di Cristiana Fischer
Dall’appena pubblicata (su You Print) e a prima vista smilza e sommessa raccolta di poesie di Cristiana Fischer ho scelto di segnalare questi quattro testi. E, dunque, quattro temi: Il vento (“re sonoro”); la casa abbracciata da “alberi giganti”; il fiducioso desiderio di “credere” e di “sapere”; la vecchia in meditazione sulla “sua morte” e su “un doppio sé impensabile”. Lì ho estratti (non proprio a caso ma con un certo arbitrio) dalla prima lettura che ho fatto. Ma – occhio al titolo della raccolta e al termine “regni”! – alla ineludibile tripartizione scelta dall’autrice andranno ricondotti in seconda o terza lettura per svelarne gli enigmi allegorici, che mi pare di cogliere. [E.A.]
Il lento perenne avvertimento dell'inizio turbamento e generazione pennacchi e piume d'aria perché il vento spira volubile e amoroso in curve tra i muschi e gli uccelli increspa le muraglie di onde le inclinate pianure del coltivo e le maree varianti di pagine e di aghi entra e coglie riflessi iridi d'ombra mulina correnti di flussi. Adatta l'albero i pensieri a foglie rovesciate e nervature di tremule apparenze stende chiome ai cantori del presente che l'aria sface a primavera è già selva dea d'erbe e farfalla. In mezzo ai più diversi scambi degli uccelli ai fischi dei fringuelli a gorgheggi profondi e violoncelli nascosti gareggia il re sonoro nel timbro e nelle armoniche si invola in altre macchie e in altre stanze abitudine agli alberi giganti circondano la casa che difende suo poco spazio e non si stende al bosco che circonda e non si arrende al loro carico di insetti e foglie. Ma la bellezza e forza della loro vita lunga più della nostra e l'insistenza del loro crescere al tempo delle piogge e del sole al nostro parallelo - e grazie al cielo grazie al cielo libero e felice che stabilisce vita nostra e loro: noi umani storditi e confusi essi giganti della vita eppure a loro donati ci affidiamo e in protezione conserviamo forza vegetale nella nostra animale base dei conflitti orrendi distruttiva. Caino è un animale umano quanto dio sa e le piante eterne noi sappiamo ciechi ai divini reggitori del vento vorrei credere al maggiore senza misura che conosca, alla spiegazione della mia limitazione, vorrei fidarmi di altri che io non sia vorrei che tutto ancora finisse senza alcun problema vorrei sapere la casa il luogo della propria consistenza il ruolo conosciuto confermato io vorrei sapere il cibo l'aria senza scosse vorrei sapere le mosse dei venti e dei semi e dei fecondanti pollini e semi coincidenti vorrei sapere del mio animale sopravvivere e delle morali concordanti e animate censuranti ogni forma meccanica senz'anima. Tanto è forse sovrumano. Ci riguarda in coscienza profonda aggiunta alla bestiale mossa di controspinta, alla nativa primitiva all'origine potenza creativa. La vecchia si avvicina alla sua morte sola e solo pochi affetti a quella sua partenza assisteranno. Come se arrivo promettesse ad altra vita per chi ancora resta. Chi nega in sé il passaggio chi dispera della fine chi si allegra di cieca lontananza. Ricorda la vecchia di lontane beate inconsapevoli delizie con dolori miste non mortali e senza reale sospettare di quel rimbalzo in altre sfere del pensiero del credo delle fitte trame che alla soglia mortale tutti quanti in collegamento trasmettiamo: così ora nei secoli del mondo l'assedio della vita o la speranza di un doppio sé impensabile nel fondo comune coltiviamo
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Tre regni
Cristiana Fischer
Data pubblicazione 17 June 2022
- Tipo: Ebook (Epub-Mobi)
- ISBN: 9791221417654
- Stato: In commercio
- Prezzo: € 1,49
- Categoria
CRITICA LETTERARIA / Poesia
Belle, circolari e articolate e mai banali! Lette con piacere!
Piaciute. Anche il linguaggio, una volta familiarizzato con legamenti rapidi e costanti, mi arriva comprensibile, e le domande sono alte e oneste.
SEGNALAZIONE
Ho trovato quella forma lì e tanti saluti. Tanti saluti e peggio per me. La stessa composizione della poesia avviene in modo molto poco consapevole. Gli originali delle poesie sono assolutamente privi di correzioni. Prendo la penna, scrivo la poesia. E poi basta. La produzione poetica non subisce nessun ripensamento e molto raramente qualche correzione, perché il gettito è immediato e ha la durata che ha. Non posso proseguirle. Quando è finita, è finita. E sono anche gettiti brevi. Poi può darsi che mi capiti che in una situazione particolare, in realtà perché mosso da un’emozione, da un affetto in senso tecnico, io abbia la necessità di produrre più di una poesia: una poesia dopo l’altra, completa e non passibile di una prosecuzione. Posso farne anche quattro o cinque e sono quattro o cinque e basta, su cui non è più possibile che io eserciti nessun controllo o correzione, perché dovrei essere oggetto della stessa passione che nel momento della creatività mi ha percorso, mentre io sono una persona normalissima e dopo la produzione, o il gettito, riconduco una vita normale, senza bisogno di ricorrere a queste forme di scarico.
Leggendo le tue poesie e, a maggior ragione, ascoltando quanto tu dici, forse non ha neppure senso andare a indagare quel deposito inconscio.
Sì, probabilmente non ha senso, però non è un deposito intatto che non subisca delle entrate. Se è una quantità d’acqua, a un certo punto ci sono gli affluenti che vengono da chissà dove, oppure vengono da occasioni esistenziali che vanno a confluire lì, al momento in cui giungono alla loro foce che poi è una specie di lago. Io non me ne accorgo ma, al momento stesso in cui lo avverto, non posso fare a meno – non è una esagerazione – di far defluire quest’acqua o questa passione liquida. Sì, defluisce ma non per questo lo scarico riduce il lago. Infatti c’è una continua affluenza. Mi auguro che duri tutta la vita.
Io pensavo alle prime esperienze, quelle costitutive della nostra esistenza, che sembrano dimenticate. Non ci si ricorda, come diceva Benjamin, di quando abbiamo cominciato a camminare, non ci si ricorda della prima volta che si è visto il viso della propria madre o del proprio padre eppure in quel momento, in quel riconoscimento iniziale, poi dimenticato, prende corpo una parte fondamentale della nostra vita.
Sì. Credo di poter dire che nel periodo in cui non avevo la possibilità di eseguire gli atti dell’esistenza in senso tradizionale questo deposito abbia subito dei ristagni che adesso mi risultano positivi. Si può dire, in un certo senso, che uno che rimane al chiuso, quando va all’aperto vede di più, magari vede di più anche il suo corpo, ha delle sensibilità che altri, che hanno speso il loro corpo nell’esercizio quotidiano della ginnastica o dell’amore o del camminare, non hanno.
È importante il fatto di aver avuto…
…questo stacco, che ha caratterizzato gli anni della mia formazione, costituendo una scena primaria.
Stacco che è stato anche una frattura: considerazione peraltro che emerge anche da un saggio molto bello di Luca Lenzini, che nota la ricorrenza di termini come «sosta», «soglia», «attesa», «frattura», «ferita». Tu parlavi dell’assenza, della sospensione del rapporto, dell’impossibilità di gesti fisici, eppure, leggendo le poesie, c’è una dimensione di concretezza, di una concretezza delle cose, dei luoghi e delle persone che è assolutamente sorprendente. Quando Lenzini accenna allo «spaesamento» indotto dalle poesie di Michele Ranchetti, io pensavo a quella concretezza. Come se lo spaesamento nascesse dalla percezione di questo fondo molto concreto ma guardato attraverso una finestra.
Tra le mie poesie ultime ce n’è una proprio sulla finestra. Questa è una poesia fatta adesso, ma dell’infanzia. Sono a letto in camera dei miei genitori, malato, e c’era una finestra:
Tra le due ante il cielo:
da destra entrano gli uccelli
brevissima presenza del vivo nel
vuoto bianco. Poi altri uccelli nel
riquadro celeste. Io guardo e mi
spavento per ogni occorrenza di
voli:
e solo nell’assenza dei rapidi corpi
lo spazio mi libera e mi assolve.
Fa parte dell’ultimo ciclo. Quando arrivano i vivi, io provo un turbamento. Andati via, le cose tornano al loro posto. È una situazione vissuta da bambino che però mi è rimasta in mente.
(Da INTERVISTA A MICHELE RANCHETTI di Massimo Cappitti https://www.ospiteingrato.unisi.it/intervista-a-michele-ranchetti-2/)
sono poesie molto intense che celebrano il tripudio della natura. Una natura mai inanimata, tantomeno morta, che il vento, “re sonoro”, riesce a sorprendere in ogni sua parte, come onda che scompiglia, come vortice, come direttore d’orchestra che tiene insieme voci e suoni…Soprattutto la prima poesia mi ha richiamato i dipinti di Van Gogh, dove cielo, sole, alberi, umani sono percorsi da un incessante brivido vitale costruttivo quanto distruttivo…
Anche la seconda poesia trsmette la forte sensazione di una potenza creatrice originaria presente nel manto vegetale: gli alberi giganti che delimitano lo spazio dell’abitazione umana, proteggendola, generano anche la continuità con la forza vegetale generata dalle piogge, dal sole…ma si dice di una forza distruttiva, in controtendenza: “…Caino è un animale/ umano quanto dio/ sa e le piante eterne noi/sappiamo ciechi/ ai divini reggitori del vento” Pure nella terza poesia si fa riferimento alla presenza del male: “Ci riguarda in coscienza/ profonda/ aggiunta alla bestiale/mossa di controspinta,/alla nativa/ primitiva all’origine/ potenza / creativa” Tuttavia non sembra poter scalfire la grandezza autogenerante della natura…
Nella terza come nella quarta poesia, con un linguaggio a tratti arcaico e con lo stesso slancio ispirato dal sentimento del sacro, si dice della grande sete di conoscenza e di esplorazione dell’animo umano e dell’autrice stessa dei versi…La sapiente vecchia, al centro di una visione di un percorso di un regno, e al termine della vita si interroga sul grande mistero della morte, sulle risposte umane fornite nel tempo, e si concede una speranza, non una certezza, di vita oltre la vita. Ci trovo tutta la tua sensibilità e filosofia femminista, Cristiana…
C’è qualcosa nella Intervista a Michele Ranchetti a cura di Massimo Cappitti che mi corrisponde: a 12 anni venuta da un paesino veneto e iscritta a un prestigioso liceo di Trieste, per le mie compagne ero una cosa incongrua, e perfino superba. (Tre anni dopo però, a Milano, la preparazione triestina fece di me una studente che poteva vivere di una certa rendita…)
Il punto che mi corrisponde è quell’isolamento avvenuto nell’adolescenza in cui si sono raccolte le acque di un lago che, si spera, non muterà di livello.
Per altro, volendo amare i maschi e avere figli, fin che essi non crebbero e io potei lasciarli, ancora rimandare… e accumulare acque (e erbe e fango e pesci) nel lago. Da una qualche ventina di anni, finalmente libera, le acque profonde mi sorreggono e mi ispirano poesie di pensiero che non altrimenti che così potrei esprimere.
“La forma espressiva è l’unica forma in cui l’aspetto conoscitivo si manifesta, non è possibile trasferirlo in una struttura più tradizionale, come potrebbe essere la ricerca teoretica o il saggio filosofico o ancora l’interpretazione psicoanalitica.” (dalla Intervista)
Leggo molto anche io e la riflessione che ne segue viene “espressa in un modo impressionistico, in modo inventivo, sul momento”. In sintesi: spero che questo tipo di esperienza, di cui Ranchetti ha bene dato conto, serva anche ad altre e altri per accumulare un lago che riverseranno, come fiumi, al prossimo che li vorrà ascoltare.
Quanto al “rimbalzo in altre sfere/del pensiero del credo” di cui ho scritto, al nesso tra sapere e credere in cui possibilmente si fonda “una speranza, non una certezza, di vita oltre la vita” come scrive Annamaria, la dimensione religiosa è per me più terrestremente fondata che per Ranchetti.
Egli parla di *perversione del cristianesimo*, in quanto non si dà più riflessione cristiana ma solo istituzione. Ne consegue per lui “non poter riconoscere la realtà come incarnazione, o come conseguenza dell’incarnazione”:
“io sto cercando di passare da una situazione controversistica, in cui trovavo alimento quotidiano e disperazione quotidiana, all’idea che questa controversia vada esercitata all’interno della struttura della Chiesa come io l’immaginavo e non della Chiesa che si vale del potere, perché questa è una situazione che non mi riguarda più. […] Mentre sono affari miei e rimangono affari miei la domanda sull’incarnazione, che non so bene se si è esaurita, quello è il mio dramma, la mia disperazione, a te lo posso dire.” (dall’Intervista)
Manca un passaggio fondamentale: la presenza nel cattolicesimo della madre di dio. Il dogma dell’Assunzione (riassunto nella frase simbolo «L’Immacolata Madre sempre Vergine Maria terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo») fu proclamato da Pio XII nel 1950 con la Bolla Munificentissimus Deus.
Non vado a messa da più di 60 anni, non mi coinvolgono i riti e le forme istituzionali. La divinizzazione di Maria in corpo e anima è per me un mito potente, simboleggia la nostra condizione materiale in cui speranza e non certezza si radicano.
p.s.: nell’intervista ad un certo punto c’è un argomento che legittima un sospetto.
“Ritengo che una delle novità che sta infrangendo l’etica religiosa è quella della distinzione tra i sessi che in questo momento sta finendo. La struttura dell’etica cristiana, anche il cosiddetto amore, era basato su una differenza, il riconoscimento della differenza era necessario per arrivare a compiere l’unità. Questo credo che sia infranto. Credo che adesso l’amore sia soprattutto omosessuale, l’amore, proprio l’amore oltre che la sessualità. […] Credo che il ribadimento della differenza, da parte dei teologi, ormai sia tardivo. Non è più possibile, non è più recuperabile quella differenza perché la Chiesa non ha ancora riconosciuto la verità e la sacralità dell’amore omosessuale e finché non lo fa è fottuta.” (dall’Intervista)
Fosse vivo oggi, Ranchetti farebbe rientrare il femminismo della differenza nel grande contenitore LGBT? La differenza naturale, essenziale alla continuazione della specie, come la singolarità di ognuna e ognuno di noi? Credo di sì.