Tabea Nineo, Maschera del sospetto, 1980
RIORDINADARIO 22 febbraio – 4 marzo 2022
di Ennio Abate
22 febbraio
Leggo su FB nella pagina di Brunello Mantelli: « La decisione di Putin di considerare annullati gli accordi di Minsk (Minsk II) è gravissima. Sebbene non attuati da entrambe le parti (Russia ed Ucraina, ancorché firmatari) quegli accordi rappresentavano una cornice negoziale entro cui aprire trattative. Il riconoscimento unilaterale delle Repubbliche separatiste del Donbass e l’invio ufficiale di truppe russe al loro interno sono pressoché sinonimo di guerra. Che poi sia la coda (il Donbass) che muove il cane (la Russia) o viceversa è sicuramente materia di riflessione, attuale e ancor più futura, ma allo stato una qualche reazione dura da parte di Usa + UE mi pare del tutto indispensabile. Sgradevole da dirsi e da pensarsi, ma non mi pare esistano alternative, ora. L’unica, fragile, via, per riaprire un qualche dialogo con Mosca è qui e adesso reagire con molta durezza. Con tutti i rischi che ciò comporterà».
Che prontezza. La presa di posizione non mi piace. Anche perché è immediatamente corredata da insulti sprezzanti nei confronti dei primi commentatori che la criticano e vengono accusati – a freddo e senza argomentare – di essere dei Quisling, dei Pavolini, dei Pétain. Evito di commentare.
27 Febbraio 2022 alle 9:02 In un commento su Poliscritture Maurizio Gusso [m’]invita a “non cadere nei trabocchetti della geopolitica, delle ideologie monolitiche e delle teorie politiche astratte”; e ad “assumere radicalmente i punti di vista delle categorie storiche perennemente a rischio: classi subalterne, colonizzati, donne, minori, anziani, civili inermi, immigrati, minoranze ecc.”. Mi piacerebbe, ma dove sono? E, perciò, gli rispondo: quei punti di vista oggi sono muti (o quasi). Prevale la geopolitica come scienza “neutra” dei dominatori. Tornano le ideologie binarie Bene/Male o sui “nuovi Hitler” di comodo. Dovremmo essere in grado di masticarli, decostruirli, smascherarli in fretta questi discorsi. Ma, ancora una volta, di fronte alla guerra torniamo a balbettare. E non possiamo contrastarla rispolverando (solo) le poesie di Brecht.
Più leggo le opinioni – pro Putin, contro Putin – contrapposte in modi già sprezzanti e granitici e più provo scoramento. Vorrei smettere di leggere; esito più del solito a commentare. Poi reagisco. Non devo arrendermi. Continuerò a rovistare in questa informazione/disinformazione manipolata e controllata. Qualcosa del cambiamento in corso si deve trovare anche in questa merda. E persino nelle polemichette letterarie (di Marchesini, Barra e altri sulla poesia di Franco Arminio) a cui do un’occhiata. Limiterò però il copia/incolla dei brani che seleziono da FB o da alcuni siti on line. Mi accorgo che tende ad essere troppo abbondante e a volte convulso. Pubblicherò su Poliscritture solo post di singoli autori che mi paiono ben argomentati e di tanto in tanto questo mio Riordinadiario. E per il narratorio? Per ora non riesco a lavorarci.
Anche Adriano Sofri (qui) prova «angoscia». Come me e tanti altri. Ma perché «vergogna»? Credo perché si identifica molto più di me coi valori degli occidentali e degli europei. Sostiene che stanno lasciando mano libera a Putin: «Putin ha la garanzia di non trovarsi di fronte nemmeno una doppietta della Nato in territorio ucraino. Penso che non si fermerà prima di aver fatto fuori Zelensky e di averlo sostituito con un suo burattino; uno Janukovich qualunque. Assimilando così Ucraina e Bielorussia».
Allora – mi chiedo – non è la NATO che si è espansa troppo verso la Russia – lo dicono in tanti – ma è la Russia che minaccia l’Ucraina (e l’Europa)?
Sofri ora accusa i “suoi” di aver fatto guerre sbagliate: «le guerre di aggressione guidate dagli Stati Uniti – come quella di Bush e Blair in Iraq del 2003 – hanno nuociuto agli Usa e all’occidente». O di «omissioni»: «la “linea rossa” fissata da Obama in Siria nel 2012 e ripudiata nel 2013». E quella del Golfo del 1990?
Sarei contento di sbagliarmi, ma mi pare di ricordare che nel 1990 Sofri fu a favore di quella “guerra democratica” contro il dittatore Saddam, l’”Hitler” di quegli anni. E le sue allusioni velate alla pazzia di Putin («pazzo è chi pazzo fa») o l’accostamento indiretto a Hitler («il Putin che firma l’assegnazione di due repubbliche minori da un tavolo solitario nel salone enorme e ghiacciato, scena che emula il Grande Dittatore») mi fanno pensare che lo schema per lui rimanga quello: liberalismo contro tirannia. Per non parlare delle simpatie che colgo nella sua esaltazione del coraggio militaresco di un passato risorgimentale e cavouriano: « E’ il momento di ripassare la spedizione del corpo d’armata del Regno di Sardegna in Crimea». Meno severo mi sento verso il pathos del suo invito a mettersi almeno «nei panni dei milioni di ucraini» o «di una bambina estone» o « un qualunque cittadino di Taiwan. O di Sarajevo». Mi ci metto, ma che c’entra con l’appoggio militare all’Ucraina? Mi respinge, poi, il paragone Zelensky-Allende. Pensando a «Volodymyr Zelensky, 44 anni, avvocato, attore comico, sceneggiatore, presidente ebreo eletto con una maggioranza dei tre quarti, trincerato dentro il palazzo di Kiev-Kyiv, è affiorata la memoria di Salvador Allende alla Moneda». Paragonare un governo che poggia su forze sociali totalmente nazionalistiche o apertamente filonaziste a quello del socialista Allende è offensivo.
Uno segue gli avvenimenti (della guerra in Ucraina) e commenta con un certo grado di incertezza gli avvenimenti nella forma del diario. Ma, se poi lo rende pubblico, il rischio è di mettere in primo piano i giri (a volte contorti) del proprio pensiero, che non riesce ad afferrare subito l’essenziale: quello che può essere colto – purtroppo e spesso – solo dopo, quando gli eventi sono passato e potrebbero essere riassunti in poche parole. (Eppure il rischio va corso. I lettori possono imparare ad autoregolarsi sulle mie parole, anche errate, come io faccio su quelle di altri. Il silenzio non è d’oro).
1 marzo
Sulle sanzioni Pechino ricorda che sono “unilaterali”, che insomma nessun “terzo” internazionale le sostiene. E chiede esplicitamente quale sia il loro titolo di legittimità nel diritto internazionale. Tema del tutto sparito in questa crisi: si parla di sanzionare e di “punire”, ma del problema di quale ordine globale mai possa sostenere la legittimazione di “sanzioni” da parte di terzi, che non siano quindi meri atti di guerra contro atti di guerra, non se ne ha più traccia (diritto di autodifesa dell’aggredito a parte, ovviamente). Ancora Pechino qualche giorno fa riproponeva il problema della costruzione di un ordine internazionale “cooperativo”. Non voglio fare alcuna apologetica “cinese”: ma colpisce molto questo dato, che mentre tutti i soggetti in campo sembrano muoversi con logiche “imperialistiche” – come si afferma, si allarga, si difende, e su chi, la propria influenza – sia proprio l'”impero” cinese a giocare le sue carte ponendo un problema molto più “imperiale” che “imperialistico”: chi riesce a controllare la costruzione di un nuovo ordine “multipolare” ma “globale”.
Vincenzo Costa
Il totalitarismo di casa nostra. Al maestro Valery Gergiev è stato intimato dal sindaco Sala (PD) di condannare pubblicamente la politica di Putin. Adesso è stato estromesso dal concerto del 5 marzo. Il giornalista Rai Marc Innaro – reo di avere pronunciato la frase “basta guardare la cartina geografica per rendersi conto che chi si è allargato negli ultimi trent’anni non è stata la Russia, è stata la Nato“ – ha fatto indignare il segretario del PD Letta, che ha chiesto la convocazione della commissione di vigilanza. Lo stesso per Sara Reginella, rea di avere detto che dal 2014 la popolazione russa del Donbass è stata duramente repressa. Questi giornalisti rischiano il posto di lavoro. Ma non è questo il punto: il punto è che tutti stiamo accettando il fatto che siamo sotto osservazione, che se si devia dal pensiero liberal-progressista si è a rischio, si è criminalizzati, esclusi. Abbiamo accettato la criminalizzazione del dissenso: dissentire è diventato immorale.
2 marzo
Vari “amici fessbucchiani” sostengono che in questo momento in Ucraina ci sia una resistenza nazionale e popolare, partigiana, contro un’invasione imperialista e che vada sostenuta mandando armi. Paolo Brogi, condiviso da Mantelli, si è spinto a dire persino: «L’Unione Europea ha optato per le armi, il governo italiano anche. Armi ai resistenti contro l’invasione. A meno di non voler essere assai ipocriti mi pare che non ci sia al momento altra soluzione. Le sanzioni non bastano, i loro tempi rischiano di essere troppo lunghi. Le armi finiranno anche in mano a raggruppamenti militari filonazisti come il battaglione Azov? Pazienza, se ciò dovesse verificarsi». Non condivido per nulla. Certi termini (resistenza, partigiani) si richiamano ad un passato glorioso, che però non ha più un riscontro chiaro in questa realtà quanto mai caotica e spesso indecifrabile. Non basta che tali parole vengano usate da “compagni di sinistra”, che magari stanno a Kiev o dalle femministe russe. Non capisco questo precipitarsi a prendere posizione nel match Putin – Zelensky come ci viene presentato dai mass media e senza aver chiaro le reali intenzioni di tutti gli attori in campo ( e quindi anche USA, UE, Cina). Ci sono cose che possiamo fare? Forse sì, ma prima bisogna avere una idea decente ( e non succube delle opposte propagande) di tutto ciò.
Ripensandoci ancora. L’analogia tra Resistenza al nazi-fascismo del Novecento e l’attuale – informe, ambiguissima nei suoi termini politici e scarsamente da noi conosciuta – opposizione del governo (e del popolo?) ucraino all’invasione russa di Putin mi pare meccanica e storicamente infondata. Una prima differenza non di poco conto è che i nostri partigiani non erano un governo. E non erano egemonizzati da formazioni di destra o inquinate da ideologie fascistoidi, come pare essere il governo di Zelensky. Erano poi politicamente organizzati e gelosi della loro autonomia politica, anche se condizionati dagli Alleati per il rifornimento delle armi. E non avevano come obiettivo esclusivo – come nel caso dell’Ucraina – il «sacro dovere» di «difende la Patria». La componente patriottica della Resistenza (italiana) era intrecciata con quella di classe e con quella di guerra civile. (Fondamentale per me resta il libro di Claudio Pavone: Una guerra civile. “saggio storico sula moralità nella resistenza”). Due diversi contesti storici, dunque. Inoltre non è corretto equiparare il regime di Putin a quello nazista solo perché invasore. Putin è altra cosa e va precisato in termini realistici e non metaforici quale sia il tipo di regime che lo sostiene.
Posizione ragionevole quella di Fagan (qui). Teme che il mondo sia sull’orlo del baratro e si chiede se valga la pena che l’Ucraina debba avere la libertà di richiedere l’ammissione alla NATO, cioè nel sistema militare comandato dall’altra unica potenza nucleare con 5000 testate. Fagan fa notare che per ben 42 anni (1949-1991) la cosiddetta “Guerra fredda” basata sul principio (cinico quanto si vuole) dell’equilibri tra le due superpotenze – Usa e Urss – ha garantito la pace in Europa per decenni. Perché ora rompere tale equilibrio mandando armi all’Ucraina?
C’è da riflettere anche sul ritratto che Fagan fa di Zelensky. E’ ben più inquietante di quello oleografico e edulcorato presentato dai suoi sostenitori:
«un tizio che dopo aver vinto un talent come ballerino improvvisamente diventa molto ricco non si sa come e trova così i soldi per fondare una casa di produzione diventando attore, regista, sceneggiatore e produttore di sé stesso e fa un serial tv di 51 puntate di una storia in cui lui fa un insegnante che finisce col diventare presidente eliminando tutti i corrotti nel parlamento ucraino. Il tutto su una tv proprietà dell’oligarca secondo più ricco uomo d’Ucraina, finanziatore delle brigate che hanno fatto migliaia di morti russofoni nell’est, in causa con la Russia perché aveva molte attività economiche in Crimea. Il tizio è pure sotto indagine FBI, si chiama Kolomoisky. Poi la casa di produzione diventa -oplà- un partito il cui nome e marchio è il titolo del serial che risulta registrato come partito più di un anno prima che finisca la serie in tv. Dopo tre anni di serial, appena finita l’ultima puntata, con una casa di produzione che si fa partito col nome della serie tv si presenta alle elezioni […]Noi, mandiamo armi ad un tizio che coscrive la popolazione maschile civile e nasconde le armi in città popolate per dotarsi di scudi umani mentre suoi milioni di concittadini scappano dalla loro vita per terrore e poi viene pure a spiegarci quanto si sente Pericle nel suo intimo, e ci rimprovera perché non siamo così solleciti a difendere il suo diritto di chiedere l’annessione alla NATO?».
Ma allora il popolo ucraino dovrebbe sacrificarsi e non può autodeterminarsi? Questa è una enorme questione che riaffiora. E non posso approfondirla qui. Fagan però l’ha affrontata in vari scritti a cui rimando [1].
3 marzo
Lanfranco Caminiti
io vorrei che putin cadesse. io vorrei che i russi scendessero in piazza, a milioni, chiedendo la fine della guerra, la fine di un regime. io vorrei che la gente invadesse il cremlino – l’impero del kitsch, con i suoi ori e i suoi tavoli assurdi. rubasse, spaccasse, saccheggiasse. io vorrei che finisse questa tragica finzione della russia come baluardo del socialismo – un paese immenso governato da una tirannia meschina. io vorrei che la storia d’europa – quella dei conflitti sociali, delle lotte, delle insurrezioni – ripartisse, e non può che ripartire da lì dove tutto è cominciato, e dove tutto si è interrotto, dove tutto si è spezzato, da san pietroburgo. io vorrei che facessimo i conti con la nostra storia. il novecento è morto, viva il novecento.io vorrei tutto questo, ma perché accada dovrei sperare che putin si impantani in ucraina. dovrei sperare che ogni ucraino combatta casa per casa, strada per strada. e ho il terrore di sperare questo, perché l’ho visto in cecenia. e fu peggio di cartagine – dove alla fine sparsero il sale.
E no! Come si fa a dire che i difensori di Putin vedono il socialismo nell’attuale Federazione russa? Non mi pare difficile capire che Cardini e vari conservatori di destra o gli ex stalinisti stiano con Putin, ma perché egli rappresenta il simbolo dell’Autorità contro il “movimentismo” giudicato sempre inconcludente o dannoso. Per me si può essere contro Biden e Putin. E non accodarsi a Biden contro Putin o a Putin per odio verso Biden. In assenza di situazione rivoluzionaria e senza un progetto mi azzardo a dire che Lenin sarebbe stato neutrale e avrebbe lavorato per quella prospettiva.
David Harvey (qui)
Niente di tutto ciò giustifica le azioni di Putin, più di quanto quarant’anni di deindustrializzazione e soppressione neoliberale del lavoro giustifichino le azioni o le posizioni di Donald Trump. Ma nemmeno queste azioni in Ucraina giustificano la resurrezione delle istituzioni del militarismo globale (come la NATO) che hanno contribuito così tanto alla creazione del problema.
4 marzo
Un mio commento censurato da LPLC2 : Ci mancava un Freud con l’elmetto! Sono spuntati persino gli psicanalisti interventisti
«fare la guerra a Putin non è fare la guerra a lui e a qualche altro oligarca ma, ahimè, a tutti i russi. Perché solo se i russi si renderanno conto che Putin li porta alla povertà, allora potranno insorgere». (Benvenuto su Le parole e le cose 2 (qui)
Ennio Abate2 MARZO 2022 ALLE 14:52Il tuo commento è in attesa di moderazione. Questa è un’anteprima; il tuo commento sarà visibile dopo esser stato approvato.
«fare la guerra a Putin non è fare la guerra a lui e a qualche altro oligarca ma, ahimè, a tutti i russi. Perché solo se i russi si renderanno conto che Putin li porta alla povertà, allora potranno insorgere». (Benvenuto)
Ma buona parte dei russi (e anche degli americani, degli europei) sono già in povertà! Devono insorgere per soddisfare i complessi edipici irrisolti di voi interventisti nipotini di D’Annunzio? Vi piccherei in testa con un volume rilegato de “Gli ultimi giorni dell’umanità” di Kraus. Articolo vomitevole.
Nota [1] Ad esempio in questo del 2017 (qui) da cui stralcio un brano: «Cambiare si deve ma sul come sarebbe il caso di aprire urgentemente il dibattito, soprattutto occorre fuggire presto dalla minorità passiva di oscillare tra Unione (inconsistente tanto nella versione elitista che ipoteticamente popolare), la tardiva riscoperta della Nazione e nuove rivendicazioni secessioniste. Nuovi Stati in grado di partecipare al gioco multipolare, più grandi ma fondati politicamente e su basi di compatibilità geo-storica, pluri-nazionali e di conseguenza federali, declinanti nel locale lo specifico che ricalca mentalità e storie di ricca diversità, locale che meglio si presta alla volontà imprescindibile di “osare di più democrazia”. Dobbiamo osare più democrazia perché con la complessità del mondo nuovo dovremmo farci i conti tutti se non vogliamo che l’ennesima élite malintenzionata o anche solo inetta ed incapace ci porti là dove il futuro sarà incubo. Questa potrebbe esser l’unica via che abbiamo per non finire a far da camerieri al tavolo in cui atlantisti, islamici, cinesi, indiani, russi e quanti altri decideranno in che mondo vivremo».
AL VOLO/ “LA GUERRA DEL MIO NEMICO” DI FRANCO FORTINI, 26 AGOSTO 1990
«Di qui non si vede nessun lume. Non si intende nessuna proposta ragionevole. Ma nel buio apriamo gli occhi. Ricordiamo le forme dei corpi e delle cose. Nominiamole. Questo è di ogni inizio. Quelli che intorno a noi pretendono vedere sono in sogno. O ciechi. Le loro ironie sono scherzi da obitorio. Si agitano sull’orlo di una fossa comune»
(Da F. Fortini, in “Disobbedienze II, pag. 124)
AL VOLO/PORTELLI
“Non credo che ci fossero dubbi sulla moralità della resistenza nel Rojava. Però non solo non gli abbiamo mandato armi, ma mentre paragoniamo chi si arruola per combattere col battaglione Azov alle Brigate Internazionali di Spagna, gli italiani che sono andati a combattere nel Rojava li teniamo sotto sorveglianza di polizia perché possibili minacce all’ordine pubblico. È vero che il Rojava non stava «nel cuore dell’Europa»: stava in Turchia, paese nostro alleato, nel cuore della Nato, portatore dei nostri valori occidentali.”
(https://ilmanifesto.it/perche-e-sbagliato-il-paragone-con-la-resistenza/?fbclid=IwAR3iYZkqGsVBgiXX9twTL1IX9k8JgNvbphDetAg7cHFXXi2P5ccHteLJGDU)