di Ennio Abate
25 febbraio
Quel compagno dei primi tempi di AO di cui C. diceva che era “uterodipendente”. Lo diceva con sprezzo. Da populista-stalinista che era. In una conversazione si vantò di essere cresciuto con la foto di Stalin e la lampadina votiva sul comodino da letto. E io pensavo al comodino di mia madre con lampadina simile ma davanti all’immaginetta del Sacro cuore di Gesù.
Scritture clandestine. Cambia molto se scrivi e lasci tutto nel cassetto? O meglio: nella memoria scritta, che così un po’ conservi e un po’ cancelli (perché non sai cosa diventerà col tempo e quanto sarà recuperabile da queste tracce che lasci). Sfuggi così allo scontro politico che avviene adesso dentro la lingua comune, di massa? E sei come uno che ruba in un museo quadri di varie epoche e poi se li conserva nella sua soffitta? Per farne cosa? Una contraddizione t’insegue. La sposti ma al buio, nella penombra, nella periferia – dove vuoi – ma non la sciogli. E, allora, altra domanda: per scioglierla, dove è più opportuno lavorare con la lingua: in pubblico o in privato? O – per disperazione e perché ti mancano le occasioni nella prima zona – sei condannato a lavorare soltanto nell’altra?
Per tanti anni (una vita ormai e come tanti altri, che hai incontrato) sei rimasto scrittore clandestino. Perché? Per autopunizione? Sì, in parte, forse. Come se aver abbandonato Salerno in quel modo avesse continuato a roderti. Anche a Salerno scrivevo e non mostravo quasi a nessuno i miei scritti. Sì, scrivevo già al liceo e prima ancora. Devo ricordarmi bene. Non provavo, però, quella specie di nausea che oggi mi fa sempre rimandare i tentativi – intermittenti, saltuari, poco convinti – di pubblicare. Oppure per oscillazione fra troppe e confuse spinte a esprimermi? Mi ero gettato nella cultura di massa con ingenua voracità. (Quante cose volevo essere e fare da giovane: scrittore, pittore, grafico, giornalista, allievo all’Accademia militare di Modena, occuparmi di cinema…).
Con Giancarlo Majorino. Riconoscere (districandomi da un’influenza sessantottina che è stata pesante anche per me) che la scrittura (in certe condizioni) non è surrogabile dalla politica; né deve stabilire a tutti i costi un rapporto col politico. Diffidare dei “letterati” (tradizionali o nuovissimi). Ma sapere che è un mio pregiudizio da controllare caso per caso. Perché esserlo più con loro che con i filosofi, gli scienziati, i politici? Un attrito con Giancarlo c’è. Perché anche lui “letterato”? Ed è riducibile allo scontro tra il suo “amodiismo” e il mio “fortinismo”?
Politica. Oggi cosa intendo io, isolato sempre più, per politica? Me ne occupo perché non ho smaltito l’esperienza introiettata nel decennio ’68- ‘78 , esaltante ma anche pesante e a volte umiliante. Dagli anni ’80 mi sono sempre più ridotto alle lettura (di articoli politici, di storia, di filosofia) e a occasionali scritture in forma di samizdat, che al massimo sono stati letti nella scuola in cui insegnavo e qualche decina di persone a Cologno, dove abito. Politica è adesso per me soprattutto un peso ereditato. E che non so scaricare e vorrei spartire con altri. (Ma anche in Ipsilon trovo scarsa attenzione). A volte mi pare di usare questo peso o pungolo o bisogno di politica (ereditato da Fortini ma non solo da lui) come clava moralistica che calo su quei pochi che mi stanno attorno, dispiacendo e rammaricandomi subito dopo, quando prendo atto della mia e della loro impotenza. Vedo rimozione verso la politica negli altri (in «Manocomete» ad es.) ma non sono più convinto di poterla smuovere con la denuncia. Comporterebbe – lo so – la rottura del legame con loro. Di fronte alla muta e crescente resistenza che sento venire anche dagli amici, mi accorgo che dovrei politicizzare in altra forma le iniziative o le attività cui partecipo. Ma come?
Fortini, Pasolini, Majorino. Penso alla traiettoria di Fortini: quel suo bisogno di politica lui l’ha sublimato dolorosamente in poesia e saggistica. Mi è parso di vedere una somiglianza col mio modo di sentire e perciò forse ho paternalizzato la sua figura. La confronto con la traiettoria di Pasolini. Il suo bisogno di politica lui, invece, l’ha naturalizzato (distruttivamente) in afferramento di corpi giovani sempre più sfuggenti. E Majorino? Lui pure tende ad interrarsi, affascinato dal groviglio corporeo (il suo corpo di corpi). E lo fa tirandosi addosso una coperta di linguaggio, nel quale la nominazione esatta, storica, degli eventi, degli individui, dei gruppi sociali si riduce. Mi pare che allude di più, incertamente. E che per lui niente più ci possa venire dalla storiografia, dalla sociologia, dal marxismo. Dobbiamo interrogare solo la filosofia, l’epistemologia, le arti?
Ho poi attorno a me la ostinata sordità politica della generazione più giovane. (Ad es., Franco Arminio, l’amico di Donato. O quelli che dirigono il pomeriggio di Radio 3). Anche nel tono di voce – piano, scorrevole, mai sussultante come il mio – sento uno stacco dai miei modi di ricercare.
4 marzo
Manocomete Con quali discorsi già elaborati hai a che fare qui? Per intenderli e sfuggire all’impressionismo della riunione assembleare o delle confidenze intriganti-amichevoli con alcuni dei partecipanti, bisogna leggere attentamente i testi già apparsi sulla rivista. Il suo nucleo è dato dai testi di Giancarlo e Giorgio Majorino, Luciano Amodio e Felice Accame. Il bisogno di politica che ho cercato di immettere nei mie interventi dovrebbe riuscire a rompere non le perplessità sfumate di Giancarlo ma le elaborazioni compatte di Amodio e della Nannei (che si è ritirata, pare…). Non mi va di essere il reduce del ’68, ma resto insoddisfatto della liquidazione di quel bisogno.
Perché insisto sulla dimensione politica proprio qui, pur potendo (forse) avere più ascolto sul piano letterario o poetico? Accanto alla rivista della Jaca Book (Inoltre), Manocomete è il secondo raggruppamento di intellettuali milanesi in cui entro. (M’invitò Giancarlo incontrato alla libreria Feltrinelli di Via Manzoni). Ma in entrambi i gruppi sembra ormai che l’esperienza culturale sia quella che conta. Specie in Manocomete. Non che sia assente la politica, ma essa viene trattata (vedi articoli Nannei e Amodio) secondo logiche disciplinari (sistemiche nel primo caso, hegeliane nel secondo) che negano ogni mutamento che potrebbe scaturire dalle zone sociali “basse”. Ad esempio, nell’articolo di Nannei (Manocomete n. 3) la logica liberista sembra accettata. Il governo berlusconiano è accusato per aver preso provvedimenti «che nulla hanno a che fare con ideologie liberali»(pag. 65) e i vincoli (liberisti) del sistema sono approvati («non potranno essere garantiti i livelli di soddisfazione dei bisogni che abbiamo sin qui conosciuti» (pag. 66).
Note
1. Un riflessione più approfondita della mia esperienza in Manocomete l’ho pubblicata nel giugno 2020 qui
2. Una su Luciano Amodio qui
DA POLISCRITTURE FB
Giorgio Majorino
Caro Ennio, come saprai Manocomete e’stato il terzo tentativo di Giancarlo (e con altri) di costruire una rivista culturale aperta ai contributi piu’diversi. soprattutto Il Corpo e Manocomete, la seconda Incognita era piu’ orientata alla poesia. Anche qualche anno fa, prima che si ammalasse, chiaCcheravamo di fare una quarta rivista…Ora questi progetti tendevano a costruire un insieme apparentemente eterogeneo negli argomenti e nelle discipline che invece, proprio nella loro diversita’ confluissero verso un’unitarieta, semplicemente umana. Figurati che io sono stato presente con due saggi di carattere psicoanalitico e altri due saggi di tecnica militare (la mia seconda specializzazione…). Ma in Manocomete c’era di piu’, come ben ricordi e cioe’ il tentativo di costruire un ‘collettivo’ che sostituisse la tipica ‘autocrazia’ dei pochi redattori. Da parte di qualcuno, del quale non faccio il nome, si e’ dichiarato che il suo fallimento dipendesse dall’assoluta egemonia di Giancarlo. So che mio fratello non poteva che essere cosi’. Ma secondo me il vero problema dell’insuccesso di Manocomete stava proprio in quella eterogeneita’ che non si accettava, in quanto mondi separati che non potevano essere unificati in una concettualizzazione superiore. Molto realistica, aggiungo io…
molto interessante la narrazione di Ennio Abate dedicata alle SCRITTURE CLANDESTINE, testimone di un tormento interiore, di una sofferente difficoltà a inglobarvi le innumerevoli e diversificate esperienze di vita e scelte interiori. Testimonia anche la continua ricerca di uno spazio e di un linguaggio per esprimersi convintamente, calandosi infine in un contenuto e in una forma che rispecchi pienamente un pensiero. A proposito, i modelli umani prescelti sono illuminanti, ma possono diventare ostacolanti se la richiesta di perfezione è troppo alta. Secondo me, è bene quando le Scritture Clandestine escono dai cassetti ancora da rielaborare, coraggiose nella loro onestà…Possono, in seguito, raggiungere una loro parvenza finita…Di Ennio ricordo la Scuola Cattolica a puntate, corredata da sorprendenti disegni…
“Di Ennio ricordo la Scuola Cattolica a puntate, corredata da sorprendenti disegni…” (Locatelli)
Annamaria, il mio narratorio a puntate è “A vocazzione”. “La scuola cattolica” è, invece, il romanzo di Edoardo Albinati.
grazie Ennio, volevo proprio riferirmi al tuo
‘A vocazzione’, ma ricordavo una sorta di confronto, per differenza, con il romanzo di E. Albinati