di Ennio Abate
11 novembre
Crisi con gli amici di Ipsilon Fatico a sbrogliare i miei umori viscerali da quelli più politici. Invidia o difficoltà di affrontare le nostre reali differenze politiche? Io parlo di una piega “salottiera” di Ipsilon ma in fondo a dividerci è l’atteggiamento verso l’attuale centro sinistra locale. Poi ci saranno anche risentimenti e delusioni più personali per piccoli sgarbi o disattenzioni o diffidenze nei miei confronti. Mentre io gli faccio spazio nelle iniziative a cui vengo chiamato a collaborare, essi non fanno lo stesso con me e mantengono ( o sono costretti a mantenere?) separate altre loro attività da questa di Ipsilon, che facciamo insieme. Oscillo tra confronto, mediazione e voglia di staccarmi per riprendere più apertamente la mia funzione di dissidente samizdat.
Ipsilon, “Laboratorio critico”. E’ radicalità della contrapposizione, èdesiderio più potente del piacere delimitato (per me) della “lettura”, del “fare arte”, dello “stare tra noi”, della “convivialità”, dei piccoli “valori” che sono stati imposti in questi ultimi decenni. Non ci dobbiamo sottomettere alle astrazioni: Poesia, Lettura, Cultura, ma depositare entro il Simbolico la nostra esperienza, la nostra “realtà”, stravolgendolo, allargandolo, “corporeizzandolo”.
Eppure anche i miei scritti samizdat rischiano di integrarmi nel gioco dell’opposizione cortese, “dall’interno”. Samizdat potrebbe ridursi a una banale maschera estetica. M’immagino che dicano: certo Ennio/Samizdat la pensa diversamente da noi, ha altri desideri, ma in fondo sta anche lui al gioco, al nostro gioco, nella nostra stessa comune condizione. Che in parte è vero. Ma salta, per questo, quella coerenza che vorrei mantenere fra il desiderio espresso nelle mie scritture e i miei comportamenti in mezzo a loro? Se uno mi dice: il tuo scritto “è bello” ma non condivido il contenuto, mi insospettisco. È come se mi dicesse: accolgo l’oggetto estetico, ma non voglio sapere nulla del resto: delle radici psicologiche e sociali nelle quali inseguo una domanda soffocata di azione e di rottura con questa politica culturale che ad altri non dà tanto fastidio come a me. E poi colgo un (tacito) abbandono del riferimento a Fortini, che in me resta più saldo, mentre in loro vedo riapparire il fascino del “poetico” e del “culturale” (inteso come etica dell’autonomia dell’arte, mestiere ben fatto). Fortini mi aiuta a capire il senso di questo scontro sotterraneo tra me e loro. Mi pare che essi sono pronti ad accogliere la “forma” (bella, anche inquietante) ma a patto che resti confinata nel campo estetico. E non viene così evitato o aggirato il compito di “dar forma alla vita”, che è poi la definizione che Fortini dava del comunismo?
Più subdola l’osservazione che mi ha fatto ieri sera C. : allora, per coerenza, non dovresti pubblicare niente. Così la spinta soffocata che vorrei far emergere almeno nella scrittura verrebbe definitivamente sotterrata nell’oscurità. Secondo lei, dovrei scegliere: o il silenzio o l’adattamento del mio/nostro desiderio espressivo alle regole “democratiche”.
22 novembre
Il lettore felice
Vive dentro la città, ma nel testo, una nicchia
ora quieta ora malinconica,
non senza asperità e lacerazioni
o crepe.
Vi può accogliere – dice –
solo i simili.
Agli altri, a lungo o per la vita intera
non lettori,
masse di naufraghi alle prese con la tempesta
che squassa il mondo,
e imploranti non parole ma salvagenti,
per timore di strumentalizzarli,
offre del piacer solo l’esempio.
Parlando con T. Si smorza la mia aggressività. Mi fa intendere che vive Ipsilon come un luogo dove trova protezione e comprensione. Un po’ una scuola in cui impara delle cose con piacere. Ma teme la mia spinta a polemizzare. E si dice spaventata dall’impegno che comporterebbe la volontà di intervenire a Cologno come una volta (“Ti ricordi che ci riunivamo ogni sera per mantenere il livello d’intervento che tu pretendi”). Non sente alcuna esigenza di scegliere, di distinguere. Neppure qualitativamente, figuriamoci politicamente. Poi scoppia a piangere e mi conferma la stima e l’affetto che ha per me ( “ti ascolto sempre volentieri”). Dunque, l’esigenza di politicità e criticità che cerco di immettere in Ipsilon è sentita così ingombrante? (Qualcosa che sfonderebbe quest’associazione-busta di plastica?). Si dice frustrata da ogni accenno di conflitto tra noi che superi il livello di guardia. Anche se ammette che la frustrazione è reciproca e pesa pure su di me. (M., a cui riferisco il colloquio, drastico: “Ormai è dappertutto così, reggono poco il conflitto e così vince il postmoderno”).
Abbandonare Ipsilon? Cercare altre forme di espressione? Tornare ai miei samizdat? Polemizzare in forma più fraterna? Riconoscere che esiste una visione che essi hanno della cultura (e della politica?) più femminilizzata?
24 novembre
sogno-poesia (bozza!)
alla stazione
convegno di povera folla infreddolita stanca
e muta e va vieni andirivieni
di solitudini inceppate
che si sono appena adesso disperse
e mi lasciano a proteggere
sto cagnolino fermo come un soprammobile
o secco e rigido di morte
una conclusione, dunque
e vado con un mio fratello ombra che mi tiro per mano
in cerca di una strada insolita, una scorciatoia
ma per dirupi o scogli deserti
incombenti su strade poco visibili
abissi di periferia, capogiri da terrazzi e immagino da grattacieli
unico passaggio azzardato
una parete liscia e solo un sentiero di cocci ben murati
da traversare senza fissare in basso
i gorghi, l’asfalto, il vetro luccicante di un mare?
e non una fune un appiglio un corrimano
rinunciamo, indietreggiamo io e la mia ombra fraterna
non sappiamo se di là più luce, se vita più dolce ci sia
restiamo aldiquà
in un terreno piano fuori mano
senza segni di vita
(ricordi il film dell’iraniano, Kustorami mi pare)
dove altri aspiranti suicidi si allenano
ingoiando disciplinati praline di psicofarmaci
e sorseggiando perché si quagli nello stomaco un amalgama duro
contro le pareti sanguigne
e s’addormentino
smettendo l’inquietudine le parole i discorsi
28 novembre
Rossanda su Fortini (Disobbedienze, manifestolibri) Dal ’68 la mia vicenda politica e culturale s’è svolta in questo solco del «marxismo eretico-critico». Ci sono, però, dei punti miei – di opacità, di distanza, di curiosità – che mi separano dalla generazione di Rossanda e Fortini e dal loro ceto intellettuale. Samizdat è la maschera con la quale alludo a questi elementi espunti o estranei ad entrambi. Quali? Approssimativamente: echi di meridionalismo populistico, evangelismo popolare, l’esperienza dell’immigratorio, della perifericità, della quotidianità del lavoro d’insegnante. Tutto ciò mi lascia spazio solo per un diarismo particolare e delle scritture a singhiozzo. Il mio incontro più diretto è con posizioni culturali ibride e vulgate. Quello coi livelli più alti della teoria è indiretto e per forza di cose più libresco che mediato da persone vive. E di sicuro l’Urss non è stata per me quello che fu per Fortini o la Rossanda.
29 novembre
Giancarlo Majorino alla libreria “Il trittico” La libreria è vicino a S. Ambrogio. Entro. Il locale è stretto e lungo. Tra il pubblico volti ormai noti della sua corte di amici, amiche e di *scriventi poesia* ( “Ma io dico: scrivono poesie o scrivono comunicazioni diaristiche, che ogni tanto vanno a capo?”). Trovo Majorino più a suo agio come poeta che legge che come direttore di Manocomete. Il rituale della lettura in pubblico di poesia ha un che di liturgico. A me fa pensare sempre alle messe che seguivo da ragazzo. Majorino legge. Fa un’aggiunta, delle precisazioni, qualche battuta “vera”. Uno del pubblico ha richiamato l’idea del poeta fingitore. Diceva che tra finzione e realtà non c’è ormai più distinzione. Majorino ha sorvolato. Gestisce la sua immagine con misura: battute ironiche brevi, a denti stretti, allusive. Non si butta mai in un corpo a corpo con il pubblico. È equilibrato anche nei giudizi sulle questioni “interne” alla comunità dei poeti. Viene tirato fuori il problema di cosa aggiunge la lettura al testo scritto e se vale di più la lettura del poeta o quella di un attore. Nella lettura quello che si coglie più facilmente è il “musicale”, hanno detto. Esco dalla libreria e m’avvio alla fermata della MM. Rumino. Ma al momento della lettura in pubblico la rete delle associazioni possibili non è limitata e offuscata? A me succede questo. La lettura mentale (Il lettore silenzioso) permette uno scavo che non è possibile quando si ascolta. (In pubblico poi). A volte dopo la lettura proprio non si sa che dire. Io sono tentato di scrivere e riscrivere, di aggiungere di mio. Mano mano. Mediazione il momento della lettura pubblica? Per me no. Ho bisogno del commento, della parafrasi, di una critica puntualissima. E questo pubblico di *scriventi poesia*? E’ molto milanese. A prima vista più numeroso e compatto e qualificato di quelli dispersi che ho conosciuto nell’hinterland. Non morire dalla voglia di star dentro questa comunità culturale. Ho provato con Manocomete. Non si quaglia. Ci sono distanze e orientamenti diversi. Forse inconciliabili. Mi chiedo a quali realtà guarda Majorino poeta. Nomina le donne, la massa-bambinopoli, la cronaca nera feroce, la morte sempre incombente. C’è attenzione al quotidiano (non più così tanto alla storia (o non più nei termini di Fortini e Pasolini). C’è la cronaca, la morte, il sesso, l’esistenziale dell’individuo ma è cancellato (come “ideologia”) un progetto collettivo in cui l’individuo si ritrovi, si riscriva (non si subordini). C’è la sperimentazione linguistica, preziosa contro la consunzione massmediale del linguaggio, ma che, però, salta la mediazione con quello (e le preferisce i linguaggi specialistici).
[Bozza polemica Dove guardate oggi, amici poeti? No, non voglio che ridiventiate giornalisti, politici, militanti, propagandisti di Qualcosa – cercate la poesia dentro la chiacchiera sulla poesia, mostratemi quella, spurgatevi dell’altra – c’è poesia anche nella poesia: ma non ogni poesia pubblicata è poesia – e la poesia non è affare di poeti, non è prodotto di corporazione, non è cultura di corporazione – non so se ho sbagliato negli ultimi tempi a non cercare più la poesia solo nei libri di poesia e a non frequentare i luoghi dove si raccolgono, si esibiscono, parlano i poeti (gli scriventi poesia di Majorino). Forse sono rimasto ancorato ad una stagione poetica passata, quando la poesia non si staccò dalla storia e dalla politica e dal sociale – emblema: il nome di Fortini, che ormai è finita e anch’essa ha mostrato i suoi limiti – (peggiori di quelli della attuale stagione?)]
14 dicembre
Christian Marazzi, recensione a La rivoluzione inattesa. donne al mercato del lavoro. Nuove pratiche ed. Starebbe avvenendo una femminilizzazione del lavoro. dovuta all’aumento delle donne nel mercato del lavoro, ma anche al «ruolo sempre più decisivo nei processi di valorizzazione del capitale di qualità fortemente femminili come le capacità comunicative e relazionali»; una maggior attenzione al valore d’uso, alla presenza rilevante delle donne nel lavoro autonomo, al più alto grado di scolarità rispetto alla forza-lavoro maschile).
24 dicembre
Agamben: riapprendere il buon uso della memoria e dell’oblio «Perché oggi in Italia è così difficile parlare di amnistia? Perché la classe politica italiana, a tanti anni di distanza dagli anni di piombo, continua a vivere nel risentimento? Che cosa impedisce al paese di liberarsi dai suoi “cattivi ricordi”? Le ragioni di questo disagio sono complesse, ma credo si possa rischiare una risposta. La classe politica italiana, salvo alcune eccezioni, non ha mai ammesso apertamente che vi sia stata in Italia qualcosa come una guerra civile, né ha concesso che il conflitto degli anni di piombo avesse un carattere genuinamente politico……..Essa è condannata al risentimento, perché in Italia l’eccezione è veramente divenuta la regola e paese “normale” e paese eccezionale, storia passata e realtà presente sono divenuti indiscernibili…. L’incapacità di pensare che sembra oggi affliggere la classe politica italiana e, con essa, l’intero paese, dipende anche da questa maligna congiunzione di una cattiva dimenticanza e di una cattiva memoria, per cui si cerca di dimenticare quando si dovrebbe ricordare e si è costretti a ricordare quando si dovrebbe saper dimenticare…”
(il manifesto 23 dicembre 1997)
Nota
Una mia riflessione sulla storia dell’Associazione culturale Ipsilon di Cologno Monzese (1989 – 1999) si legge in questo PDF:21 mag 2022 10 anni di Ipsilon versione 1999 rivista nel 2017
Sbaglio a identificare in questi “Riordinadiario” l’influenza di un femminismo che aveva liberato la riflessione “a partire da sé” per collegarsi con la vita sociale/culturale in cui si era inserite/i?
Una pratica che risaliva a più di ventanni prima e che segnò in modo irreversibile la *politica*.
Tutto (a rébours): l’amnistia, il lavoro, la “vecchia” poesia (allora superflua e forse oggi illeggibile), il marxismo eretico-critico (e la “distanza” cui Abate accenna), le riviste (domanda soffocata di azione? protezione e comprensione?), indica che è avvenuta -allora- una rottura che solo ora possiamo guardare lucidamente, dalla miseria in cui siamo precipitati.
Se tornare indietro è impossibile, è anche vera quella espressione di Gramsci per cui il vecchio è morto ma il nuovo ancora non si distingue.
Il vero problema, da quell’eremo in cui mi sono ritirata, è su chi contare per una possibile circostanziata ma decisa ripartenza. Chi? Chi, oggi?