Per un libro da scrivere
di Ennio Abate
Seconda parte
FRANCO FORTINI, IL DISSENSO E L'AUTORITA' (QUADERNI PIACENTINI N. 34 - MAGGIO 1968
Dicevo nella conclusione della Prima parte: «Tutte queste perplessità si rafforzarono dopo la lettura della replica di Fortini a Fachinelli».
Sul numero successivo dei Quaderni Piacentini – il 34 del maggio ’68 – nel saggio «Il dissenso e l’autorità» di Franco Fortini trovai, infatti, un immediato contrappunto al discorso psicanalitico del saggio di Fachinelli.
Qui si suonava un’altra musica, dissonante rispetto a quella utopistica e suadente-ambivalente di Fachinelli. Ho pensato più tardi che, leggere Fortini dopo Fachinelli, fu come passare dal tiepido-bollente dell’occupazione della Statale di Milano a una doccia fredda in una stanza appartata e in ombra. Vediamo perché.
Innanzitutto, Fortini parlava di studenti e movimento studentesco in Italia e non di giovani. Nei discorsi di allora (e di oggi) le due categorie si mescolavano o sovrapponevano ma indicavano già un differente modo di accostare il fenomeno: in termini esistenziali per Fachinelli, in termini sociali e storici per Fortini. E, infatti, il saggio di Fortini partiva proprio dagli effetti che quel movimento studentesco stava avendo su una larga e composita “opinione” genericamente democratica di varia provenienza culturale e ideologica (cattolici, anarchici, socialisti, comunisti); e rianimava anche – aggiungo io – i nuovi «piccoli gruppi intellettuali politicizzati», come quelli di «Quaderni rossi» o «Quaderni piacentini», che negli anni precedenti erano sorti al di fuori dei partiti e in rotta più o meno chiara con loro. E, perché no, sullo stesso Fortini, che nel ’68 era orami un cinquantenne. Infatti, le sue speranze nei confronti di quel movimento così nuovo, inatteso e sorprendente non erano meno intense di quelle di Fachinelli o di tanti altri.
Erano, però, di segno diverso. «L’anno degli studenti» (Rossanda) Fortini lo collegava a quelli di un passato, lontano e ormai oscurato, di lotte per il socialismo. E quando scriveva: «i giovani pronunciano le mete della rivoluzione socialista ignorandone i principi», pur riconoscendo con realismo che, nell’immediato, erano «più vicini agli utopisti che a Lenin»[1], si sentiva che scommetteva sulla ripresa di quelle idee e pratiche.
Anche se a una condizione: «se la richiesta etica [dei giovani, di quel movimento studentesco] si fosse misurata alla realtà dei rapporti di classe». Solo così, per lui, «gioia, integrità e autenticità» – i caratteri più osannati di quel movimento – «sarebbero facilmente apparse, come sono, beni non individuali che si realizzano solo nell’azione comune per una meta».
Ora a Fachinelli, che era interessato esclusivamente alla funzione repressiva dell’autorità paterna e a sottolinearne l’indebolimento se non l’evaporazione e assecondava il «desiderio dissidente» così diffuso nello stesso movimento studentesco, di misurare «la realtà dei rapporti di classe» nulla importava. Da qui il contrasto netto tra i due.
Fortini quell’autorità proprio non rinunciava a rappresentarla lui stesso. O almeno ad indicarne l’assoluta necessità.
Quello dei giovani, specie nella versione psicanalitica di Fachinelli, per lui era «spontaneismo etico»,[2] che sarebbe finito per chiudersi nel «conflitto con le autorità accademiche» o che si sarebbe smarrito in una «indefinita protesta».[3]
E non è che, così ragionando, Fortini negasse valore alla lotta in corso contro l’autoritarismo. Era una lotta «positiva e [andava] estesa ed intensificata nei fatti», scriveva. Non a vanvera, però, ma dove l’autoritarismo si manifestava effettivamente e produceva i suoi danni su individui e vita sociale. Quindi, andava evitata la trappola di un «uso ideologico» dello slogan «Contro l’autoritarismo» (Viale) o di un suo «uso parolaio e demagogico».
Criticava, di conseguenza, anche le pratiche del movimento studentesco. Anzi «l’idea stessa di occupazione» delle università, sebbene fosse stata una parola d’ordine che aveva coagulato le energie prima soffocate degli studenti in tante città dal Nord al Sud d’Italia. Per lui occupare le università in molti casi era stato sintomo di «povertà e nevrosi da assedio». Un atteggiamento solo difensivo, quindi limitato e carico di implicazioni negative.[4]
«Oltre l’autoritarismo c’è l’autorità», ricordava. Che, a differenza di quanto affermava Fachinelli, restava un problema aperto, con cui fare i conti. E qui portava l’esempio del marinaio di guardia al ponte – un possibile militante che lui aveva in mente per gli anni venturi, modellato su un po’ idealizzato antenato proletario? – , che nell’Ottobre del 1917 aveva respinto «senza tanti argomenti tutto un secolo di ideologia democratico-borghese nelle persone del Consiglio municipale di Pietrogrado in corteo patriottico verso il Palazzo d’inverno […] perché (ma è tutto) a due chilometri di distanza sta lavorando il cervello di Lenin che direttamente o indirettamente lo ispira (e se ne ispira)».
Il cervello di Lenin! Ecco, per Fortini, un esempio di vera autorità, non di autoritarismo.
Contro il fascino dell’informe bisognava, dunque, riconoscere «la guida di quel che è più e che precede»: «Hai l’autorità di un pensiero, di una verità, di un esempio». E non è detto che venga per forza dall’esterno, dagli altri o dai grandi pensatori, politici o scrittori. Perché aggiungeva: «finché non viene contestata in nome di una più alta, c’è l’autorità della propria esperienza», che resta una valida bussola a cui ricorrere, specie in situazioni estreme o d’isolamento.
Si chiedeva anche come si potesse lottare contro l’autoritarismo «se non se ne sa il perché»; cioè «se non si sa in nome di quale autorità si combattono le forme e le armi di cui si veste l’autorità che rifiutiamo. In nome, insomma, di quale prospettiva».
Ci voleva, dunque, «una ipotesi teorica» (da non confondere con un «sistema o dottrina politica»). Né si doveva «opporre, all’autorità, l’eguaglianza» come se l’autorità fosse la base, il fondamento della diseguaglianza. L’ eguaglianza era un’esigenza, certo. E andava posta come problema, chiarendo però di quale eguaglianza si stesse parlando.
Criticava, perciò anche le semplificazioni “egualitaristiche” di certi «controcorsi sulla repressione sessuale e sull’imperialismo e sul Vietnam […] svelti, senza biobibliografie né parole difficili». Erano la semplice «sostituzione di un’autorità con un’altra», ma compiuta «nel modo più autoritario ossia più ricco di pregiudizi semplificatori». Si buttino pure via – diceva – le «vacue bibliografie», ma «a patto di sapere perché e in nome di quale pensiero – ossia in nome di quale “bibliografia”» (o autorità) ci sbarazziamo delle prime.
Nella prospettiva comunista per Fortini non bastava «solo l’eguaglianza delle condizioni; ossia del punto di partenza», che anche una società capitalistica – si pensi ai tanti discorsi che ancora girano a vuoto sulle “pari opportunità” – potrebbe in teoria concedere. Egli chiedeva «l’eguaglianza delle conclusioni [che] vuol dire la massima omogeneità dei destini e dei comportamenti come conseguenza della loro massima integrazione».[5]
Per questo saggio e per tante altre prese di posizioni Fortini è stato di continuo accusato di alzare l’ormai proverbiale “ditino ammonitore”. I toni dei suoi interventi a molti (anche del suo giro letterario) sono parsi sempre troppo religiosi e biblici. O (nel giro dei “politici”) troppo letterari e classicheggianti.
In questo saggio, ad esempio, egli riconduceva quelle nuove “emozioni di massa” al tradizionale romanticismo, sospettandole di «estetismo».
Si sbagliava? Eppure oggi tra l’ironico e il serio mi vien da pensare che già in quel ’68 e in Fachinelli sentiva puzza di zolfo, se non già – azzardo! – la preparazione di quel “ritorno di Nietzsche” o della «Nietzsche Renaissance» (qui), che poi a partire dagli anni Ottanta del Novecento ha fatto strage dei pochi marxisti in cattedra nelle università italiane e li ha sostituìti con professori rigorosamente heideggeriani.
È certo, però, che non a torto le tracce dello zampino di Nietzsche in quell’ondata di “desideri dissidenti” ce lo vide. E da marxista adorniano-lukacciano, leggendo una contraddizione, dove Fachinelli con troppo sornione ottimismo vedeva soltanto «vitale ambiguità», reagì contro di lui a muso.
Quella per Fortini era una “questione di frontiera”. E, intransigente, pose un aut-aut: «Allora bisogna essere molto espliciti: bisogna dichiarare che ognuno è padrone di essere neonietzschiano ma non di parlare, nello stesso tempo, di condizionamento di classe o di proletariato». E a Fachinelli contrappose senza addolcimenti diplomatici la lezione marxista: «il discorso marxista non è […] una alternativa a quelle ipotesi di comportamento [desiderante, tragico]. Non ha niente a che fare con la “felicità”, non può proporre altro che una interpretazione parziale del mondo e saper di proporla».
Fortini difendeva la «parzialità proletaria» (quella della classe operaia o dei lavoratori e degli sfruttati contrapposta a quella dei borghesi o capitalisti e dominatori). Che non andava identificata con la «volenterosa Negazione della Negazione», tanto esaltata dai «tenebrosi Geni della Distruzione e dell’Odio».[6] Ci voleva, invece, una «visione politica di minoranza», capace di farsi strumento per «l’estensione della coscienza politica ad una massa». Al posto di contemplare fuori dal tempo e dalla storia l’informe o di persistere in una astratta «tensione utopica», bisognava fare politica e estendere agli altri, a molti altri la coscienza raggiunta da quella minoranza. Al posto degli atteggiamento antipolitici o impolitici, che comunque persistevano anche in quel ’68 di forte risveglio e impegno politico, Fortini con un accenno fortemente didattico, gramsciano e più avanti maoista, chiedeva un di più di politica, «un grado elevato di coscienza politica».
Il nuovo non c’era già, là a portata di mano. Non bastava raccoglierlo. Bisognava costruirlo. E, per costruirlo, ci volevano tutte le possibilità moderne di informazione e comunicazione». Non una «semplice estensione» degli strumenti già esistenti che sono stati «creati per i bisogni del dominio capitalistico». C’era bisogno di una «invenzione di strumenti nuovi o [un] nuovo uso dei già esistenti». Solo il «rifiuto di ogni delega» – su questo punto era in accordo con Fachinelli – e «l’estensione alla massa di nuovi mezzi di informazione e comunicazione capaci di rendere praticabile quella democrazia diretta di cui ridono solennemente i professori» potevano correggere lo «spontaneismo etico».
Di quei giovani o di quegli studenti in moto nel ’68 quanti sapevano di quel passato di lotte per il socialismo o intendevano misurare la propria rivolta su quelle di ignoti antenati o cogliere la differenza – non certo solo scolastica – tra utopisti e Lenin? O – si potrebbe dire oggi – quella tra Fachinelli, che vedeva il movimento «sgusciare verso qualcosa di nuovo», «qualcosa che è per forza ancora informe», e Fortini, che ad esso (ai giovani, agli studenti, ma più direttamente allo stesso Fachinelli, suo immediato interlocutore, essendo entrambi collaboratori dei Quaderni piacentini) rivolgeva la sua critica tagliente?[7]
(continua)
Note
[1] Un’eco di questo schema interpretativo lo ritroveremo più tardi, nel 1977, quando parlò dell’Autonomia. Anche in quel caso Fortini sottolineerà che l’”Autonomia”, vedendo l’organizzazione come «una trappola» ( un po’ come faceva Fachinelli nel 1968) e rifiutando «un programma, un comitato, una sede», volendo «coincidere col «movimento», pronunciava ancora una volta la verità, ma «con le parole dell’errore» .(Cfr. qui).
[2] Scriveva: «[esiste] tutta un’ala del movimento giovanile o studentesco internazionale», che sembra «in adorazione dell’angoscia di classe» e vive una «tensione tragica» e chiede una «immediata realizzazione del soggetto», esaltando «la catastrofe oblativa di una gioventù purissima e satanica» che da quell’angoscia si ripromette di ottenere «la moltiplicazione dionisiaca» dei piaceri.
[3] In sintonia con quelle passioni ribelli, Fachinelli aveva parlato di «un perenne NON BASTA». E non è che alludesse alla «rivoluzione permanente» di Trotzky, perché la sua cultura era dichiaratamente esterna se non ostile al marxismo.
[4] Tra l’altro messe immediatamente in risalto dallo stesso Elvio Fachinelli in quella analisi su « Gruppo chiuso o gruppo aperto?» (qui ) che in questi anni ho numerose volte citato e suggerito di leggere.
[5] La formula qui un po’ ellittica e forse difficile da decifrare può essere chiarita da questo passo di un articolo di Luca Lenzini, allievo e studioso di Fortini:
« Su questo nesso di razionalità ed esperienza insiste Fortini, ed è un nesso che si può leggere alla luce di un terzo elemento, non citato ma ben presente, ovvero l’idea di emancipazione: poiché è questo, alla fine, il passaggio ineludibile e tale, non altra, la questione ogni volta riaperta quando non si mira semplicemente a tramandare la cultura ricevuta. È il tema a fondamento di un’altra importante voce, Eguaglianza,[Nota.25 [Vocabolarietto dell’italiano, pp. 171-172, poi in Franco Fortini, Un giorno o l’altro, a cura di Marianna Marrucci e Valentina Tinacci, Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 280-281. redatta per l’«Almanacco Letterario Bompiani» del 1959] «[…] da Babeuf alla Comune di Parigi e dalla rivolta di Barcellona a quella di Budapest la passione dell’eguaglianza resiste. Alla falsa eguaglianza delle società fondate sulla concorrenza – che tanto più predicano gli uomini tutti egualmente figli di Dio o della legge umana quanto più profittano della divisione delle classi o, nella più ipocrita delle ipotesi, di quella fra riformatori e riformati – si debbono ostinatamente contrapporre la descrizione dell’ineguaglianza come risultato storico e l’ostinata lotta per raggiungerla. Gli uomini non nascono eguali. Possono meritare di diventarlo».
(Luca Lenzini, «Voci. Fortini enciclopedico», https://books.openedition.org/ledizioni/5407?lang=it)
[6] Molto più tardi, nel 1989, nella voce «Comunismo», precisa questo medesimo concetto con queste parole: «Meno consapevole di sé quanto più lacerante e reale, il conflitto è fra classi di individui dotati di diseguali gradi e facoltà di gestione della propria vita. Oppressori e sfruttatori (in Occidente, quasi tutti; differenziati solo dal grado di potere che ne deriviamo) con la non-libertà di altri uomini si pagano l’illusione di poter scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro “libertà” non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero Nulla divoratore. Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria» (qui, qui e qui).
[7] Nel saggio scriveva: «identificando con l’appassionata protesta contro la morte, che è di ogni giovane, le finalità politiche del movimento, non si fa che offuscarle».
* La Prima parte di Fachinelli e/o Fortini si legge qui
** Il dissenso e l’Autorità di Fortini si legge cercando il n. 34 di Quaderni piacentini qui
Il sensibile aumento delle nascite dopo la fine della IIGM, e lo sviluppo sociale che portò più scolarizzazione e più benessere, fa sì che circa 20 anni dopo i giovani si siano liberati dall’autoritarismo ereditato dalla società fascista che aveva ancora presa nei genitori dell’epoca, a livello generale (mi ricordo, eccome!, noi ragazze non potevamo andare a scuola in pantaloni, e si portava il grembiule nero anche al liceo). I giovani si trovarono a condividere la rivolta contro schemi autoritari insensati e si rivolsero a cercare nuove autorità. Fra cui il marxismo, che poteva spiegare i contemporanei conflitti del lavoro, e il femminismo per le ragazze che, andate a scuola e disimpegnate dai modelli servili imperanti, si rinforzavano identificando nuovi modelli femminili. L’egualitarismo del ’68 era nelle cose, era il rinnovamento della nuova generazione. Come se Fachinelli e Fortini vedessero due lati diversi di quel fenomeno generazionale, presenti ambedue e non in contraddizione. Poi… ognuna/o di noi, fatta sia la necessaria presa di coscienza sia la necessaria acquisizione culturale, si collocò nel reale conflitto sociale – non solo ai due estremi, ma sulle diverse posizioni di un ventaglio che li collegava. La “complessità” del ricco e frastagliato mondo produttivo e consumista occidentale! A questo punto, in un mondo di singoli, di individui, l’autorità ha altre caratteristiche: autorità simbolica materna, è stata una risposta. Autorità religiosa, un’altra. L’anticolonialismo ha fornito numerose risorse teoriche e pratiche a chi cercava una guida. Oggi la woke culture pretenderebbe di offrire una condivisione pacificante per tutti noi… Come cavarcela *oggi* è il problema.