi venti o trenta inverni, Fortini si mantenne fedele a un comunismo brechtiano, intrecciato soprattutto con le idee della Weil e di Bloch. Fu sempre convinto che capitalismo e socialismo reale fossero un’unica forma e del tutto negativa per lo sviluppo dell’umanità. E se nel 1977 scriveva: «l’ideologia sovietica e la classe dirigente dell’Unione sovietica sono i nemici di qualsiasi miglioramento del genere umano, nella medesima misura in cui lo sono l’ideologia e la classe dirigente dei paesi capitalistici» (159, I), un giudizio quasi analogo ripeteva per gli Usa nel 1990, ai tempi della Guerra del Golfo (p. 124, II) : se quello di Saddam era un regime abietto, dall’altra c’erano gli Usa che erano «da quaranta anni il nemico del genere umano».
Non sottovalutava la gravità della situazione e la permanenza di una crisi (non certo solo economica o politica). Scriveva: «per un tempo di cui ignoriamo la durata, ma che coincide con quello della nostra sconfitta o debolezza, gli strumenti propriamente politici, tanto nostri quanto dei nostri avversari, sembrano incapaci di interpretare i processi profondi della chimica sociale» (163, I). Bisognava, dunque, affrontare «la sofferenza che una analisi nuova infligge alla nostra stanchezza». E scavare nel passato: «Con tutto quel che ha avuto nome di Comunismo, anche quando ne sia diventata la caricatura sanguinaria, non possiamo fare a meno di confrontarci fino in fondo. La storia e il presente dell’Unione sovietica, dell’Est europeo, della Cina, del Sud- Est asiatico esigono un giudizio continuo, ostinato» (161, I). Ma non solo in quello prossimo ma nel passato in generale. Che conteneva per lui qualcosa di ineliminabile da chi vuole costruire un vero futuro. Perciò richiamava l’idea di Osip Mandel’štam: «La poesia classica è poesia della rivoluzione» (Questioni di frontiera, 149). E precisava: «Proprio perché rifiutiamo di dimenticare la storia, rifiutiamo anche di consolarcene con mezze misure» (160, I). Una mezza misura poteva/può essere ritenere che il passato sia semplicemente passato, che gli orrori nazisti o comunisti non torneranno, mentre si chiudono gli occhi sugli orrori quotidiani (e democratici) che continuano.
2.
Anche gli articoli riguardanti la prima Guerra del Golfo contro Saddam (124, II), riletti oggi, permettono di capire per contrasto quanto si fosse degradato a sinistra il dibattito sul tema (oggi addirittura assente). In «Guerra del Golfo. Otto motivi contro la guerra» (126, II) Fortini denunciava l’ipocrita moralismo con cui la si leggeva (Impero del Male, Saddam= Hitler. ecc.) e ad esso contrapponeva «l’eticità del realismo politico» (131, II). Erano le finalità che contavano. E spiegava: «Il nazismo ha avuto torto non perché fosse sanguinario, inumano e razzista (argomento moralistico); né perché è stato vinto (argomento del “realismo” politico); ma perché contraddiceva una immagine o figura di futuro che consideriamo positiva per noi e per gli altri» (130-31, II). Inoltre ribadiva la giustezza dell’analisi (non solo) marxista della violenza nella storia. La violenza non è sempre il male: Il bene non coincide con la non-violenza. Bisogna precisare cosa s’intende con questa parola, specificarne la funzione, il grado di necessità nei rapporti umani (126, II). E più avanti: «Oggi sappiamo che non ci sono giuste guerre; ma non ci sono giuste guerre oggi, perché le finalità che le guerre di classe si sono proposte possono-debbono oggi essere combattute e raggiunte altrimenti che con le armi. E non perché la violenza sia, in astratto e sempre , il «male» (131-132, II). E sempre lucidamente in «Sul conflitto come parola chiave» (166) chiariva concetti che oggi, appena la cronaca ci ripropone eventi drammatici, neppure riescono più ad affiorare nel dibattito. Ad esempio che «la pace contiene in sé la tentazione della morte mentre il conflitto implica eros, brama e desiderio» (166, II). Che «senza conflitto non si dà riposo o “pace” (166, II) e «il conflitto è un male per raggiungere un bene che non è garantito!» (169, II). Teneva conto del ripresentarsi dei tentativi di individui e gruppi di «uscire fuori dalla conflittualità verso la “pace” del nulla, della non-azione, dell’annullamento del desiderio e del confronto» (167, II). (Si riferiva al buddismo e alla tradizione mistica occidentale), ma ricordava che i conflitti si ripresentano e si ripresenteranno. E non sono tutti uguali (come non tutte le “paci” sono uguali). Per Fortini era un volgare imbroglio interpretare «i moderni conflitti tra nazioni e potenze come proiezioni di “conflitti tra “mentalità” o “culture” o religioni o civiltà o , ancora più rozza, come lotta tra bene e male (167, II). Ci sono, sì, i conflitti inconsci negli individui, ma quelli che contano sono i conflitti d’interesse «formulabili in forma razionale» (168, II). E faceva l’esempio del generale Schwarkopf, comandante delle armate statunitensi in Irak. Fa ammazzare – diceva Fortini – non perché da piccolo ha avuto conflitti con il padre o la madre, ma perché è stato selezionato per quel compito da un complesso sistema sociale e politico (168, II). Sistema in grado anche di truccare le vere motivazioni evocando paure e rassicurazioni infantili (il terrorista, ecc.). Per volere allora la pace, bisognava dire a chi ci si opponeva. Meglio: «a quale conflitto, a quale lotta o guerra [ci] si opponga». Bisognava nominare il nemico. E per Fortini non c’erano troppi dubbi: nemico era quello «che propone false mete, false coscienze, false solidarietà, false paci», quello che «nega di fatto, a colpi di parole o di leggi o di capitali o di missili, l’eguaglianza dei diritti – e la finale identità umana – fra i privilegiati e i “dannati della terra» (169, II)
Molto opportuna e illuminante questa reimmersione fortininana proposta da Ennio. Per quanto mi riguarda (e scusate gli accenti personali presenti in questa breve nota), lo è ancor di più perché richiama uno dei (in realtà molto pochi) punti di distanza dall’elaborazione etico-politica di Fortini: la sopravvivenza di elementi dogmatici, in parte legati a un lascito marxista di tipo ortodosso, o addirittura al suo “classicismo”, nella visione dei rapporti tra guerra e pace.
D’accordo sulla condanna del moralismo, molto meno sulla patente di eticità attribuita al realismo politico, che è servita spesso a difendere lo status quo, a colpire ogni esercizio di immaginazione e di ricerca di alternative, e a far digerire atti eticamente inaccettabili.
D’accordo sul fatto che la non violenza non sia sempre necessariamente il bene – molte ferite alle persone e alle culture vengono inferte con armi apparentemente non violente -; molto meno sull’affermazione che la violenza non sia sempre il male, (o non lo produca, magari come effetto secondario, ma ben prevedibile e spesso accuratamente deliberato). Non sarà forse il male assoluto, ma certamente un male relativo, storicamente verificabile, e quasi mai il minore dei mali, come spesso si dice e si presume, e come fa anche Fortini quando parla di “male per raggiungere un bene”. Esulano in parte da questo discorso, almeno in questo momento, atti come il tirannicidio, che ha un respiro etico che forse Fortini collocherebbe nell’ambito del discorso moralistico, o la violenza come legittima difesa, che buona parte del pensiero nonviolento ha sempre accettato e in cui rientrano almeno parzialmente anche i casi della violenza “rivoluzionaria” e delle guerre di liberazione).
Ed è vero che Fortini, in realtà, è sempre stato contro tutte le guerre del suo e nostro tempo; quindi, la divergenza in linea di principio non ha mai prodotto un dissenso sul piano delle prese di posizione e sui giudizi storici. E a maggior ragione (cioè con le sue ragioni) Fortini sarebbe oggi contro questa sciagurata guerra di Putin che ha, tra gli altri scopi, quella di azzerare definitivamente ogni eredità della rivoluzione sovietica e di tornare ai confini della Russia zarista. Ma la consonanza generale non basta a spegnere il campanello di allarme che provocano alcune affermazioni di Fortini. Che sono affermazioni “marxiste”, ma marxiste in senso epigonale, perché non possiamo imputare a Marx di non aver visto, nell’Ottocento, tutte le sfaccettature, emerse soprattutto nel Novecento, del problema della violenza (che si lega a quello di genere, a quello dell’ambiente, a quello della distruzione del pianeta, della coerenza tra mezzi e fini, dei diritti delle nuove generazioni, dello specismo, alla visione della religione e della religiosità, ecc. ecc.). Marx ci ha insegnato tante cose che oggi vengono dimenticate e rimosse, e che dovremmo usare per costruire “nuovi” punti di vista anche su guerra e pace.
E quindi il dissenso vero non è sulla guerra (sull’essere contro la guerra siamo, almeno tra noi, tutti d’accordo), ma sulla pace (sulla necessità di difenderla e di costruirla, come priorità etica e politica del nostro tempo). Fortini compie, a mio avviso (e lo dico con piena coscienza della mia inadeguatezza a valutare il suo pensiero, ma anche della necessità di farlo comunque, per tener vivo il suo insegnamento) un errore speculare a quello dei suoi e nostri avversari. Quando dice per esempio che «la pace contiene in sé la tentazione della morte mentre il conflitto implica eros, brama e desiderio» Fortini confonde la guerra con il conflitto, e la pace con quella dei cimiteri. Viviamo in una società che espunge i conflitti e fomenta, produce e campa sulle guerre; già questo dovrebbe farci capire quanto sia grave (oggi) quest’errore. Lo sviluppo dei conflitti in realtà allontana le guerre, e le guerre annullano tutti i conflitti e tutte le differenze. E che la guerra sia una fucina di desideri e il regno di eros lasciamolo dire e pensare ai decadenti seguaci della bella morte. E tra parentesi notiamo quale incolmabile spartiacque si è aperto oggi tra gli esteti fascisti della bella morte e i combattenti della buona morte, quella che con inaudita violenza ci hanno scippato sottraendoci il diritto al referendum sull’eutanasia. Lasciamolo dire ad Eraclito (“Pòlemos è il padre di tutte le cose”), la cui affermazione viene tra l’altro totalmente banalizzata e fraintesa quando per Pòlemos si intende la guerra.
«Quando dice per esempio che «la pace contiene in sé la tentazione della morte mentre il conflitto implica eros, brama e desiderio» Fortini confonde la guerra con il conflitto, e la pace con quella dei cimiteri. Viviamo in una società che espunge i conflitti e fomenta, produce e campa sulle guerre; già questo dovrebbe farci capire quanto sia grave (oggi) quest’errore. Lo sviluppo dei conflitti in realtà allontana le guerre, e le guerre annullano tutti i conflitti e tutte le differenze» (Luca Ferrieri)
Caro Luca, c’è un equivoco. La frase che tu citi dal mio scritto sulle “Disobbedienze dimenticate di F.F.” era riportata da Fortini nel suo articolo del 1 marzo 1991, intitolato «Sul conflitto come parola chiave» (pagg.166-169 di Disobbedienze II). Che è, se vogliamo, un’apologia del conflitto contro la guerra.
Non riesco ad accedere all’Archivio de “il manifesto” dove l’articolo si può leggere interamente. E mi limito a ricopiare alcuni passi:
«”Conflitto” sembra essere, come “guerra”, il contrario di “pace”. Qualcosa di sgradevole e penoso e pericoloso.[…]Senza conflitto non si dà il fondamento medesimo della esistenza che dura, il lavoro […] E così coloro che vogliono demolire o assopire ogni spirito di protesta e di opposizione alle cose-come-stanno vi predicano che ogni contrasto è conflitto, ogni conflitto violenza, ogni affermazione di principio e “antidemocratica”, e viva le tavole rotonde e simili imbrogli. […] Sono sempre esistiti i tentativi, di individui o di gruppi, di uscire fuori della conflittualità verso la “pace” del nulla, della non-azione, dell’annullamento del desiderio e del confronto; penso al buddismo e alla tradizione mistica occidentale. E anche le procedure opposte, di chi porta alle estreme conseguenze lo scontro, offrendosi vittima all’avversario […] Ma non ogni conflitto è “il ” conflitto, come non ogni guerra è “la” guerra e non ogni pace è “la” pace. Va respinto come un volgare imbroglione tanto chi (e non sono pochi) interpreta i moderni conflitti tra nazioni e potenze come proiezione di conflitti tra “mentalità” o “culture” o “religione” o “civiltà” ( e presto si arriva a parlare di lotta del “bene” contro il “male” e simili rozze e purtroppo sempre efficaci menzogne) […] i facitori di pace son coloro che accrescendo la cerchia dei rapporti, dei temi e delle ragioni di non-conflitto, spostano la frontiera degli inevitabili e fecondi conflitti, inducendo sempre più ampie alleanze e sempre più precisamente definendo e chiamando per nome i nemici, trasformandoli prima in avversari, poi in collaboratori necessari e preziosi».
P.s.
A leggere come si sta discutendo tra gli “amici di Facebook” ( anche di “sinistra” o provenienti dalla “sinistra”) del conflitto Russia-Ucraina c’è da mettersi le mani nei capelli.
Grazie, Ennio, per il chiarimento, sono felice di essermi sbagliato, almeno su questo punto, e infatti quella citazione, che ho letto in modo isolato e letterale, mi sembrava dissonante anche con altre prese di posizione di Fortini. Ma non ho avuto il tempo e la pazienza di andare a rileggermi i testi originali, e mi scuso. Inserito nel contesto, il ragionamento fortiniano appare, come dici tu, un elogio del conflitto contro la guerra (e allora le parole su eros, brama e desiderio, riprendono un senso pienamente condivisibile). E però quello di Fortini è anche un elogio del conflitto contro la pace, o almeno contro una certa concezione della pace, quella che lui definisce la “pace del nulla, della non-azione”. Ma questa in realtà è solo la pace caricaturale dei guerrafondai, quella che infatti invoca Putin e che è un leitmotiv dei militaristi di tutti i tempi: “si vis pacem para bellum”. Non è certo la pace in cui credono e per cui lottano tante persone e per cui lavorano i costruttori di pace.
La conclusione di Fortini sui facitori di pace infatti è bellissima e adombra una “decostruzione del nemico” (e del concetto di nemico) su cui sono pienamente d’accordo: da nemico ad avversario a collaboratore… E’ quasi un Fortini mandeliano…
Invece la conclusione del mio messaggio va cancellata, almeno per il riferimento a Fortini. Resta la necessità di scavare meglio dentro il concetto e soprattutto l’uso della pace per restituirla alla pienezza del suo significato.