… il bianco e il nero sono due colori senza tinta

 di Angelo Australi

 “Nei vecchi archivi del Dienneà
le domande dei fossili viventi
con altre pratiche e altri documenti
ingialliscono nell’oscurità.”

Carlo Lapucci, da Canti Paleolitici e fossili viventi senza un domani
Le Sámare Editrice Firenze, marzo 2022

Circondata dai monti e attraversata da un fiume con molti affluenti, la pianura nel mese di luglio si trasformava in una sorta di pentola a pressione. Al tormento di quell’aria afosa Spartaco non si era mai abituato. Poteva convivere con il freddo pungente dell’inverno, con il periodo autunnale in cui si formava una nebbia che entrava nelle ossa e s’infittiva fino al punto di non farti vedere niente da una breve distanza, ma non aveva mai imparato a sopportare quella calura che toglieva il respiro con il più insignificante dei movimenti. Anzi, da quando era andato in pensione l’insofferenza per l’alto tasso di umidità del periodo estivo si era accentuata, investiva ogni parte del suo corpo. La respirazione in affanno, la stanchezza nelle gambe, il formicolio alle mani, ma soprattutto a renderlo apatico e privo di stimoli era quel recinto confusionale che si produceva a livello mentale. Era trascorso già qualche anno dal giorno del suo pensionamento, nei primi tempi aveva considerato questa insofferenza per la stagione estiva una sorta di preavviso della vecchiaia, le cui conseguenze ancora non aveva ben capito in che modo riuscire a metterle a fuoco per accettare di conviverci. Guardava indietro alla fine che avevano fatto i suoi genitori prima di morire, ma in quei ricordi non era semplice rapportarci i dubbi o le paure nell’immaginare come avrebbe potuto presentarsi a lui l’invecchiamento fisico e soprattutto mentale. In un anno riusciva a leggere molti libri, ed aveva sempre scritto, soprattutto racconti, ma in modo saltuario prima di raggiungere il traguardo della pensione, perché i tempi della giornata erano dettati da un lavoro dove sentiva di star facendo qualcosa di utile per la società, così anche l’idea della vecchiaia diventava un pensiero tra i tanti, una di quelle astratte immagini che circolavano nel cervello senza lasciare strascichi. Fino a quando aveva lavorato, in ufficio e spostandosi in auto per partecipare a delle riunioni o fare dei sopralluoghi c’era l’aria condizionata, mentre adesso il caldo diventava un peso insostenibile, intorpidiva la testa per intere giornate, annebbiava i pensieri e la voglia di agire. Lui aveva proposto di acquistare dei condizionatori per la casa, ma Ambra si era opposta per una serie di motivi legati alla salute. Una sostanziale differenza da quando ancora lavorava come responsabile di un’azienda di raccolta rifiuti era che, bevendo molta acqua, durante la giornata adesso urinava ogni mezz’ora. In quell’azienda aveva lavorato trent’anni e ancora non gli sembrava vero che fosse riuscito a raggiungere un livello dirigenziale appena con il diploma di terza media, al giorno d’oggi una scalata sociale del genere era impensabile, per ottenere quel ruolo occorreva almeno una laurea; rispetto a un titolo di studio, la conoscenza maturata dal basso oggi non aveva alcun valore. Era stato assunto come semplice operatore addetto alla raccolta dei rifiuti nel momento in cui l’azienda si stava costituendo, maturando in poco tempo una considerevole conoscenza dei sistemi di raccolta per la rete stradale di un territorio che andava dal caos della città alla quiete dei borghi collinari più sperduti, e questo gli era stato utile nel momento in cui la gestione del servizio venne estesa ad altri comuni, quando furono aperti dei centri operativi distanti dalla sede principale e bisognava nominare dei nuovi responsabili territoriali. Ambra suggeriva di farsi visitare da un urologo ma Spartaco si era sempre rifiutato, questa urgenza di pisciare in continuazione gli capitava solo nei mesi più caldi dell’anno, quando anche in una semplice passeggiata mattutina non faceva che sudare. Sua moglie non si rassegnava ad accettare quella disarmante faciloneria in fatto di salute, non c’era alcun nesso tra la sudorazione e urinare troppo spesso. Almeno un’analisi del sangue per controllare i valori del PSA; non era un medico, doveva smetterla di farsi le diagnosi da solo.

In questo periodo, terminato il lockdown della pandemia, per cercare un po’ di sollievo, Spartaco si recava al fiume di buon ora, almeno lungo il suo corso sperava di incontrare qualcosa di simile a quando al mare passeggiava sul bagnasciuga, e se sentiva lo stimolo di pisciare poteva annaffiare indisturbato qualche macchia di rovi cresciuta sul bordo dell’argine o sulla riva del corso d’acqua quasi in secca. Durante la primavera, con le limitazioni imposte dal servizio sanitario, era stato costretto a fare delle brevi passeggiate nei pressi della sua abitazione, ma adesso si era fatto due dosi di vaccino e sembrava non ci fossero più divieti, almeno per stare all’aperto. Portava sempre con sé una mascherina sanitaria e il cellulare, per mostrare il green pass, nel caso gli fosse presa la voglia di un caffè al bar.  Raggiunto il livello del fiume si sarebbe tolto la maglietta e messo i piedi a mollo in quel liquido limaccioso che ristagnava addosso alla riva, poi avrebbe approfittato dell’ombra rilasciata dalle acacie cresciute selvaggiamente sull’argine, osservando l’attesa di un pescatore che abbocchi all’amo una carpa, un pesce gatto, … magari un boccalone. Anche suo padre era stato un pescatore per tanto tempo, ricordava bene la sua pazienza, la sua capacità di sopportazione era simile a quella degli aironi cinerini o delle garzette che prima di catturare un pesce restavano immobili per un tempo all’apparenza interminabile. Se si fossero avvicinati al posto dove si era seduto li avrebbe ripresi con lo smartphone in un video da mostrare al nipotino di tre anni, per poi montarci su un racconto che catturasse la sua attenzione. Yuri, il nipotino, che abitava con i genitori in una porzione di casa colonica, stava sviluppando una gran passione per ogni sorta di animale, si divertiva a fargli il verso, e se il nonno parlava lui lo interrompeva appena sentiva un rumore diffondersi nella campagna circostante. Il bambino avvicinava l’indice alla bocca pieno di meraviglia, con un leggero soffio gli ordinava di tacere e indicava la direzione dalla quale proveniva il rumore, a quel punto tutta la realtà del luogo maturava alcuni istanti di sospensione assoluta anche nella sensibilità divertita di Spartaco.

Al di là di ogni aspettativa quella mattina al fiume trovò solo uno strano tipo perso con lo sguardo a fissare un punto indefinito sulla superficie dell’acqua, dove il sole si rifletteva in un bagliore che offuscava la vista. Un po’ celati dalla sua figura c’erano due secchi in plastica che all’origine avevano contenuto delle vernici a tempera di cui restava ancora qualche traccia sui bordi. Sembrava molto vecchio, Spartaco non riusciva ad immaginare come avesse potuto raggiungere il greto percorrendo quel centinaio di metri nei quali il sentiero scendeva dall’argine avanzando tortuoso e pieno di tranelli. Un sentiero colmo di ciottoli e nascosto dalle erbacce e dai rovi, dove anche lui a volte aveva rischiato di finire con il culo per terra.

– Buongiorno –. Buttò là Spartaco, sorridendo cortesemente.

– Salve…

Il vecchio gli rispose alzando mollemente il braccio in segno di saluto, e con un movimento della testa lo invitò a sedersi.

Spartaco fece un profondo respiro, poi guardò l’ora sul display dello smartphone: appena le sette e quaranta minuti, e in giro faceva già un gran caldo. – Ah!!!… L’aria che si respira qui, di questa stagione è un toccasana -. Poi volse lo sguardo dove il lungo ponte che attraversava il fiume a quell’ora del mattino era ingolfato da un costante flusso di veicoli che si muovevano a rilento per la prossimità di due rotatorie. Macchine, camion, motorini e biciclette circolavano nei due sensi di marcia, con tutta gente che andava nelle fabbriche della zona industriale o verso la stazione dei treni, per chi lavorava negli uffici della città.

– Non è vero? … C’è posto migliore, nel periodo del solleone?

– Credo proprio di no. Oltre la quiete, con un clima così afoso qui si spera sempre di trovare un po’ di quella brezzolina che accompagna il corso d’acqua.

– Cammini sull’argine battuto dal sole, ma poi ti accoglie questo paradiso – disse divertito il vecchio.

– Proprio così – rispose Spartaco, mentre si toglieva la maglietta. – Quando non si sa dove trovare scampo dal caldo, vengo sulla riva del fiume. Magari un po’ più tardi, … è un caso se oggi sono arrivato tanto presto.

– Che io sappia, non c’è niente di paragonabile.

Prima di sedersi Spartaco estrasse la mascherina dalla tasca dei pantaloni, ma il vecchio lo fermò dicendo che si era già fatto ben tre dosi del vaccino e all’aperto non era necessario mantenere certe precauzioni; ne aveva proprio abbastanza di non vedere le espressioni nel volto di una persona che ti sta parlando.

– Ho un nipotino di tre anni che ragiona come lei: appena gli sei vicino ti obbliga a togliere la mascherina.

– E fa bene.

– Sono tornato dal mare già da una settimana, ma non riesco ad abituarmi a questa cappa di caldo che c’è nella valle.

– Io invece sto recuperando un po’ il fiato, perché ho già fatto parecchi viaggi d’acqua per riempire i fusti del mio orto.

Il vecchio batté la mano su uno dei due secchi, poi finì per distrarsi osservando un capriolo che prima di avvicinarsi a bere, allarmato dalla loro presenza, sgambettava sulla sponda opposta del fiume.

– Come?!

– Ho un piccolo orto proprio qui, dietro l’argine. Se viene dalla direzione del ponte, forse ha visto le cinque piante di agrifoglio.

– Se le ho viste! Sono alberi enormi, … ancora tutti pieni di bacche rosse come a Natale.

– Erano già grandi quando ho acquistato quella striscia di terra – disse il vecchio. – Chissà chi li ha piantati…, certo non sono nati lì spontaneamente.

– E non ha un’autoclave per pompare acqua? Risparmierebbe molta fatica.

– Lo so, ma è proibito prelevarla dal fiume -. Il vecchio aprì le braccia in un gesto di rassegnazione. – Oggi è tutto illegale, non si possono più raccogliere neanche le canne per infrascare le piante di pomodoro o dei piselli. Siamo in un mondo che ti fanno sentire un farabutto per un niente. Tempo fa i vigili urbani hanno multato un tale solo perché aveva preso una cassetta di terriccio da quel boschetto di acacie.

– È insensato, dio santo!

– Eppure è così.

– Non ci posso credere.

– È la verità, … non ci sto ricamando sopra.

– Mi sembra un’assurdità, beccarsi una multa solo per del terriccio.

– Ce l’avevo, come no, … una piccola autoclave per pompare acqua dal fiume, mi hanno obbligato a toglierla, o a pagare una tassa. E comunque sia, mi sono beccato una multa di svariate centinaia di euro.

– Non era meglio allora farsi un pozzo artesiano?

– Mi sono informato, per fare un pozzo si deve pagare la gabella comunque. Non ho mica una coltivazione che ci faccio dei guadagni. Per annaffiare appena cinquecento metri quadrati, non voglio pagare un bel fico secco a nessuno. È dalle sei che sono qui a bagnare il terreno, e a quell’ora i vigili urbani si rivoltano nel letto, mentre adesso, ancora per un’oretta, sono impegnati a gestire tutta la confusione del traffico.

Spartaco sorrise, poi osservò le ombre degli alberi mentre riflettevano sull’acqua una sottile vibrazione capace di attenuare almeno a livello sensoriale l’aria riarsa del mattino.

– Gli ortaggi avvizziscono, se non si nutrono ogni giorno.

– Certo è molto che non piove, … non ho ricordanza di aver mai visto il fiume così in secca.

– Non sono i pochi secchi d’acqua che prendo a fare la differenza, però… Semmai è a quelle piagge dove coltivano granturco, lì annaffiano a pioggia mattina e sera. La realtà è che ormai ti fanno pagare una tassa anche sul pelo dei coglioni.

– Un tanto a pelo? – chiese Spartaco divertito.

– Un tanto a pelo – rispose il vecchio, ridacchiando. – Se dovessi fare il calcolo di quanto costa coltivare una zucchina, sicuramente è più vantaggioso acquistarla dal fruttivendolo.

– Perché lo fa, allora?

–È un modo sano di passare il tempo… E poi ho nel carattere il bisogno di guardare anche al frutto che esce dal mio lavoro. Se non avessi questo avanzo di terreno da lavorare ogni giorno, forse sarei già morto.

Mentre lo stava ascoltando Spartaco fu distratto da un fruscio frenetico che proveniva da molto vicino a dove si era seduto. Gli era arrivato all’orecchio con un suono rapido, affrettato. Si voltò di scatto per capire cosa stesse accadendo e all’improvviso, da dei cespugli di giunco, apparve un’enorme biscia che strisciò fino a scivolare in acqua.

– Una biscia! – esclamò. – Cristo, sembra lunga un chilometro.

– Quella serpe è più passata di me – disse il vecchio scuotendo la testa.

– Perché, quanti anni ha?

– Ne ho finiti novantadue, il mese scorso.

– Se li porta proprio bene.

– Novantadue, … e sono tutti volati via come un treno che sfreccia veloce sulla direttissima.

– Però!!! … Ci vuole una certa agilità a salire dall’argine trasportando dei pesi. Complimenti, vedo che è in forma.

Guardando in faccia il vecchio aveva finito per distrarsi dalla direzione presa dalla biscia, ma per il tremolio della sua scia lasciata sull’acqua intuì che era sparita sotto una cavità della riva nascosta dalla vegetazione, a poca distanza da dove si era immersa.

– Quando siamo in pensione si deve trovare qualcosa da fare in modo costante, altrimenti pensi solo al brutto che può capitarti ogni giorno. L’impegno però non deve essere un lavoro, devi farlo in segreto, solo per il piacere di farlo, sennò a che servirebbe lavorare una vita per qualcuno che ti paga?

Il vecchio fece il gesto di soffiarsi il naso chiudendo con la mano una narice per volta e schizzando gli umori nella pozza d’acqua che c’era davanti ai suoi piedi.

– È vero, come no! – disse Spartaco.

– Queste cose non s’imparano quando siamo in là con gli anni, ci vuole una dose di buona volontà, e bisogna essere allenati. Da giovane ero contadino, poi ho fatto il minatore, quando ancora nella valle si estraeva la lignite scavando gallerie. Per un po’ ho lavorato nell’edilizia, e alla fine nelle acciaierie di un paese qui vicino. Andato in pensione, con una parte della liquidazione ho comprato questo terreno perché avevo sempre mantenuto vivo il sogno di tornare a lavorare la terra.

– Anch’io faccio qualcosa con una certa regolarità. Una lunga passeggiata giornaliera, poi la lettura, … e se ho voglia scrivo delle cose.

– Fino a qualche anno fa andavo in biblioteca a leggere il giornale, ma non ho mai preso un libro in prestito. Mi sentivo impreparato, credevo di non essere all’altezza. Era come se i libri facessero parte di un altro mondo, rispetto a come sono sempre vissuto.

– Non ci trovo niente di strano, si può vivere una bella vita senza mai avere aperto un libro.

– Sui giornali ci sono scritti i fatti del giorno, si segue un po’ l’andazzo della politica, ma un libro, ecco, …. Lo so, bastava solo cominciare, ma sembrava un lusso che non potevo permettermi.

– Andando in pensione lei ha preso del terreno da coltivare, invece la prima cosa che ho fatto è stato catalogare al computer tutti i miei libri. Per un paio di mesi ci ho messo la testa ogni giorno, proprio come se si trattasse di un lavoro. Anch’io ho sentito la necessità di riempire le giornate con qualcosa di concreto da fare, anche senza la prospettiva di un compenso economico.

– Guarda, non leggerei un libro neanche se lo ordinasse il mio medico.

– Mia moglie minaccia di cacciare fuori di casa me e i libri, se insisto a comprarne così tanti.

Spartaco sorrise, cercando di fargli capire che stava esagerando. Poi alzò lo sguardo verso i monti che si ergevano in lontananza dietro gli alberi dell’argine, in quel punto dove si notavano ancora i pennacchi fumosi di un incendio scoppiato il giorno prima e che durante la notte aveva acceso il buio come una minaccia infernale. Prima di coricarsi si era affacciato in terrazza più volte ad osservare il suo sviluppo, mentre da lontano giungeva l’eco delle sirene dei pompieri e il borbottio di qualche elicottero che trasportava l’acqua da scaricare sul fianco del colle, là dove il fuoco era più intenso. In realtà un elicottero ogni tanto circolava ancora sopra le loro teste, prima di recarsi a monitorare l’esito del lavoro notturno.

– Se proprio devo essere sincero – confessò il vecchio, – un libro ho provato anche a leggerlo, la volta che avevo visto Gregory Peck nel film della balena bianca.

– Sta parlando del film con la regia di John Huston, Moby Dick, la balena bianca?

– Non so da chi fosse diretto, ma negli anni giovanili Gregory Peck era il mio attore preferito, non perdevo un suo film.

– L’ho visto anch’io, almeno un paio di volte. Lo passano ancora in Tv, ogni tanto.

– Dopo il film ho preso in prestito il libro alla biblioteca della casa del popolo. Un pappardone che non finiva mai. Saranno state mille pagine e non riuscivo a leggerne che due o tre al giorno, così mi sono scoraggiato e ho lasciato perdere.

– È un romanzo meraviglioso, mi creda.

– Non lo metto in dubbio, ma quando si descrive il mestiere del baleniere nei minimi particolari mi sfuggiva la trama, così è mancato l’impulso per andare avanti.

– In effetti quello di Melville non è un libro facile da leggere.

– Trovando tutte quelle divagazioni che si allontanavano dalla storia di questo capitano tormentato dalla balena, mi prendeva il sonno già dopo aver letto poche righe.

– Occorre un certo allenamento per arrivare a leggere il Moby Dick, anch’io alla prima lettura non sono riuscito ad apprezzarlo fino in fondo. Ci sono tornato sopra più volte, a distanza di anni.

– In realtà il personaggio del capitano che interpreta Gregory Peck non restava molto simpatico. Sembrava un mezzo spiritato, ossessionato dal cacciare quel demonio di balena che lo aveva reso storpio. Perché poi un demonio? … A me il bianco ha sempre lasciato immaginare una sensazione di purezza. I cristalli del sale sono bianchi, il bicarbonato. Le bambine che fanno la prima comunione, si vestono di bianco.

– Anche i fogli di carta usati da Melville per scrivere il suo Moby Dick erano bianchi – disse Spartaco ridendo, – … e chissà quanto ci ha bestemmiato sopra, prima di scrivere la sua storia.

– La neve, … è bianca –. Rifletté il vecchio a voce alta, come per cercare di continuare a riconoscersi concretamente in qualcosa di reale.

– Il bianco è come il nero, si tratta di due colori che non hanno una tinta. Se nel bianco c’è la sintesi, il nero è l’assenza di tutti i colori. Segnano entrambi un limite con il quale fare i conti. È un po’ come andare simbolicamente incontro all’ignoto. Quando s’intraprende un’avventura verso qualcosa di inesplorato, non si sa mai come andrà a finire.

– C’è tutto questo nel libro?

– Molto di più, ho solo fatto riferimento alla simbologia di un colore come il bianco che, alla fin fine, è qualcosa di assoluto come il nero.

– Allora l’uomo è figlio di una maledizione?

– Questo non lo so, però per chi ha scritto il romanzo la balena bianca rappresenta un qualcosa di cattivo che cova dentro la mente di ogni essere umano.

– Un bello scherzo del destino – disse serio il vecchio.

– La sorte in questo libro non trova spazio. Anzi – disse Spartaco ridendo, – forse è proprio il contrario.

– E ci trova da ridere?

– Rido perché l’avventura del viaggio a cui pensa Melville è come andare in un mondo che si nasconde nella mente di ognuno, senza fare eccezioni.

– È questo il significato sbilenco della balena?

– Non è lei a distruggere la nave e l’equipaggio? Non è il capitano Achab che costringe la balena a trascinarlo nel più profondo degli abissi perché perseguitato dal suo stesso odio? … In questa tragedia l’unico superstite è il giovane Ismaele, quello che alla fine ci racconterà la storia, e lui sopravvive restando aggrappato un giorno e una notte ad una specie di boa diventata nel frattempo la bara di un personaggio dell’equipaggio morto in precedenza. L’unico superstite si è salvato grazie alla bara di un morto, non è questo un paradosso?

– Non riesco a vedere un nesso con il fatto che il bianco e il nero rappresentino una stessa idea del male.

– Anche così le cose si mescolano. Negli abissi del mare non arriva mai la luce, c’è il nero assoluto. Laggiù si confonde tutto, … anche il bianco della balena.

– Sta dicendo cose che confondono la mente come un tempo mi accadeva con un amico di gioventù. Si chiamava Remo… Solo che certe fisse lui le prendeva da ubriaco, cosa che lei non è. Poveraccio, … non aveva cinquant’anni, quando è morto di cirrosi epatica. Remo per lo più si sbronzava il sabato sera al bar, prima di inforcare la bicicletta e andare a scoparsi una puttana che abitava fuori paese. La casa di quella prostituta si trovava dopo aver percorso qualche chilometro, in una strada diritta, ma stretta e poco transitata. Una volta lo accompagnai in questo giro. La mia bici era senza fanale, così in quel buio pesto della campagna restavo nella scia della luce del mio amico che andava a zig zag. Quando lo vidi sparire nella scarpata della strada, scoppiai a ridere come un matto. “Perché ridi, sei scemo?”, lui disse, appena risalito. “Non c’è niente da ridere, si è spostata la strada”. Io continuavo a divertirmi perché non lo avevo mai visto ubriaco fino a quel punto. Lo spingevo e ridevo, e Remo rispondeva agli spintoni. “Coglione, la strada è sempre lì. Ti stavo dietro, barullavi facendo vibrare continuamente il manubrio”. “Non è vero, si spostava la strada”. E io: “sei andato di fuori, piegando il manubrio troppo a sinistra, ecco com’è andata”. E lui: “ma credi che non sappia guidare una bicicletta? Porca miseria, so andarci bene senza mani anche quando ho bevuto. Vuoi vedere che lo faccio?”. “Te lo sconsiglio, visto che ti reggi a malapena in piedi”. “È stata la strada a spostarsi”. “Magari lo fa ogni volta che hai bevuto”. “No, no, … la sentivo muoversi, … e faceva trinquellare anche la bicicletta”. Quella notte provò a rimettersi in sella almeno cinque o sei volte, ma non faceva che poche decine di metri prima di cadere ancora, e trovava sempre il modo di rifarsela con la strada. A forza di ridere, ero sul punto di pisciarmi nei pantaloni. Ridevo come un matto, ogni volta che ruzzolava nella scarpata. Le strade non si spostano, gli dicevo, questa è una legge che non si discute.

– Bel personaggio il suo amico Remo.

– Già, … un bevitore come pochi – disse il vecchio, – ma spesso partiva per la tangente, se cercavi di stargli dietro ti faceva impazzire. Una strada che si sposta, dio mio! Un po’ come dire che è viva, ha le gambe, le batte il cuore.

– Le balene bianche saranno rare, … ma esistono veramente.

Il vecchio si distrasse fissando dei pesci che nuotavano senza timore intorno alla riva, mentre qualcuno più curioso si avvicinava a lambire le loro ombre riflesse sull’acqua.

– Penso sia l’ora di rientrare – continuò Spartaco, – si sta facendo caldo, … già non si respira.

– Io mi trattengo ancora un po’, prima di fare un ultimo viaggio con i secchi.

– Dia qua, glieli porto io.

– Non importa, faccio da solo.

– Non costa niente aiutarla.

– Allora, … se insiste.

Spartaco, dopo aver riempito i due secchi con l’acqua, sorrise al vecchio e alzò lo sguardo. Il paesaggio era troppo vario per cercare di comprendere il criterio associativo tra gli elementi naturali del fiume e quelli che mentalmente si era costruito durante quella strana conversazione. A poche decine di metri dal ponte c’era una pescaia e, nonostante la siccità, ancora l’acqua si distendeva a coprire per intero la larghezza del letto. Nel fissare la superficie notò che il riflesso dei raggi inclinati del sole attraversava tutto lo specchio trasparente della pescaia, formando come un passaggio che dal basso si allungava sulla vegetazione della riva che giocava con l’acqua. Fu un colpo d’occhio veloce, quello in cui immaginò il tracciato di una strada, ma per un istante avvertì la presenza di alcune cose della vita che provenivano da un punto dove il cielo perdeva tutta la sua importanza.

– Li lascerò dove inizia il sentiero, almeno le risparmio la fatica della salita.

– Grazie, … grazie di cuore – disse il vecchio. – Se le occorre qualche verdura, nel ritorno scenda pure all’orto, il cancelletto è aperto. … Dei pomodori, qualche cetriolo. Prenda tutto quello che le serve. … Ci sono dei peperoni, … qualche melanzana; di zucchine quante ne vuole -.

Il vecchio lo salutò tentennando garbatamente la testa.

– Grazie, … magari un’altra volta che capito da queste parti. Ora so dove si trova il suo regno.

                                                           Figline Valdarno, aprile 2022

13 pensieri su “… il bianco e il nero sono due colori senza tinta

  1. Figline… il Vadarno… regni che non finisci mai di esplorare. Sempre abitati da persone nuove, seppure lì radicate. Bel raccontare, Angelo! Mi piace il dialogo fluido e integrato alla natura, spontaneo, ma giocato con mano sapiente nella sua semplicità.

    1. Grazie Annalisa,
      di solito questi spunti per i racconti vengono proprio durante un solitario passeggiare sugli argini dell’Arno.
      angelo

  2. …un bel racconto, tra l’altro ci prepara alla necessità di affrontare estati sempre piu’ calde e siccitose. Il fiume che scorre, insieme alla vita e ai giochi di luce sull’acqua, invita due pensionati, tra loro sconosciuti e in cerca di frescura, a raccontarsela: i problemi contingenti, il tempo trascorso in varie attività lavorative, le reciproche passioni portate avanti con non poche fatiche, vuoi per coltivare un piccolo orto senza irrigazione, vuoi per soddisfare il desiderio di lettura…Come Siddharta sulle rive del fiume al termine della vita, i due diversamente vecchi arrivano ad affrontare il mistero del male, la balena bianca Moby Dick, che alberga in ciascun umano e che, di odio in odio, trascina verso la distruzione e l’autodistruzione…e questo nonostante il verdeggiante e rassicurante paesaggio fluviale, dove una lunghissima e inquietante biscia puo’ sfiorarti ad ogni istante e un elicottero volare sulla testa a segnalarti la minaccia del fuoco…Grazie

    1. Grazie Annamaria,
      in fondo i due personaggi trovano un punto di incontro pur essendo così diversi: uno che vorrebbe leggere tutti i libri del mondo, l’altro che si sente male al solo nominarli. Un po’ come il colore bianco e il colore nero.
      angelo australi

  3. Leggere di Spartaco in pensione fa un certo effetto, dopo averlo letto giocare con i compagni di colonia, ballare con la fidanzata o bighellonare con gli amici. D’altronde, come è stato scritto, la vita è un baleno, una balena e anche una…balera, dove si balla, ci si accoppia, ci si scoppia, si canta, ci si incanta, fino all’ultima nota, che viene sempre inaspettata.

    Inoltre, Angelo, desideravo porti e porre a chi voglia accoglierla una questione, che penso interessi tutti coloro che scrivano: nel racconto compaiono parole come lockdown, green pass, display, smartphone, ecc…, traducibili senza problemi in italiano: confinamento, carta verde, schermo, cellulare. Anche per computer avremmo un corrispettivo, come calcolatore o ordinatore. Temo che l’italiano stia rinunciando a interi settore del sapere, condannandosi piano piano a diventare un dialetto, per poi scomparire. Utilizzare la lingua d’altri, poi, significa anche ragionare con la testa d’altri; significa fare nostri, senza nemmeno accorgersene, schemi mentali altrui. Molto pericoloso. Anche perché le lingue non sono entità immutabili o divine, ma dipendono semplicemente dalle scelte di chi le parli: perciò, proteggere e incentivare la nostra bellissima lingua sarebbe possibile e, oltretutto, facile. Che ne pensi, Angelo? Che ne pensate?

    1. Caro Daniele c’è del vero in quello che dici sull’utilizzo di certe parole importate, che però fanno ormai parte di un parlato corrente. Potrebbe essere interessante magari reiventarne di nuove, senza utilizzare quegli esempi ai quali accenni, o magari scritte così come tanti le pronunciano.
      Mi ricordo un amico di mio padre, la volta che mi chiese di trascrivere sul portatile (vedi, non ho utilizzato pc) le sue pagine di ricordi scritte a mano. C’era un intero capitolo dedicato all’italianizzazione di parole inglesi imposto durante il fascismo, da sbellicarsi dalle risate da quanto erano ridicole. Credo di averle ancora a giro da qualche parte.

  4. SEGNALAZIONE

    Cronache linguistiche
    Come resiste l’italiano nei confronti dell’anglicizzazione?

    Stralcio:

    Più ricco e articolato il parere di Pier Vincenzo Mengaldo, il grande studioso di lingua e letteratura italiana che ha scritto per un certo periodo anche su questo giornale. Raggiunto il traguardo dei settant’anni, si è sottoposto a una lunga intervista condotta da Stefano Brugnolo e confluita in un libro piuttosto clandestino (non per nulla apparso nella collana padovana dei “Nuovi samizdat”), con il titolo “Passato e presente. Conversazione con Pier Vincenzo Mengaldo”. Nelle sue risposte, sempre nette e personali, c’è spazio anche per la presunta decadenza dell’italiano. Mengaldo ricorda alcune cose ben precise: che è vero che noi italiani non parliamo la nostra lingua con lo stesso grado di certezza linguistica con cui i francesi parlano il francese e i tedeschi il tedesco, ma è altrettanto vero che l’italiano è sempre una lingua viva e ricca; l’uso a volte pigro che se ne fa può essere il prezzo (non troppo alto, aggiungerei) che si paga al fatto che dopo tanti secoli l’italiano è riuscito a diventare la lingua della maggioranza: “se una lingua da lingua d’èlite diventa lingua di massa, non potrà portare lo smoking”. E poi, se è vero che per un uso più consapevole della lingua è decisivo il ruolo della scuola, compreso l’insegnamento della grammatica, è anche auspicabile che “tutti noi che scriviamo fossimo attivamente persuasi che l’italiano è una lingua da cui si può ricavare uno stile”; uno stile, reputa Mengaldo, che potrebbe giovarsi dell’azione benefica della lingua scientifica, serbatoio di precisione lessicale oltre che di chiarezza sintattica.

    Però qui torniamo al tema di partenza, quello dell’anglicizzazione, dal momento che da decenni gli scienziati hanno, comprensibilmente, rinunciato all’italiano come lingua attraverso la quale veicolare le loro scoperte; ma hanno anche spesso infarcito di inutili anglicismi i loro rapporti e i loro progetti in italiano, venendo coinvolti nell’eccessiva cedevolezza della nostra lingua di fronte alla pressione dell’anglo-americano. Una cedevolezza per la quale Mengaldo rinvia a un recente saggio di Sergio Bozzola, il quale, confrontando alcune scelte della nostra lingua con le corrispondenti scelte di altre lingue europee, russo compreso, documenta come l’italiano sia sempre la lingua che si comporta, nei confronti degli anglismi, nel modo più passivo. Il dato, a dire il vero, non è così pacifico, se qualche anno fa Harro Stammerjohann ha calcolato che gli anglismi presenti in un dizionario medio dell’italiano sono 2000, contro i 3000 del francese e i 7000 del tedesco; e che in alcune pagine comparabili di tre giornali dello stesso giorno, il “Corriere della Sera” con 25 anglismi diversi sta a metà strada tra “Le Monde” che ne ha 17 e la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” che ne ha 32.

    Comunque stiano le cose, l’italiano va certamente protetto e difeso, ma senza aderire alle fosche profezie secondo le quali tra breve non sarà altro che un dialetto di una lingua ‘superiore’, l’inglese. “È ragionevole ritenere che le cose non andranno così”, commenta lapidario Mengaldo. E io concordo con lui. Alla faccia di chi, come la rivista on line “Permalink”, introduce gli articoli sulla “neolingua” presente nei blog con il titolo apocalittico “perché l’italiano morirà”.

    Michele A. Cortelazzo
    Corriere del Ticino», sabato 2 gennaio 2007, p. 23

    (Da http://www.cortmic.eu/cronache/cronache150.html)

    1. Anche la voce “anglicismo” è un anglismo: la voce corretta è, appunto, “anglismo”, non “anglicismo”.

  5. Il problema da porsi è il condizionamento da parte dei giornali o della Tv, più in generale quello degli addetti ai lavori (ing. informatici, addetti alla comunicazione di aziende ed enti, scienziati, ecc…), sul chi poi nel quotidiano utilizza certi termini per dialogare con gli altri. Riportato alla conversazione quotidiana, dove uno come me coltiva i suoi frutti del linguaggio, quello che si racconta deve sempre aderire ad una realtà. Anche i vecchi che non conoscono l’inglese, durante questa pandemia parlavano di locdown e no di “confinamento”. Lo confesso, in questo caso specifico del racconto, non mi sono posto questo problema.

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