di Ennio Abate
Poi – altre amarezze! – pensava al corpo docente. E allora ci pensava, ci pensava. Ma complessivamente, s’intende. Come categoria. E pure al suo di corpo. Che anch’esso ormai era diventato di docente. E al corpo non docente, bidello o aiutante. Ma in maniera più sfocata per minore frequentazione quotidiana. E più di tutto al corpo docente femminile, dal quale – maggioranza in tutte le scuole – s’aspettava chissà quale educazione dei suoi grossolani e contorti fin dall’infanzia – gli avevano detto – sentimenti.
Ma le colleghe! D’improvviso, in un giorno ormai indeterminato nella memoria, prof Samizdat s’accorgeva che il rapporto – rapporto? – con questa o quella collega s’era guastato. In assemblea usasti contro quella un tono di voce troppo aggressivo? Avevano i cazzi propri da sbrigare o gatte da pelare? Volevano (da te) essere lasciate in pace? Oppure – in particolare quelle che più gli piacevano – chiacchierando con lui, avevano gelidamente esaminano quel suo desiderio di conoscerle, di amarle, di toccarle, e deciso di scansarlo? Ma cosa avevano esaminato di lui? Non c’era un maledetto modo di capirlo per quanto si sforzasse. La vita emozionale a scuola era per lui inafferrabile, gli sfuggiva, non si offriva. Ne soffriva.
Ma più spesso ancora passava a pensare al corpo giovane di studenti e studentesse che lo attorniavano, girandole mobili e coloratissime…. per corridoi, aule, atri, scalinate, laboratori sottoterra.
Dunque, a scuola, in quel Pacco Nord, riusciva a pensare persino ai corpi. Solo adesso? Non ci aveva mai pensato prima? E cosa ne pensava? Dillo, su! Che entravano e uscivano frettolosi. Come accade in qualsiasi stazione. Che si agitavano, ripetendo mille volte riti obbligati e insignificanti: apri la porta a vetri, metti la firma su registro delle presenza, saluta, guarda quello o quella che, nell’angolo, fuma una sigaretta, guardando fuori dal finestrone appannato o non pulito da mesi. E bravo chi, da attore, recitava la lezione nel suo isolotto e poi, uscito dall’aula, galleggiava sorridente nel mare di chiacchiere confidenziali sussurrate durante la pausa al bar, l’intervallo, l’ora a disposizione.
Oh, come per tutto quel docere e chiacchierare, i corpi – il suo, degli altri, delle altre – si stancavano, si logoravano! Eppure docevano. O facevano finta di docere e chiacchierare. Anche se stanchi, anche se logorati. E malgrado la condizione di organizzatissima follia. Sì, lì dentro il Pacco Nord. Sì, lì nella società circostante.
E vuoi che non si accorgessero alla fine – magari della carriera di docenti, quando il cuore cominciava a tremare di più – che il loro sconclusionato e clandestino tentativo di pensare – lì, dentro lo spazio scolastico – era stato un fallimento?
E vuoi che – tanto o poco – la mente di prof Samizdat e dei suoi colleghi e delle sue colleghe non mentisse? Specie quando si poneva – ogni tanto, eh! – di fronte al dilemma che lo angustiava continuamente, da quando metteva piede al Pacco Nord a quando ne usciva e si rimetteva in auto per tornare a casa. Quando, cioè, si chiedeva: può il nostro corpo docente – perché c’era dentro stanco, appesantito, in via d’invecchiamento – tenere il passo, inseguire, il guizzante, strafottente, corpo di studenti e studentesse?
Voleva insegnare a se stesso ragazzo e al pezzo di sé che scovava in certi studenti…
Nella sua mente di prof di periferia ancora aleggiava il mito della Didattica. A più facce: libertaria e antiautoritaria (ah, Summerhill!), classista e rivoluzionaria, riformista e Picci-na. E dacci dentro con Lettera a una professoressa di don Milani, Gli argomenti umani di Vegezzi e Fortini, i laboratori e il lavoro di gruppo di Francesco De Bartolomeis (nato, come il padre di prof Samizdat, Mìneche, a Pellezzano nel 1918). E più tardi ecco i primi volumi dal bordo grigio cenere del Materiale e l’immaginario (il MEI!) di Ceserani e De Federicis. E poi notizie sparpagliate dai giornali: sulle filastrocche di Gianni Rodari, le sperimentazioni coi ragazzi di Mario Lodi, le tesi del Movimento di Cooperazione Educativa, la pedagogia degli oppressi di Freinet, le riviste Scuola e Territorio o Riforma della scuola. Ma – non bastasse – c’erano stati puri gli echi – sempre echi in periferia si sa – di Eros e civiltà di Marcuse, del desiderio dissidente di Fachinelli. Che scorpacciata! Che carnevalata! Che ricreazione! Questo il caleidoscopio in technicolor didattico-pedagogico-politico-sentimentale-intellettuale, a cui prof Samizdat aveva guardato. In fretta, quando poteva. Per lui venuto su, stentato, nell’ancora mussoliniana scuola del dopoguerra con manuali senza quasi illustrazioni e minestrine da sacrestani che bendidio o del diavolo tutto d’un colpo!
Eh no! Che rito è sempre stata la Schola. E rito è e sarà. Che dolce morte è la Schola. Dispendio inavvertito è. E sarà. Avevate voglia di insinuare che il corpo docente – specie maschile, ma spesso anche femminile – non sa più voler bene. Così diceva la collega bionda. O che non sa più soprattutto capire. Non vuole più capire. È stanco, poveretto. Come le replicava, testardamente e meridionalmente illuministico, prof Samizdat. Mentre lo vedeva adirarsi – e in parte anche a ragione – di fronte allo spettacolo di corpi e menti di studenti e studentesse che si staccavano, si disperdevano, si frammentavano, s’imboscavano.
Perché impacciata era ora agli occhi di prof Samizdat la loro pretesa di rivoluzione. Fare una bella – dicevano ancora così! – Settimana d’Occupazione. Del Vuoto Scolastico? L’unica ideuzza vagamente ereditata dal Grande Movimento che gli era rimasta. E che ripetevano. Con comportamento da automi, però. Abitudine sciocca, svuotata ormai. Una recita in un luogo e dinanzi a spettatori che non erano più la maggioranza silenziosa del ’68.
Voleva insegnare a se stesso ragazzo e al pezzo di sé che scovava in certi studenti…
E, perciò, quella notte – lasciamola sempre indeterminata – prof Samizdat sognò. Che c’era un asilo da mettere su. E un dotto dottore stava spiegando le operazioni necessarie per farlo funzionare. La gente, però, era impaziente. Pretendeva che funzionasse subito, già dal giorno dopo. E allora prof Samizdat invitò i genitori a sedersi su sgabelli improvvisati per tenere un’assemblea. D’improvviso entrò Massim. Era su un cavallino bianco. Gliel’avevano regalato i genitori, andava dicendo. E lo usava nel traffico cittadino. Al posto dell’utilitaria. I bambini lo avevano accolto festosamente. E Massim, paziente, li metteva in sella a turno, ridendo e scherzando ora con uno ora con l’altro. Prof Samizdat, che si era lasciato distrarre un attimo davanti a uno spettacolo così giocoso e inatteso di un mondo di ragazzini felici, quando si voltò di nuovo verso l’assemblea dei genitori, s’accorse che il pubblico era completamente mutato. Non c’erano più i proletari mesti o rissosi che aveva conosciuto nella lotta per la Scuola Materna del Quartiere Stella. C’erano signore con velette e tailleur, uomini grossi, grassi, incravattati e con le dita piene di anelli costosi e vistosi. Doveva per forza cambiare il discorso che aveva preparato. E tener conto di questo nuovo e certamente ostile pubblico. Ma i compagni non si fidavano più di prof Samizdat. Lo giudicavano all’antica. E affidarono l’introduzione del discorso a Gigi della libreria. Gentilmente prof Samizdat si premurò, comunque, di avvertirlo. E gli sussurrò: – Attento a quello che dici e a come lo dici. Qui è cambiato tutto.
Nota