Appunti durante la stesura di “A VOCAZZIONE” (1)

di Ennio Abate

Sono appunti di lavoro. In alcuni passi forse un po’ criptici, ma documentano la fatica di una scrittura (della mia scrittura). [E. A.]

 29 agosto 2017

Non devo rendere assoluto il punto di vista del ragazzo sconfitto nella sua ambizione di farsi prete, di aver accesso alla élite di allora. Anche l’analogia che hai  ipotizzato tra esperienza nell’ A. C. anni 40’-‘50 e esperienza negli anni ‘70  in AO   va valutata con attenzione.

C’è l’attrito tra tempi diversi, consapevolezze diverse, contesti diversi. [Come nel pezzo sul  sogno del passaggio a livello …]. Attento alla soluzione nichilista!

«la scrittura equivale per Beckett a una necessaria procedura di espurgazione del corpo, che consiste nell’infliggere ai lettori le secrezioni – sanguigne, spermatiche, o più spesso escrementizie – del “marasma mentale” in cui l’io “suda e barcolla”. E tuttavia questa produzione, che sembra precipitare nel fallimento ancor prima di avere inizio, reclama per sé spazi e diritti alla stessa stregua della defecazione e di altri atti fisiologici”

Ritrovo questi appunti del 3 agosto ’93:

ESPLORAZIONI SESSUALI

assatanamento [?] sessuale nel periodo dell’adolescenza – creazione di una “leggenda” sulla base dello scarto [della “corrente d’aria” creatasi dallo scontro fra] una forte repressione ambientale [silenzio etc.] e le rivelazioni da alcune occasionali  letture fatte tardi [Law­rence]. Perché in quell’ambiente cattolico erano proibite [Boccaccio] – trasferimento delle fantasie su persone reali dell’ambiente familiare, parentale,  di qualche coppia di vicini – figure materne soprattutto – qui si dirigeva la fantasia- gli invaghimenti più emozionali erano per le coetanee inaccostabili (e un po’per i coetanei più amici: M., F.]-

L’esistenza di una forte repressività sul corpo tipica dell’ambiente e dell’educazione cattolica in generale. Quanto è leggenda? – ha ragione Foucault: quanti interstizi, slarghi, occasioni c’erano nel pur  compatto tessuto repressivo [ della famiglia, della parrocchia, della strada].

una cosa, però, era spiare, godere in fretta, di nascosto e ansiosamente di qualcosa di erotico soltanto alluso (dai racconti di adulti smagati e reticenti)- altra nominare quello che si  vedeva, provava-  o esplorare con calma, toccare i corpi in pace e con corrispondenza da parte dell’altro/a. Questa seconda  dimensione dell’esperienza di sicuro non fu possibile.

Ed era sulla costrizione alla prima esperienza che si costruivano le sublimazioni o le idealizzazioni sessuali  

Certi episodi, distanziati nel tempo e con alle spalle esperienze più distese, fanno solo ridere o suscitano sconcerto perché tuttora appaiono “crudi” –  e “crude” dovrebbero essere le parole con cui possono essere raccontati oggi? – dipende dalla mentalità di chi li ripensa e di chi li  ascolta. Ma la sessualità [=naturalità] ha una sua intrinseca crudezza che può essere solo fino ad un certo punto formalizzata e culturalizzata [?]

Altra riflessione: l’enfasi delirante dovuta alla repressione- distorsione del desiderio che sorge in presenza dei corpi [o in loro assenza, o per la loro perdita..]. Questa è forse l’esperienza che più si ripete

L’ideale della “purezza”, che sistematicamente veniva proposto, era la legge di quei tempi e di quel mondo in cui crescevo. Operava con intensità. A volte più, a volte meno. A seconda anche dell’intensità del desiderio. L’effetto non fu trascurabile. Facile dissentire o contestare una legge che si sente esterna o ormai non più sentita. In quegli anni quella, invece,  fu la “mia” legge. E il passaggio ad un diverso godimento – meno “pervertito”, “nevrotico” secondo i termini di un’altra cultura in cui poi mi sono immesso (oppure ad una proporzione diversa del rapporto fra piacere e realtà) è stato faticoso .

Alla legge d’allora [del mondo cattolico ma  in concreto di quello spicchio di mondo cattolico salernitano] mi sono sottratto riconoscendo  autorità ad un’altra legge (“laica”, “illuminista”, “freudiana”…), che dà un più ampio o diverso riconoscimento al corpo e alle fantasie, che i rapporti – reali o possibili – fra corpi scatenano..

Cosa mi attirava a casa di zia Assuntina? O in parrocchia a S. Domenico? O fra i ragazzetti di via Sichelgaita? O mi turbava nell’attraversamento dei vicoli? O mi spingeva a lunghe camminate da solo in quartieri ancora sconosciuti?C’era un rapporto sensuale con questi mondi.

E ci fu nell’adolescenza [a Salerno e nel suo prolungamento a Milano..] la smania di provarsi un in rapporto soprattutto sessuale con una donna (qualsiasi donna ?) – e ci furono – per una serie di difficoltà esterne e interne [dovute al modo come avevo “sistemato” nella fase precedente di A. C. le mie pulsioni corporee – “farmi prete” era la forma drastica di educazione-repressione che avevo accolto] – dolorosi conflitti e approcci reali impacciati, intimiditi.

I conflitti ruotarono dapprima sulla questione della veridicità e consistenza della “vocazione”. Qui ero nella trappola dei discorsi di mia madre e della parrocchia – se fosse possibile, dovrei riesplorare tutte le confessioni rese alla signorina Dag e ai vari preti-confessori ( tra l’altro a quel “direttore spirituale” del Duomo che mi parlava di Kant e del dover essere, a F., a A.: una rete in cui ero [eravamo] assorbito totalmente – letteralmente: io “sentivo” qualcosa ed assorbivo da loro. E viceversa? Il problema della “vocazione” ce l’avevano anche altri tra i miei coetanei della parrocchia [quelli considerati i “migliori”!]

Non ricordo cosa dicevo e cosa mi dicevano. (Possibile ricostruire?). Ma certa fu la mia voglia di farmi apprezzare, di imitare [l’amico F. in particolare], di cercare con insistenza la vicinanza anche fisica e quotidiana con  quei pochi amici. E la tentazione di farmi aiutare da  F. anche nelle difficoltà scolastiche che avevo in matematica. Come fu certo il mio zelo nel difendere le loro immagini dalle maldicenze di coetanei più esterni a quel mondo parrocchiale, anche se venivano a messa. Come la mia tenacia nell’ottundermi certe curiosità sui “misteri della vita” [nascita e sesso soprattutto]. O l’adesione esaltata e forse persino arrogante alla legge della purezza di quei pochi che prendevano sul serio l’A. C. e che  risultava  eccessiva o ridicola dall’esterno. Solo più tardi ho potuto togliermela di dosso e vedere con ironia i tic  di gruppo di quanti hanno continuato a  praticarla.

Ripenso alla continuità di certi rituali quotidiani di autocertificazione collettiva di parrocchia: tutte le mattine la messa o servir messa, confessioni quasi quotidiane, comunione quotidiana, meditazione quotidiana, ingresso e preghiera in ogni chiesa che s’incontrava per strada, da bambini bacio del dorso della mano a un monsignore che incrociavamo con  mia madre  sulla strada che portava  in parrocchia. Se li ripenso con gli occhi di chi, anche non laico ma semplicemente meno invasato o dentro quel nostro stare insieme come “gruppo parrocchiale eletto”, [la bella ragazza figlia del fruttivendolo di Porta Rotese, il poliziotto di guardia alla garitta della caserma vicino S. Domenico, la madre del paralitico che aveva il negozio di carbonella..], ci vedeva passare e ripassare alle stesse ore, chiamarci dai cortili interni dei portoni per andare alla messa di domenica, fermarci  a ridere fra noi o a  discutere  confusamente e animatamente di problemi da catechismo davanti allo stesso portone della signorina Dag, devo riconoscere che il collettivo ha una tremenda forza d’intimidazione e di fascino  sul singolo. E a pensare che era sostenuto da un apparato ideologico, politico, economico che allora  non ero assolutamente in grado di cogliere, stupisco della mia ignoranza.

E, quando – tardi, a Milano, e soprattutto nel ’68-’69 – l’ho colto e ho fatto il mio periodo di politica militante – ho  ritrovato qualcosa di quei legami affettivi, corporei, inconsci  che  avevo vissuto così intensamente  in quella “comunità parrocchiale”.

Quella vita parrocchiale rispose ad alcune mie esigenze profonde di ragazzo e mise in moto mie energie. Mi modellò in una direzione e col mio consenso, sia pur di ragazzo. Altre diverse forme di vita [quelle dei miei cugini a Baronissi, che comunque pur rientravano sotto l’influenza cattolica, anche se il loro legame con il mondo contadino, li preservava da certi spiritualismi a cui noi in città venivamo educati….] furono perse o ridimensionate [a Barunisse ci andavo  d’estate, avevo da studiare…]. Altre ancora [quelle dei ragazzi scalzi di Porta Rotese o dei figli dei pescatori dei vicoli] mi affascinavano su un piano sensuale, ma erano – per me, così incastrato in quel mondo scolastico e parrocchiale – cariche di minaccia e quindi  irraggiungibili o respingenti.  Tanto erano separate e conflittuali coi modi di vita della fascia popolare-piccolo borghese dei frequentatori delle iniziative della  parrocchia [alle quali mia madre, non ostacolata da mio padre, volentieri mi aveva iscritto per limitare i miei rapporti – per lei pericolosi –  coi ragazzi di strada di via Sichel­gaita. Penso che una spinta alla spiritualità incubasse nel rapporto  privilegiato e preoccupato di mia madre con me, da bambino malaticcio e sempre bisognoso di cure anche mediche. E che questa spiritalizzazione fosse  incominciata con il vuoto-amputazione della sensualità avvenuto con il trasferimento dal paese in città e  con gli inizi sconnessi e frantumati della mia carriera scolastica. Una riorganizzazione della sensualità infantile s’impose nel passaggio  a Salerno: non più la vita “in tribù” di Casalbarone di Baronissi [diverse famiglie imparentate e un vicinato simbiotico..] ma la vita  di famiglie mononucleari [più o meno numerose] dai confini e dalle abitudini abbastanza diversificati; non più il paesaggio campagnolo [ odori, animali, suoni] in uno spazio casa/terra o esterno/interno fluido] ma quello urbano (sconosciuto e temuto da mia madre soprattutto) e dentro appartamenti  con  netta separazione interno /esterno (la strada dove io volevo correre  a giocare coi ragazzi e  che i miei genitori mi proibivano); non più il  calore matriarcale, dovuto alla prevalenza di nonne, zie, cugine.

3o luglio  2019

– vedi che ci fu anche un omicidio ( l’uccisione di una cameriera da parte di un suo  amante nel palazzo dei Laurenzi) in quel tuo “presepe di via Sichelgaita”…  Non darne un’evocazione troppo ingenua e infantile..

– le stesse persone che ricordi non erano tutti “pastorelli”… e non stavano lì per farsi contemplare da te (alcuni ti menarono…), altre restarono diffidenti o ostili ( o zelluso, a marfitana..).. non stavano attorno a te ad ammirare o ad adorare la nascita della tua vocazzione

– studiarsi la mappa di Via Sichelgaita d’allora.

– tener presenti  i vari punti da cui hai guardato quella via (dal tuo balcone,  salendo, scendendo…)

– e se non avessi seguito la vocazzione, che avresti fatto? Quale Sa avresti scoperto? ( quella più rimossa?)

1 agosto 2019
A Vocazzione

Il titolo va bene, se non la riduci  alla vocazione religiosa e cattolica (al farsi prete), ma farai emergere il richiamo che hanno le persone fisiche. O il richiamo delle cose anche ideali o immaginarie che ci appassionano, ci prendono, ci seducono. E il complesso processo che ne segue.

Inizi di aprile 2020

Appendici (pensieri di dopo). più che appendici il grosso della Vocazzione è qui ed è in italiano! il dialetto potrebbe fare da contestazione all’italiano, alla scelta fatta [di italianizzarsi]? una sorta di reazione?

Vulisse avrebbe più disinvoltura anche a parlare dell’umiliazione, a non lamentarsene

se metti in prima persona, meno liberta espressiva. Se, invece, decidi di far parlare Vulisse che da questo mondo si stacca è più antinostalgia..

titolo possibile: a vocazzione e vulisse? o far nascere vulisse mano mano partendo dall’io…?

se parli come io, vai verso un romanzo di memoria familiare.
idea di più narratori: o l’io o alcune figure/voci popolari (la suicida, la passante, la parente) che è il punto di vista interno a quel mondo scomparso. ma la sfida è parlare dall’oggi di quel mondo scomparso… mostrarne la miseria e allo stesso tempo la mitologia

ricordo: altra vergogna per le scarpette di ginnastica troppo lunghe..

[sviluppare il tema del rapporto sempre più distaccato con Eggidie facendo  parlare lui e  raccogliendo…]

non c’è niente di male anche se mettessi tutto in prima persona. Sarebbe come se parlasse il ragazzo di allora. (come se…perché il ragazzo d’allora non parlava come parla il narratore d’oggi, non aveva questa attenzione  da narratore o da rammentatore (e rammendatore… dei buchi della memoria). non aveva questa memoria. o il tipo di memoria che ha adesso da vecchio  il narratore…eppure le cose che stai scrivendo le puoi scrivere perché certe tracce di quello che allora ci fu le hai trattenute proprio tu nella memoria. sono “tornate in mente” in vari momenti della tua vita successiva proprio e soltanto a te… o le hai cominciate a registrarle in appunti o a scriverle  proprio tu negli anni successivi a quelli in cui accaddero

cosa rivendicavo da ragazzo? e da chi potevo rivendicarlo? non dalla mamma, non dai preti, non dalle monache a cui fui consegnato…

forse questi cortocircuiti con l’oggi vanno evitati

non devi giustificarti agli occhi dei lettori laici o benestanti d’oggi o politicamente avanzati.  devi scrivere quello che vivesti il più direttamente e  onestamente possibile

i passi, i frammenti l’ordine cronologico preciso di questi ricordi  sarebbe fondamentale per cogliere un processo? una crescita della conoscenza per gradi? O  è soltanto una mia esigenza d’ordine?…

15 aprile 2020
Dopo email di Casati.

Sì, quel contenuto vuole il dialetto. È quello il suo linguaggio.  È una scelta di un dialetto poetico, mio, che costruisco mentre scrivo. Poi si vedrà il problema della traduzione. Lascia perdere il pregiudizio dell’inferiorità con l’italiano.

16 aprile 2020

la parte in italiano. O fa da commento a pezzi in dialetto affini. O va alla fine, ma non deve essere semplicemente la traduzione della parte in dialetto o una sua versione più libera. (Precedente: come  facesti in Karl Bis)

27 lug 2020

Leggendo per la prima volta  l’introduzione a Bonhoeffer,  Resistenza e resa e  notando le  analogie con il “non c’è più religione “ di Ranchetti, va capito  il valore positivo ( e quanto) del mio credere di ragazzo o quella capacità di stare nel mito ( cattolico, parrocchiale).

Altro punto. Visto alla luce di Ranchetti (e del “non c’è più religione” [“ il tempo della religione è ormai giunto alla fine “ ( Bonhoeffer pag. 19); “ Si prepara un tempo “non religioso”; gli uomini non possono “più” essere religiosi; ci si deve interrogare su quale forma assumerà il cristianesimo non religioso, ecc. La religione – questa è la novità rispetto a Barth, e rispetto agli stessi premi scritti di Bonhoeffer, viene considerata nelle lettere dal carcere un fenomeno transitorio” , pag. 20
[il che vale anche per il comunismo! Da intendersi, però, non in senso storico-sociologico (pag.30) ma al “livello profondo di una diagnosi epocale”: non è che i comportamenti religiosi siano già scomparsi o siano destinati a scomparire “ma nel senso che è finito il tempo in cui era possibile essere veramente, sinceramente religiosi”…  non  profanare le “antiche grandi parole dell’annuncio”… il linguaggio religioso non è “più” in grado di testimoniare questa centralità [di Dio (pag. 31). E’ quello che dice Bultmann per l’immagine mitica del mondo: “ non esiste più” ma ciò non significa che tutti gli uomini abbiano fiducia nell’immagine scientifica del mondo o che non vi siano uomini che ancora appartengono  ad “un’epoca di pensiero mitologico”;  ma “la fede negli spiriti e nei miracoli, scaduta a superstizione è qualcosa di assolutamente diverso dalla fede di un tempo “(pag. 32)],

 che io tenderei a collegare alla posizione di Bonhoeffer ( un Dio non concepito come “tappabuchi” [anche magari “oppio dei popoli”], un dio di cui si ha bisogno magari sul letto di morte (Bonhoeffer, Resistenza e resa, pag.  16), cioè di una immagine diversa di Dio “liberata dalla veste religiosa” e che “non si manifesta nell’onnipotenza dell’Essere sommo”, ma nella debolezza di Gesù Cristo” (pag. 17) o  un’idea di Dio forgiata in conformità ai desideri umani” (pag. 18) ) si può intendere meglio  – e su un altro piano – non religioso ma neppure piattamente laico – l’idea di Bidussa di vedere se in quel periodo [del nazismo] la Chiesa fosse stata o no all’altezza della “sfida dei tempi”..Se Bonhoeffer  pensava ad una “verifica dell’annuncio cristiano che deve arrivare fino alle radici più profonde da una parte ( appunto fino all’immagine di Dio [per cui l’ateismo dei comunismo non dovrebbe affatto sgomentare!.. vedi anche  don  Milani:

[Ma per lui è Dio che governa la storia- dio ha voluto li lmovimento operaio e la scristianizzazione per il tradimento che la Chiesa ha fatto nei confronti del poveri e della classe operaia… Dio ha lasciato che i poveri andassero via dalla Chiesa e si trovassero nella tana  della sinistra.. era un avvertimento  per rimettere  sui binari la chiesa [Milana su don Milani  1 lug 2020]
e alle conseguenze più estese dall’altra ( Chiesa, formazione dei pastori”…. “l’annuncio cristiano deve trovare un linguaggio completamente nuovo, o tacere, finché le grandi parole, liberate dalla patina dell’uso religioso, clericale, apologetico, riacquistino la forza liberante che gli uomini hanno sperimentato udendole pronunciare da Gesù, ma che le Chiese non sanno più testimoniare” (pag. 18)

Cosa fu a vocazzione? [e già l’uso del termine in dialetto (A Vocazzione) indica uno scarto, un degrado 2 dic 2022]. Come ti segnò (perché ti segnò)?  Ci fu adesione e che tipo di adesione? Aveva a che fare con la Chiesa e la sua influenza e non puoi ridurla a esperienza solo gregaria a cui una parte di te si opponeva. Se nella settimana di seminario c’è stata la negazione o la cancellazione materiale della vocazione o la sua riduzione a ritualità e disciplina esteriore, prima e dopo  c’è stato comunque un indottrinamento, una formazione…(come per la frequenza alla scuola…).

 Sottovalutazione e ridicolizzazione di quello che leggevo allora ( Io, Lui, loro di Bucciarelli) perché non ricordi o non sai più dire che effetto avevano quelle parole su di te…

 Se quella vocazzione  era diventata per me ragazzo qualcosa di importante e valido, la sua interruzione  fu una sconfitta dolorosissima. (Così la vissi subito). Se conteneva un errore, se era un’esperienza  sbagliata a cui mi avevano semplicemente indirizzato altri/e e che mi distrasse da un percorso diverso (più “naturale” o “tuo”),  uscirne è stato un liberarsi da un cappio…

Che cercavo allora,  accettando o illudendomi di avere a vocazzione? E  qui entra in gioco il desiderio (Vulisse). Così confuso da non sapersi indirizzare al bersaglio giusto. O impossibilitato, in quelle circostanze, ad indirizzarsi altrove ( arte ad es. come pensai dopo). O a seguire spunti che potevano venire da altre letture ( ma ce n’erano tra le mie a 10-12 anni d’altro segno? Non mi pare). O dal legame ancora con Barunisse. Perché altri spunti (per una diversa vocazione) in quel momento, in quella città, per me ragazzo non ce ne  furono.

Ranchetti: l’A.C. era “il modo di essere del cristiano nel mondo” … “ non essere un giovane di azione cattolica era impossibile, o almeno si poteva ma era come riconoscersi perduto per sempre , un reietto, un minus habens, voleva dire non partecipare compiutamente alla mensa eucaristica, o così ci si faceva credere. Si aveva una tessera,… anche dei bollini celesti in relazione ai meriti conquistati nelle prove di catechismo oppure per i fioretti commessi, oppure per le buone azioni di evidente successo… Il cattolicesimo era una forma di religione naturale, l’apostolato dei laici la forma naturale dell’esistenza per chi, non chiamato al sacerdozio, privilegio accordato a pochi (ma chi non sperava di essere tra questi?), avesse operato nella società (p. 32- 33, Scritti diversi II)

A vocazzione  riguarda tutto un lungo periodo e non la settimana – traumatica (o rivelatrice di una “insufficienza” mia) – del seminario. Tant’è vero che nell’orbita di quel cattolicesimo ci rimasi in fondo fino alla fine del liceo. (Molto più del periodo passato in AO, che è durato 6-7 anni. E anche per questo periodo di militanza politica organizzata mi pongo le stesse domande che per la vocazzione).

Al momento del fallimento provai “vergogna”. Avvicinare a quanto dice Ranchetti: ”Naturalmente tutto questo poteva  sembrare aberrante. Ma a chi? E da quale prospettiva? Si poteva certo “perdere la fede”… e ritrovarsi isolati, guardati a vista, dai compagni di Azione Cattolica che pregavano che tu la ritrovassi per poter riprendere a giocare con loro a pallone. O si poteva cercare nuovi maestri “atei”, ma dove trovarli? Si poteva, infine,  cominciare il lunghissimo itinerario della ricerca della “vera” Chiesa, del “vero” cristianesimo senza alcuna certezza di poterlo mai trovare ( pag. 38) . La figura antagonista al fascismo di Piero Martinetti (pag. 39).  Di Giovanni Papini lessi forse la Vita del Cristo prestatami da Gianni?

«Il ruolo della Cattolica di Milano… Monsignor Olgiati, direttore spirituale in Arcivescovado, “era il confessore della borghesia, molti giovani si recavano da lui a farsi aiutare a vincere il “problema sessuale”… E del resto che cosa restava ai giovani se non  il “problema sessuale”? Tutto il resto era regolato dai maestri, previsto dai pontefici, voluto dai capi, si tratta di superare velocemente l’adolescenza turbata, per poter poi entrare, come si diceva allora, in Cattolica. E si era, in quanto  cattolici, destinati a diventar dirigenti. Di fatto, la classe politica che reggerà l’Italia già durante il fascismo ma soprattutto dopo la sua caduta proverrà dalle file della Cattolica» (pag. 37)

Analogia tra i problemi (pag. 40) che Ranchetti si pone rispetto a Chiesa e cristianesimo ( la parola di Dio) e i problemi che mi/ci siamo posti rispetto a Partito e comunismo. La Bibbia per lui era quello che Marx o il marxismo è stato per me/noi nel periodo della militanza e nella crisi successiva. Potrei dire che idirigenti di AO erano i “preti rossi”, verso i quali Samizdat (ancora in formazione?) provava le stesse dinamiche di rifiuto-obbedienza che aveva provato Vulisse  verso i  preti neri (cattolici e probabilmente tutti fascisti).

Il problema che c’era dietro l’appartenenza o non appartenenza del singolo alla Chiesa: “ «Riconoscere la possibile “verità” di altre confessioni religiose
[zio Attilio, il barbiere, cugino di papà, che era diventato  protestante e veniva trattato con diffidenza da Nannìne…problemi  di adulti o di dottrina di allora che Vulisse sfiorava, annusava, non capiva ma sentiva]
 significa non solo porsi di nuovo il problema della verità e della ricerca di essa, che sembrava in un certo senso non più necessario, ma interrogarsi sull’errore nella e della Chiesa di Roma, cioè l’unica vera Chiesa. Significava anche porsi all’esterno di essa, strappandosi da un’appartenenza» (Ranchetti, idem).

Il problema del Concordato e della “alleanza mondana” [una scelta che la Chiesa aveva fatto a favore di un “totalitarismo”] col fascismo che  precede la guerra e che incrina la sua funzione spirituale: “Si poteva essere minacciati dalla perdita della salvezza, da un lato, e messi in crisi da un’attuazione molto visibile di comportamento da parte di una Chiesa che si accordava con il regime fascista e che nello stesso anno del catechismo si sarebbe affetta a stipulare un concordato con Hitler da poco salito al potere (pagg. 42-43). E che, secondo le  parole di Buonaiuti era  già essa stessa da secoli  “totalitaria”: «veniva  fatto spontaneo di domandarsi se queste concezioni totalitarie dello Stato non costituissero e non rappresentassero, in sostanza, un puro e semplice trasferimento in sede politica e statale, dei criteri e dei metodi, anch’essi totalitari, invalsi ormai da secoli nell’esercizio del magistero ecclesiastico”. La domanda era allora: è possibile un’opposizione “religiosa”?»

 La rivolta  “corporea” di Vulisse. (La settimana del seminario  dice il disagio ma non è risolutiva. Tant’è vero che egli è costretto a rientrare in parrocchia e a ruminare le stesse problematiche di prima. Farsi prete o no… Anche l’innamoramento, la “ricerca della ragazza”, come si diceva allora, non  lo scioglie da quella problematica, non basta a spezzare quel legame. (Certo, il primo contatto con una ragazza gli chiarisce che non vuole essere più prete. Non vuole più seguire quella vocazzione, ma insegue ancora altre “vocazioni” o vivrà altre scelte (persino quella di AO) ancora come vocazzione magari “sporca”…

Dopo essersi chiesto se esistono altre fonti o  se l’esperienza di vita religiosa associata, i discorsi o le prediche dei parroci, le lettere pastorali permettessero di intravvedere  una “qualche forma di opposizione, o almeno di timida perplessità” di fronte al “consenso e l’alleanza fra la “ società perfetta” e il regime fascista”, Ranchetti  mette a fuoco il  “punto dolente” che permette di cogliere l’ambivalenza o  una certa fumosità della posizione di Bidussa ( e anche di  Vercelli): «Ma ad una struttura così rigidamente gerarchica, come la Chiesa Cattolica di allora, non si può ascrivere la tolleranza, in qualche caso, di elementi discordanti come valore caratterizzante: l’importante, quello che conta era ed è il vertice che decide e opera, ossia il Pontefice e la Curia a cui si devono le encicliche e i Concordati, i gravissimi “silenzi”, come si è soliti chiamarli, con bonaria indulgenza , le prese di posizione modeste e generiche, i consensi clamorosi, come durante la Guerra di Etiopia , la  benedizione dei gagliardetti»

[Trovo on line Gagliardetto: Bandiera di forma triangolare, alzata in testa d’albero dalle galee. Adottata come insegna dagli arditi nella prima guerra mondiale, passò poi alle squadre d’azione fasciste e più tardi divenne l’insegna delle formazioni giovanili fasciste. A cura della Diocesi, annualmente si svolgeva la “gara di catechismo”: un sacerdote incaricato dal vescovo passava per le parrocchie ad esaminare ragazzi e giovani, per assegnare a livello provinciale il punteggio. Un anno è risultata vincitrice del Primo Premio laparrocchia di San Vito. Il premio consisteva in un gagliardetto che veniva consegnato dal Vescovo a Treviso, presso la Cattedrale, ad un rappresentante del paese, in una specifica cerimonia.
Il gagliardetto è stato esposto in chiesa in bella mostra per un intero anno, come segno di riconoscimento e di preparazione catechistica.  Simbolo militare e fascista]

« i richiami alla civiltà romana e cristiana che approdava sulle sponde dell’Africa. E inoltre, perché “interpretare”, come alcuni vorrebbero, i documenti del Magistero, reticenti e guardinghi , proprio con quella generosità, quel liberalismo esegetico che esi, espressione di un rigido centralismo dottrinale, hanno sempre accanitamente avversato? (pag. 44)

Vedere lo spostamento della problematica di a vocazzione a Milano (in Samizdat)

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