di Angelo Australi
Ho scoperto di recente che sul tabellone della pubblicità a ridosso della rotatoria hanno affisso un manifesto che riporta la frase IL LUSSO DEMOCRATICO ITALIANO. È scritto bello grande, a caratteri cubitali.
Il lusso democratico italiano? Mi sono chiesto d’istinto, scorgendolo mentre guidavo l’auto. Che cazzo significa? Siamo ormai in piena campagna elettorale, in un momento insomma che ai partiti piace caricare la chiacchiera in alcuni argomenti conflittuali sui quali c’è da schierarsi idealmente, però qui manca qualcosa, sembra piuttosto l’assurdo slogan di un candidato che cerca voti in ogni direzione rimuovendo la conflittualità esistente nella frase tra il sostantivo e l’aggettivo. Non ho mai pensato che l’aggettivo democratico fosse sinonimo di lusso. Neanche minimamente immaginato qualcosa di simile in tutta la mia vita, vengo dalla scuola di alcuni vecchi partigiani che usavano il termine per rappresentare idealmente una persona ricca di senso del dovere e rispettosa dei diritti altrui. Un gioco impegnativo, insomma, se si vuole anche pieno di poesia, e il lusso, pur essendo un’aspirazione legittima, rimane semplicemente un vestito da indossare per nascondere che sei brutto, in confusione dentro, e far credere in giro il contrario. Ho sorriso per la sorpresa, senza comprendere fino in fondo il significato della frase.
Avvicinandomi con l’auto al tabellone però ho scoperto che si riferiva alla pubblicità di un negozio che vende mobili dai tempi del boom economico e GIGINO – banalizzo sul nome dell’azienda per non farne niente di personale – da settant’anni realizza la vostra casa dei sogni, con sotto, in caratteri ancora più grandi e leggibili da una distanza ragguardevole, IL LUSSO DEMOCRATICO ITALIANO è scritto sullo sfondo di un’immagine dove risaltano dei divani e una cucina rispondente alle ultime tendenze del confort. Mi sono riscosso solo quando un vecchietto preso dalla fretta ha suonato bruscamente il clacson della sua auto. “Sei un imbecille!” ho gridato accostando per dargli strada, già in agitazione per l’intera mattinata del venerdì persa al supermercato, affollato all’inverosimile. “Chissà dove credi di andare, con questa fila di auto incollate una all’altra come la catena di Sant’Antonio”. Siamo alla vigilia dei festeggiamenti per il patrono del paese, un grande evento che inizia nel pomeriggio del primo venerdì di settembre e si chiude il martedì della settimana successiva, con il palio delle contrade e i botti dei fuochi d’artificio a colorare il cielo in piena notte, mentre un miliardo di piccioni si mette a svolazzare impaurito sul tetto dei palazzi senza mai andare in una precisa direzione. Negli stessi giorni della festa al parcheggio dello stadio è montato il Luna Park, in alcune piazze del centro storico trovi tanti stand che gareggiano a cucinare il piatto tipico dei sedani saltati nel sugo fatto con la nana, mentre nella piazza principale sono allestite delle tribune in metallo, per assistere alla sfilata dei carri allegorici delle contrade che riproducono avvenimenti accaduti al paese o nei dintorni dal tempo di Dante Alighieri fino ai giorni nostri. E poi c’è la marea dei villeggianti stranieri, anche loro impazziti dietro a questi eventi dove si beve e ci si strippa. Durante la festa del patrono il supermercato è preso d’assedio che sembra Natale. Lo dico senza esagerare, se circoli da quelle parti ti perdi nel traffico come nei periodi annunciati alla Tv con il bollino rosso, quando si parla di partenza o di rientro dalle ferie.
Su quale logica avesse spinto una famiglia che vende mobili da quattro generazioni ad inserire l’aggettivo democratico nel manifesto, ci ho rimuginato anche dopo il rientro a casa. Non mi andava giù, ci sono fiumi di trovate pubblicitarie in giro ovunque, questa però tendeva a sfruttare il concetto di un valore al quale avevo sempre dato un significato esistenziale. Inserita nel contesto commerciale diventa qualcosa di presuntuoso a cui aspirare individualmente. E spregiudicata, invadente, fa tabula rasa del passato e, senza vivere nel presente che in astratto, arriva a rimuovere un problema che ormai ci fa tanta paura, cioè quanto sia faticoso mantenere viva una forma di governo quando si vuotano di significato dei canoni che usiamo come parametro di convivenza. Mentre ascoltavo la tromba di Tomasz Stanko in un cd, per un breve momento ho fissato lo sguardo sul ritratto fatto da un amico. Spartaco… – mi sono rivolto al quadro per parlare a me stesso, – ti sei barcamenato la vita nel lusso democratico italiano? Nel quadro non c’è niente che faccia pensare al lusso, però si intuisce chiaramente che il volto racconta un conflitto, ho i capelli lunghi, colore del grano maturo, e andando in ogni direzione creano in testa una confusione di linee che quanto a rabbia sfiorano l’astrazione, mentre, per contrasto, la pelle sulla fronte si articola in cinque pieghe ondulate che fanno pensare a un’espressione calma, riflessiva. È come mi vedeva Stefano, in un ritratto fatto tanti anni fa. Lui detestava il paese e le sue abitudini, al punto che quando si iscrisse all’Accademia delle Belle Arti di Brera sparì di circolazione per degli anni. Sparito letteralmente voglio dire, né una telefonata, né una lettera, una cartolina. Fino a quando un giorno è riapparso per scattare alcune foto da utilizzare per dipingere dei ritratti ad olio di noi amici del paese. Prima di andare a Milano avevamo parlato molto di musica e di arte, spesso seduti sul gradino della banca, mentre nella piazza si consumava lo “struscio” giovanile della nostra generazione. Il contrasto tra noi e loro, tra andare o restare, era evidente, e lo rintracciavo tutto espresso nel quadro dove coglievo i tratti caratteriali di un individuo che viveva nella conflittualità e non sapeva decidersi a scegliere. Lui aveva sentito il bisogno di tornare dopo degli anni, per fissare in alcuni quadri i volti degli amici con i quali era cresciuto, mentre per quanto mi riguarda, anche se detestavo il paese quanto e forse più di lui, ho resistito a quell’antico desiderio di fuga con il bisogno di inventarmi una nuova vita con la scrittura. Un conflitto non visibile ma reale, che si riaffaccia mimetizzato in mille situazioni nuove che contrastano vecchie certezze, e con il quale forse convivrò fino alla morte.
agosto 2022
…un bel racconto sulla quotidiana follia che raggiunge Spartaco, come chiunque oggi viva indifferentemente nelle grandi città e in località piu’ periferiche…La propaganda ci raggiunge e manovra le scelte individuali e collettive della società, ma ne è anche lo specchio. Cosi’ la parola DEMOCRATICO viene svuotata del suo significato originario per entrare nel calderone dei consumi e significare semplcemente: alla portata delle tasche di tutti. Il LUSSO, come aspirazione globale di ricchi, poveri, disoccupati, precari…Cosi’ anche azzerata ogni aspirazione alla giustizia sociale, ogni consapevolezza di classe sociale…Finalmente tutti insieme amorevolmente, in nome del lusso…
D’altra parte, lo slogan “Il lusso democratico italiano”, risulta comunque una pensata periferica, se si pensa che diversi marchi delle multinazinali della moda o della catena alimentare, lanciano messaggi ancor piu’ piu’ cinici e mistificanti, parlando di rivoluzione sociale, di emarginazione…Grazie
Grazie Annamaria,
dietro a questo slogan c’è il segnale che tendenzialmente nella nostra società aspiriamo alla semplificazione, a rimuovere il significato originario delle cose e anche delle parole, perché no, finendo per ricondurre i conflitti non risolti ad un livellamento che banalmente si appiattisce sull’astrazione del presente. I conflitti sono qualcosa di serio o di tragico anche senza parlare della guerra, alcuni dei miei per esempio li sto ancora combattendo.
Se a pubblicizzare un Hotel del Lido “L’ultima spiaggia” di Capalbio fosse stato messo in cartellone questo buffet imbandito (che non riesco a copiare ma che presenta tutte le leccornie possibili e immaginabili, aragoste, caviale et similia) accompagnandolo alla dicitura “Il lusso democratico italiano”, ciò che sarebbe stato colto in primis non sarebbe stato l’aspetto antifrastico della locuzione bensì la provocazione contro una sinistra che predica bene e razzola male, che vuole l’accoglienza dei migranti ma a Capalbio no perché turberebbe l’economia turistica di questa ‘piccola Atene’ di intellò.
Io credo che a queste risposte viscerali manchi la consapevolezza della differenza che intercorre tra ‘ricchezza’ e ‘lusso’, ragion per cui, ciecamente, ci si lancia contro la ricchezza come se fosse frutto del demonio e non anche di un lavoro. Mentre il nodo dovrebbe articolarsi intorno al concetto di ‘lusso’ che implica la esibizione di qualche cosa (in questo caso la ricchezza, ma ci può essere anche il ‘lusso’ di ‘esibire’ la povertà – gli esempi non mancano) al fine di esercitare un potere e ottenere un consenso o comunque delle attenzioni previlegiate. Ed è per questa ‘ostentazione prevaricante’ che il lusso ha poco a che vedere con la democrazia. Perchè introduce subdolamente questa specie di potere condizionante.
Riflessione opportuna direi
… e anche se non ha potuto copiare la foto del buffet imbandito di Capalbio, riesco ad immaginarla.
grazie
Caro Angelo, forse non è né la parola “lusso” né la parola “democratico” che disturba, né l’una e l’altra insieme. Forse, è proprio la parola “italiano” che, messa dopo le prime due, disturba tanto. Qui da noi, il lusso è spesso prepotenza e sfacciataggine. Qui da noi, la democrazia è sempre più potere di masse allo sbando. Beninteso: da noi e in tanti altri paesi di questo mondo. Ma il mal comune a me non dà nessun gaudio. Si salva Gigino, che vuole, almeno lui, il lusso per tutti. E si salva senza dubbio il tuo racconto-riflessione, che unisce, come sai fare tu, provincia e mondo, ricordo e previsione, intimità e sociologia.
Grazie Daniele,
… di sicuro non si salva Spartaco, perché coglie gli aspetti di una crisi da dettagli del quotidiano invisibili ai più.