Rileggendo «Questioni di frontiera» (1977) di Fortini. Appunti.
di Ennio Abate
Fortini critica il concetto di proletariato di Pasolini, degli operaisti, del PCI in nome di un proletariato terzomondista, che l’intellettuale può/deve pensare da esterno.
È sbagliato mettersi in rapporto con Fortini assumendo il ruolo di figlio. (O peggio: di ex sessantottino “figliol prodigo”).
Perché – se non per un abbassamento di tensione politica – dovrebbe toccarmi nel vivo la sua critica all’avanguardia e all’operaismo? Solo per aver militato in Avanguardia Operaia? Fortini colpisce dei suoi prossimi non me-noi.
Differenze fra me e Fortini: sociali, generazionali, professionali, politiche.
Cosa significa per me ripercorrere il campo dei suoi interessi politici e culturali?
Il suo impegno politico resta impegno del letterato. La critica della politica è fatta da quella collocazione. Il punto di vista “proletario” è altra cosa.
Non posso leggere la mia esperienza collocandomi dal punto di vista di Fortini (o di Negri o di PDG): negli anni Settanta io ero “nel ventre” di Cologno e di Avanguardia Operaia. Fuori dalla ribalta milanese e nazionale. Con possibilità di ascolto ma non di intervento sulle questioni da lui trattate. Specie a quel livello. Che rapporto può avere un insegnante in un biennio ITIS [ero allora al Molinari di Milano] con un letterato che ha accesso alle case editrici e all’università; e si muove per l’ Italia e l’Europa? Questa distanza va tenuta in debito conto.
Fortini è uno dei possibili specchi in cui vedere come si rifrange il pezzo di storia da me-noi vissuto. Non un padre, dunque. Ma l’intellettuale letterato, che ha vissuto vicende coeve ma anche altre avvenute prima che io nascessi; e ne ha dato un rendiconto con una strumentazione culturale che io non ho né posso avere. (Né avrò più molto tempo per dialogare con lui e quelli a lui più prossimi).
Non posso “estrarre” Fortini dalla letteratura come istituzione. Né rapportarmi a lui dall’interno della letteratura o della politica (intese sempre come istituzioni). Non esiste uno spazio o tempo mio-nostro alternativo a quelli suoi, a cui “richiamarlo”. Né c’è una possibilità o un desiderio reale da parte mia di farmi cooptare in quelle istituzioni. E allora da dove nasce la mia attenzione e la mia simpatia verso i messaggi in bottiglia che da lui mi pervengono e che io cerco? Dall’occuparmi di letteratura seguendo i suoi passi e i suoi percorsi tra certi autori (immaginariamente: “così avrei detto e fatto io se fossi stato li al suo posto”). Dall’essere stati sconfitti nel nostro tentativo di essere “rivoluzionari” e ritrovare le ragioni di questa sconfitta nei suoi (per me dignitosi) “l’avevo detto”.
Cosa è Ennio senza le sue letture? Io non sono le mie letture.
«Anche senza riaprire più le pagine [della Recherche]… E anche senza compitare il suo alfabeto di salvezza che – come tutte le sirene – può incontrando ingannare, ci è dato imprendere la nostra ricerca» (pag. 296).
Fortini mi serve a prendere le distanze dal “marxismo volgare” (e da PDG o Negri), Ma c’è una zona oscura che devo affrontare da solo.
Fortini evita la fretta (o la falsa coscienza) delle avanguardie letterarie: posizione del tutto rispettabile e più utile (a volte mi pare così…) a noi in basso…
Definirmi intellettuale di massa mi aiuta ad evitare i vicoli dell’operaismo e mi dispone rispetto a Fortini in una posizione dialettica. La distanza fra me-noi e lui non è soltanto generazionale, ma di qualità e di quantità (di esperienza). ll suo modo di vivere le «questioni di frontiera» è una posizione più valida di quella di chi suggerisce la negazione della funzione intellettuale. Definirci “proletari” solo perché siamo stati “proletarizzati”(=viviamo in mezzo agli immigrati) significherebbe pretendere di far parte di una condizione sociale e di una cultura popolare che solo in parte minima è stata presente nel mio passato (di meridionale). Per il resto sono stato dentro la tradizione culturale della intellettualità piccolo borghese…
L’utilità di Fortini sta nel lavorio di autochiarificazione che ti impone. Rileggere, rileggere. Non affrettarti a imitare. Nemmeno serve introdurre in modi poco elaborati quelle sue questioni nei piccoli spazi di pratica oggi a me concessi.
Visto che di letteratura comunque un po’ ci occupiamo (fosse pure soltanto come lettori), Fortini dà una bussola precisa. Il suo è un punto di vista critico più vicino alla nostra concezione del mondo…
Ancora su «Questioni di frontiera». Prefazione. È fortemente selettivo: « non più di due o tre sono qui gli argomenti veri» (pag. V). Condizionato dall’attualità. «Questioni di frontiera» si riallaccia a «Verifica dei poteri» del 1965; ed è un libro segnato dal «disfacimento del movimento di nuova sinistra» (pag. VI). Può essere una testimonianza. Suddiviso in due parti il libro si incentra su tre tematiche: situazioni estreme, 1968, scrittura. Fortini ama i paradossi amari: «un argomento… tanto grave che se ne può parlare solo con leggerezza» (pag. VII). L’atteggiamento verso la moda o il volgare è di attento ascolto e di traduzione (in “latino”). Fortini è consapevole che «è con il presente repertorio di scorie che la gente dice a se stessa le cose ultime», ma non accetta «un linguaggio unico», perché «ogni linguaggio è doppio»(pag. VIII). Bisogna «capire perché e come il volgare» e « il latino» [oggi: la cultura di massa e quella d’élite] possano convertirsi l’uno nell’altro (VIII). Viene sfatato sia l’aristocraticismo che il populismo. L’atteggiamento di Fortini è maoista: «Queste pagine vogliono essere ambigue. “Una situazione con una sola faccia non esiste. Il presente ha le sue due facce” (Mao, 1965)».