Claudia Mazzilli, Controcanto in Verdargento, Ortica editrice 2022
di Pierpaolo Riganti
Controcanto in Verdargento (Ortica editrice, luglio 2022, pp. 233) di Claudia Mazzilli sorprende per la sua struttura ibrida tra romanzo e racconto.
Tre le sottotrame: una regista teatrale (Caterina) alle prese con l’allestimento della Giovanna dei Macelli di Brecht, da rappresentare al Piccolo Teatro di Milano; una studiosa di Virginia Woolf (Valeria) a un punto di svolta della sua vita professionale e sentimentale; una terza protagonista meno intellettualmente sofisticata (Anna Francesca), dedita a mansioni di cura: la maternità vicaria nei confronti di un ragazzino del suo quartiere, il volontariato ambientalista, l’assistenza a Immacolata, un’anziana morente che a poco a poco assume un ruolo unificante e prevalente nella struttura dell’opera, sia a livello narrativo sia a livello simbolico. Tre donne che hanno in comune la reciproca e salda amicizia, l’essere originarie di una cittadina pugliese immaginaria (Verdargento: un nome che un po’ alla volta svela la sua funzione metanarrativa) e l’affetto per la su citata Immacolata: tutte e tre si incontreranno per darle l’estremo saluto e partecipare al suo funerale.
Come su un palcoscenico, ciascuna protagonista è “illuminata” dalla voce narrante, che ora ha un’intonazione satirica, asciutta e veloce, ora ha il ritmo lento del discorso indiretto libero (in terza persona) o del monologo interiore (in prima persona), ora tocca punte liriche in un’originale prosa ritmica, ora assume i toni del racconto collettivo e della leggenda popolare: di ognuna delle giovani donne affiorano così i sentimenti, le contraddizioni, il consumarsi dei sogni nella routine del quotidiano, in un momento storico che è ben preciso, tra 2016 e 2018, a pochi mesi dalle elezioni che portarono al voto plebiscitario ai Cinque Stelle e in un quadro politico internazionale segnato dal trumpismo e dalla crisi missilistica coreana. Se tutto questo è solo la cornice che dà verosimiglianza al vissuto delle protagoniste, non è però senza significato. Non è un semplice sfondo.
Affiorano solidi legami tra il “personale” e “il politico”: nel primo capitolo, mentre Caterina prepara l’allestimento della Giovanna dei Macelli di Brecht, discute dell’attualità di quell’opera con Adriano (docente universitario, che fatica a dichiarare la propria omosessualità) e con Sandro (operaio disoccupato e nostalgico di una Sinistra che non c’è più, scrittore dalla vena inaridita, pure lui in piena paralisi esistenziale). Le discussioni sono guidate da categorie sociopolitiche di cui i personaggi avvertono l’inadeguatezza, in intuizioni che si fanno strada a poco a poco.
Dialoga dunque con il presente la vicenda della Giovanna dei Macelli di Brecht: Giovanna Dark durante la Grande Depressione porta la parola di Dio ai licenziati delle fabbriche di carne in scatola e, quando scopre che l’ordine dei Cappelli Neri a cui appartiene è colluso col potere, si avvicina alle dottrine dei bolscevichi ma, rifiutandosi di usare la violenza, morirà di stenti e sarà opportunisticamente santificata proprio dall’ordine dei Cappelli Neri, che aveva abbandonato. La solitudine della protagonista dell’opera di Brecht di fronte alla crisi di tutte le ideologie mostra la sua flagrante attualità ed è variamente interpretata da Caterina, da Adriano e da Sandro, in base al loro posizionamento, all’intersezione tra status socio-economico, convinzioni politiche, titoli di studio, esperienze e traumi legati al genere e all’orientamento sessuale (p. 56):
Ecco, aveva detto Adriano complimentandosi con Caterina, è proprio così: infatti non appena Giovanna dei Macelli abbandona la missione dei Cappelli Neri e compare sulla scena senza uniforme nera, con quel vestito che è solo suo, cosa dice? Dice Ora che non ho più quell’estenuante lavoro della missione, posso occuparmi di più delle singole persone. Ma quando muore, tutte le bandiere coprono il corpo di Giovanna. Lo rimuovono definitivamente: le bandiere degli stati nazionali, dell’Europa, dei sindacati e dei movimenti di lotta, gli stendardi religiosi sopprimono la sua persona in nome di qualcos’altro… Giovanna è destinata a essere sconfitta.
Sandro invece si era appellato alla lotta di classe e aveva obiettato che Giovanna non ce la fa non per mancanza di doti individuali, non per carenza di determinazione ma per ragioni di classe, perché non è nata abbastanza povera, e aveva citato un altro passo del testo, lì dove Giovanna dice: Non sono dei loro. Se, quand’ero bambina, il tallone della miseria e la violenza della fame mi avessero istruita, sarei dei loro, e non chiederei nulla. Ma così, no; me ne debbo andare.
Ma facendosi improvvisamente serio come un profeta Adriano aveva aggiunto: Tutte le ideologie rimuovono il corpo. Ai tempi di Brecht l’identità te la dava il Muro. L’identità e la personalità erano definite mediante le immagini dell’amico e del nemico. Eppure sia a Est sia a Ovest il corpo era inteso solo come macchina: a Est era macchina uguale alle altre macchine, in una società equo-distributiva che ragionava per razioni, scomparti, sportelli tutti uguali. Il corpo occidentale era anch’esso macchina, ma al servizio della velocità, dell’affermazione individuale, della meritocrazia, della competizione apparecchiata al banco dei pegni e delle merci. E il corpo, a Est e a Ovest, è sempre stato l’unica vittima, l’unica cosa che esiste e dentro cui si resta soli.
Se Adriano, borghese agiato, attraverso il corpo di Giovanna dei Macelli allude al dramma della propria omosessualità non ancora portata allo scoperto, invece Sandro, proletario e disoccupato, si attarda in un’indagine strettamente marxista del significato dell’opera di Brecht, mentre la regista, Caterina, inconsciamente proietta in Giovanna la propria vocazione alla cura delle singole persone, un’inclinazione spontanea all’immedesimazione che non ha nulla di teorico e di ideologico.
Controcanto in Verdargento è dunque ricco di digressioni che ne fanno un romanzo-saggio e che danno ragione del titolo (una rilettura dei classici implicati nell’opera), ma nello stesso tempo sono proprio queste digressioni, che non hanno nulla di accademico, a svelare meglio l’interiorità dei protagonisti, a volte anche con esiti esilaranti, come nel secondo capitolo, in cui la protagonista è Valeria, una studiosa di Virginia Woolf che vive tra il paese natale e l’Inghilterra, dove troverà finalmente una collocazione professionale stabile. Femminista convinta, Valeria riflette sulla contrapposizione maschile-femminile, si divide tra due amanti assai diversi tra loro (un parrucchiere senza cultura e un commercialista), che giudica inadeguati alla sua idea di emancipazione, parla e ragiona con pensieri-citazioni tratti dalle opere della sua amata scrittrice, a volte deformandoli fino alla caricatura, perché spesso Valeria finisce vittima di sé stessa, intrappolata nella gabbia dei suoi schemi.
La distanza critica tra Claudia Mazzilli, nella sua funzione di autrice, e la protagonista del capitolo, Valeria, riesce con un suggestivo equilibrismo a salvaguardare il valore dell’opera di Virginia Woolf, che risulta continuamente omaggiata e che sembra essere il vero ipotesto di tutto il suo Controcanto: più che nelle citazioni esplicite, lì dove il flusso di coscienza o l’effetto musicale da prosa d’arte – tipico dei corsivi di Al Faro e Le onde – sono adoperati nel romanzo. La deformazione satirica, quindi, non è rivolta a Virginia Woolf (vera e propria “antenata letteraria” della scrittura della Mazzilli) ma al personaggio di Valeria, che ora confonde la libertà sessuale con la promiscuità sessuale, ora assume una postura sclerotizzata, del tutto equivalente a quella del donnaiolo che insegue e da cui è inseguita (quella della competizione o della dissimulazione dei propri sentimenti), ora raffredda gli slanci erotici con ragionamenti troppo cervellotici e derive anaffettive. Una personaggia, Valeria, che rasenta la macchietta e la caricatura rispetto alle altre intense protagoniste del romanzo, ma che si riscatta nella coerenza con cui persegue il proprio progetto di vita di donna dedita agli studi , ma soprattutto nell’illuminazione finale, che la rende consapevole dei limiti della propria emancipazione: il non aver mai saputo fino in fondo abbandonarsi alla spontaneità e alla naturalezza della passione.
Restano la serietà e l’urgenza delle domande mutuate dall’opera di Virginia Woolf (le citazioni sono meticolosamente riportate nelle Note in appendice al romanzo), che Valeria rumina e rimugina in continuazione, anche quando sonnecchia o è ubriaca (pp. 102-103):
Il vino continua a irrigare pensieri felici, di esultanza definitiva, mentre una voce le sussurra nell’orecchio i soliti quesiti: perché gli uomini bevevano vino e le donne acqua? Perché un sesso era tanto prospero e l’altro tanto povero? Qual è l’effetto della povertà sulla narrativa? Nelle bollicine alcoliche ora c’è la Torre Eiffel, il Duomo di Milano, il Big Ben, vede i bacilli del colera grossi come pidocchi nei gusci delle cozze, vede i titoli e le copertine di tutti i libri letti per la sua ricerca, pezzi di frasi che vanno su e giù, e le sue cose si dilatano e si restringono ed esplodono nel nulla. Perché un genio come quello di Shakespeare non nasce tra gente ignorante, asservita, costretta a fare lavori pesanti?… Eppure una qualche specie di genio deve essere esistito tra le donne, così come deve essere esistito nel proletariato. Se Giacomo non guidasse così volentieri ogni tanto potrebbero prendere un taxi e loro se ne starebbero dietro, trasportati dalla corrente. Non riesce a smettere di ridere: nel cervello dell’uomo guida il taxi l’uomo, nel cervello della donna guida il taxi la donna, ma la mente grande, la mente superiore, è androgina, è risonante e porosa, trasmette emozione senza difficoltà, non pensa al sesso come una cosa a sé stante. Vivere una vita libera a Londra, nel Cinquecento, avrebbe significato per una donna che fosse poetessa e drammaturga, un logorio nervoso ed un dilemma che avrebbero certo potuto ucciderla… è il retaggio della nostra barbarie sessuale…
La relazione uomo-donna nel romanzo resta quasi sempre acerba o contorta, carente di sincerità e fiducioso abbandono all’altro, oppure sfocia nella violenza. Questo stato di cose non comporta alcuna denuncia né deflagra in un sentimento rabbioso. È un dato ineliminabile, nulla più.
Eppure uno spiraglio di speranza sembra affidato a quei personaggi che arruffano in sé maschile e femminile e hanno caratteristiche androgine, lasciando intravedere (nella natura e auspicabilmente nella società e nella cultura) un mondo possibile, libero da stereotipi di genere. Se nel primo capitolo Adriano (in bilico tra il rimuovere e l’ammettere la propria omosessualità) è ancora un personaggio sfuggente, inetto, contraddittorio, ben altro è invece il ritmo dell’ultimo capitolo, che arretra in un mondo apparentemente primitivo e chiuso (la Puglia contadina del Novecento, tra le due guerre mondiali), magico e superstizioso, ma che cela in sé una turbolenza liberatoria, dionisiaca e menadica. Questa è la storia di Immacolata, chiave di volta, tronco e radice dell’intero romanzo, fiaba e parabola laica che lo illumina di nuovi significati, con un imprevedibile capovolgimento, segnalato anche dalla lieve patina dialettale della lingua: qui (e solo qui) scopriamo che Immacolata, l’anziana morente, era nata e vissuta con la deformità di una terza gamba. Cresciuta analfabeta, considerata una bestia o una creatura del diavolo, né maschio né femmina (per la deformità dei suoi genitali? per l’attrazione nei confronti di Doina, la prostituta del paese? …tutto resta nel mistero di un racconto corale, intriso di superstizione e pettegolezzo…), vicina non solo all’Orlando di Virginia Woolf ma anche all’androgino descritto da Platone nel Simposio per la sua capacità di fare capriole in una girandola di troppe gambe o troppe braccia, Immacolata imparerà quasi per miracolo a leggere e scrivere, portando sempre con sé i libri più amati, che consegnerà nelle mani di Valeria, di Anna Francesca, di Caterina: le sue figlie simboliche, una discendenza affidata non ai legami di sangue ma ai libri amati e condivisi, tra cui, inutile dirlo, ci saranno proprio quelli continuamente implicati nei primi capitoli: Brecht, Virginia Woolf… Opere che creano un canone contro-egemonico, in cui il potere liberatorio ed emancipante della letteratura si esprime al massimo grado.
E allora indoviniamo quale sia la vera deformità e la vera forza di Immacolata: la sua terza gamba è l’essersi conquistata, leggendo e studiando, la facoltà dell’immaginazione, il potere della critica all’esistente, contro l’ovvia ratifica delle gerarchie socio-politiche e familiari e dei rigidi incasellamenti di genere. Immacolata è una madonna laica, una vergine pagana, l’icona del potere salvifico della letteratura nella vita delle donne. Come nelle altre figure femminili del romanzo, in lei c’è il destino di tutte le donne che snaturano la propria identità mammifera per qualcos’altro. Eppure, nella peripezia di questa “fiaba pedagogica”, il finale riesce a sorprendere: non è edulcorato da facili acquietamenti e offre l’ennesimo cortocircuito.