"abbiamo tanti difetti ma il peggiore tra questi, ne sono convinta, è che non ci amiamo abbastanza, non abbiamo abbastanza orgoglio per ciò che l’Italia ha rappresentato e rappresenta nel mondo"
“Non sono mai stata femminista ma sono sempre stata fiera di essere una donna”.
Per femminismo Giorgia Meloni intende le quote rosa e le politiche femminili come politiche di settore, mentre “le donne capaci devono essere messe in condizione di competere ad armi pari, senza spinte e senza pregiudizi. Quando questo accadrà, allora capiremo il valore aggiunto che molte donne possono portare.”
Nella sua autobiografia, tra i molti amici (anche di sinistra: con Fausto Bertinotti “ancora oggi mi lega un’amicizia sincera”) di cui scrive, nomina cinque donne a lei vicinissime: la sorella, la madre, la sua bambina Ginevra e due collaboratrici e amiche, che di lei si prendono cura e che lei considera indispensabili.
Il protagonismo femminile si sta imponendo: oggi si candida, insieme ad altri e tra dubbi e perplessità, Elly Schlein come segretaria di un partito che attraversa una grave crisi di identità.
“Io sono Giorgia”, pubblicato nel 2021 da Rizzoli, ha raggiunto le cinque edizioni. Il libro è diviso in sezioni che ripetono la notissima dichiarazione “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono di destra, sono cristiana, sono italiana”. La filastrocca divenne per scherno una videocanzonetta ma “il pezzo era troppo buono, troppo ballabile … in poche settimane arrivò ovunque, si cominciò a ballare in tutte le discoteche, e vinse addirittura un disco d’oro”, quindi ha ottenuto di rendere Giorgia Meloni popolare.
Nel capitolo Conservare il futuro, che fa parte della sezione “Sono di destra”, la parola identità ricorre almeno quindici volte, a identità si accoppiano patria e patriota, visione, destra, nazione, onore, coraggio “la sfida che ho imposto alla mia vita è riuscire a rimanere me stessa, costi quel che costi”.
Con gli occhi di tutti addosso, in Italia e in Europa, e di sicuro anche in altre parti del mondo, si offre come un esempio di fiducia in se stessa, una qualità che non si confonde con spavalderia e prepotenza, ma sferza la sfiducia e la passività troppo diffuse nel paese.
Determinata, attiva e preparata, Meloni appare come una che fondi le sue scelte politiche e personali su valori universali, e non sull’ideologia politica con cui affronta la situazione storica in cui si è trovata a vivere. “Un pensiero politico profondo e diffuso […] innerva la destra italiana” scrive. “Un pensiero verticale, che va dalle Sacre Scritture al diritto romano, dai codici cavallereschi del Medioevo alla grande bellezza del Rinascimento, dai giovani poeti guerrieri del Risorgimento all’Europa cristiana di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Ma anche un pensiero orizzontale, che tiene insieme i mille e mille campanili che compongono l’Italia, da nord a sud, da est a ovest.”
Si colloca così nella continuità di un tempo storico che sorregge il presente e forse proprio questo rassicura chi teme i segnali inquietanti che annunciano un futuro inimmaginabile. Forse questo spiega il successo politico di FdI alle ultime elezioni e forse anche il ruolo dirigente che Giorgia Meloni ha assunto in UE nel Partito dei Conservatori e dei Riformisti europei.
Le sue capacità organizzative e direttive sono rilevanti, sostiene che il segretario di un partito sia equiparabile all’amministratore delegato di una grande azienda. Dopo essere entrata in politica a 15 anni nel Fronte della Gioventù, che diventa poi Azione Giovani, a 21 anni è consigliera provinciale, a 29 anni deputata, a 31 ministra, poi a 33 anni fonda un nuovo partito: Fratelli d’Italia (il nome è preso dall’Inno di Mameli). A 45 anni, a capo di un partito che ha ottenuto il 26% dei voti (su una percentuale mai così bassa di votanti, il 64% degli aventi diritto) diventa Presidente del Consiglio, la prima donna in Italia.
(Una breve nota: Meloni ha chiesto di essere chiamata “il” Presidente del Consiglio. Le cariche, come le professioni, sono intese da molti come neutre, indipendenti dal fatto che a esercitarle sia una donna o sia un uomo. Ma in italiano il neutro come genere grammaticale non esiste: si declina al maschile. Per le persone invece la lingua italiana offre articoli, pronomi e desinenze diverse.)
Il totem identitario è comunque ancipite: se rimanda alla fermezza delle proprie idee, funziona anche per segnare la differenza rispetto ad altre posizioni. Ho trovato irritante, mentre leggevo il libro, il continuo abbassare le culture politiche non di destra. Il Pd viene definito “partito collaborazionista delle ingerenze straniere” e il pensiero di sinistra “è un’ideologia totalizzante in nome della quale si è disposti a giustificare qualunque forma di sopraffazione e di violenza. Sotto questo aspetto, la furia ideologica ha molte similitudini con l’integralismo religioso”. Il comunismo è descritto come “ideologia incentrata sulla necessità di negare qualsiasi forma d’identità per conseguire il disegno di una società marxista, fatta di uomini in tutto e per tutto uguali tra loro”: come se l’uguaglianza si contrapponesse al valore della vita individuale! “Ognuno di noi, scrive Meloni, dal momento del concepimento, è portatore di un codice genetico unico e irripetibile, per sempre”, ma non tutti accettano che tale individuo “piaccia o no, ha del sacro”.
Il pensiero liberal e globalista viene schiacciato sulla teoria gender, la cancel culture, quindi la GPA, l’eutanasia, il matrimonio omosessuale, l’adozione dei singoli o delle coppie omosex. A questi diritti civili lei si oppone in quanto è “un legislatore” ed è sua convinzione politica escludere decisioni “che sembrano facili, e umane, guardando al singolo caso, ma che inevitabilmente portano effetti disumani e impensabili quando vengono universalmente applicate”.
La sua personalità, reattiva e combattiva, si colora di valenze morali sui diritti civili “il problema è che viviamo in una società nella quale pare non esistere più alcun nesso tra diritti e doveri. Ogni desiderio diventa un diritto, persino ogni capriccio, e di contro è sparito qualsiasi richiamo alla responsabilità” mentre “c’è chi mi ha confessato di piangere per il terrore del futuro, di notte, di nascosto dai figli”.
Non ho mai pensato di votarla, però condivido la sua impostazione politica a proposito dell’immigrazione (“qualsiasi Stato responsabile dovrebbe fare tutto ciò che è nelle sue prerogative per impedire l’immigrazione illegale di massa […] stabilito che non si entra illegalmente, è giusto parlare in modo serio delle «quote» di immigrazione di cui ha bisogno l’Italia”) e la sua critica dell’ideologia gender, che va contro le donne, trattate come fossero una minoranza tra altre, bisognose di diritti “se decidiamo che i generi sono da abolire, andrà a discapito soprattutto delle donne, che saranno terribilmente penalizzate proprio mentre il mondo comincia a riconoscere il loro valore. Tutti i passi in avanti che sono stati fatti verranno cancellati”.
Credo in sintesi che il successo politico di Giorgia Meloni sia dovuto alla sua personalità, alla capacità di essere una leader, alla chiarezza con cui propone le sue posizioni. Fondate, queste, su orgoglio nazionale e amore per il proprio paese, in una europa confederale “un’unione di liberi popoli europei, fondata sull’identità, capace di condividere le grandi questioni”.
Si possono condividere o meno altri punti del suo programma, ma sicuramente impegno e amore per la nazione hanno rappresentato un richiamo straordinario per il paese sfiduciato che siamo diventati, dopo un trentennio di governi brevissimi, con politici aggressivi presto dimenticati, e “scappati di casa” votati per disperazione ma incapaci di governare.
Il patriottismo (che la spinge ad affermazioni paradossali “credo si possa affermare che lo stesso tricolore italiano non sia figlio di una concessione straniera, ma dei versi premonitori del più grande fra i poeti del mondo. «Sovra candido vel cinta d’uliva/donna m’apparve, sotto verde manto/vestita di color di fiamma viva») è una sfida che lei ha affrontato.
Questa leader, che peraltro nessuno aveva previsto, esplicita quel sotterraneo legame con i valori tradizionali Dio Patria e famiglia che rassicura molti. In essi Giorgia Meloni ha ispirato fiducia, quindi la hanno mandata al governo.
Cristiana, grazie per la presentazione dell’autobiografia di Giorgia Meloni che non ho letto, ma è molto utile conoscere…Pero’ non mi ritrovo nei tuoi commenti, anche se solo parzialmente positivi… Che Giorgia Meloni, con i suoi valori tradizionali, “Dio, Patria e famiglia”, rassicuri molti è provato visto l’ampio consenso elettorale. Ma molti di piu’, credo, non si sentonono affatto rassicurati: il suo programma, pur ammantato di buone intenzioni, mi suona ampiamente escludente e minaccioso…anche contradditorio. Non si puo’ definire cristiana una persona che di fatto esclude dal piano programmatico di governo i poveri, tra cui i giovani e i meno giovani, senza garanzie di lavoro dignitoso, a cui si vuole levare il reddito di cittadinanza come i migranti da Paesi impoveriti anche per il nostro piuttosto recente colonialismo rapace e presente neocolonialismo…Inoltre, i diritti di persone gender e trasgender a vivere le proprie scelte come cittadini qualsiasi, senza stigma sociale, i diritti acquisiti della donna, come quello all’interruzione volontaria di gravidanza, messi in forse o comunque in qualche modo contestati. Infine, il tema della pace viene completamente trascurato con l’invio, incondizionato e subordinato a poteri esterni, di armi per una guerra che sta degenerando di giorno in giorno…Inoltre mi sembra, da parte di Giorgia Meloni, vagamente minaccioso ritenere sacra la bandiera, da antiche crociate, con i colori “attributi” al sommo poeta come la soggettività degli individui esaltata, demonizzata l’aspirazione all’uguaglianza…Il valore personale di Giorgia Meloni – coraggio, deterinazione…- resta innegabile, ma in quale direzione lo convogli non mi convince affatto, anzi lo temo, proprio perchè lei ha doti di leader
Solo delle qualità leaderistiche di G.M. ho scritto, perché questo abbiamo davanti: il primo governo eletto dopo la caduta di Berlusconi nel 2011. Da Monti in poi abbiamo avuto una scissione tra votanti e presidenza del consiglio. Pochi hanno votato questa volta, frutto appunto di un decennio in cui la politica si è deteriorata. Non faccio la critica del suo governo, né le lodi, anche se capisco che sostiene le piccole e medie imprese e vuole il controllo di quelle grandi statali. Essendo poi di destra-destra, deve farsi accettare a livello europeo e internazionale. Anche qui, sa come cavarsela, è trumpiana e dirige il partito europeo conservatore di destra. Ho solo cercato di intuire, nella sua personalità, perché proprio lei ce l’ha fatta. Ha una determinazione che fa impressione, ti assicuro, leggi il libro e verificherai.
Sull’articolo «La rabbia e la passione» pubblico, in accordo con l’autrice, Cristiana [Fischer], lo scambio di mail tra me e lei.
4 DICEMBRE 2022
Ennio a Cristiana
Cara Cristiana,
pubblicherò come sempre ma ti anticipo il mio dissenso. Scrivi: «In questa leader non prevista, che mette in chiaro quello che finora era il sotterraneo ma rassicurante filone di valori tradizionali, espressi dalla formula Dio Patria e famiglia, molti hanno hanno sentito di poter avere fiducia e la hanno mandata al governo». Dunque, anche tu, pur non avendola votata? A me pare un cedimento intellettuale, un adeguarsi al mainstream (costruito) che ha raccolto l’insofferenza giustificata contro la politica piddina-5stelle e ha prodotto solo una successione Draghi-Meloni che prosegue la medesima politica filostatunitense, filoUE, guerrafondaia e anticlassista (vedi abolizione di quella “elemosina” che era il reddito di cittadinanza. (Il cedimento lo vedo nella stessa sovrabbondanza di citazioni delle parole della Meloni, solo in minimi punti contraddette…).
Che condividessi la politica sull’immigrazione, anche questa non tanto dissimile da quella piddina di Minniti mi era chiaro e ci litigammo (ricordi?), ma mi chiedo se la critica all’ideologia gender non possa distinguersi (o non si sia già distinta: su questo ho un vuoto non seguendo attentamente il dibattito) da quella della Meloni. E poi, come fai a credere sia pur «in sintesi» che « il successo politico di Giorgia Meloni sia dovuto alla forza della sua personalità, alla capacità di essere una leader, alla chiarezza con cui propone le sue posizioni»? Mi pare una pericolosa decontestualizzazione (per me resta indispensabile) del “ruolo del singolo nella storia” dai problemi sociali, politici, economici, che vengono dimenticati o occultati.
Perché farsi ipnotizzare da questo successo elettorale che ha raccolto senza dubbio malumori e insofferenze sociali, ma di che segno? Perché non interrogarsi sulle cause reali che hanno costruito nel tempo questa “nuova” leader? Solo perché gli altri non lo fanno più? Solo perché a riflettere su questi aspetti occultati dalla società dello spettacolo siamo rimasti in pochi e isolati?
Queste le mie impressioni a caldo.
Cristiana a Ennio
Caro Ennio, ho cercato di vedere “da fuori” il perché del successo politico della Meloni.
Rispondo però per punti alle tue critiche:
1 con le parole “sotterraneo ma rassicurante filone di valori tradizionali” prendevo appunto le distanze dal nostro paese, che è in maggioranza di destra;
2 sugli ultimi governi mi pare di avere detto qualcosa di vero: astensione crescente, nuova classe dirigente inadeguata, non è così? certo che poi cercano di commissariarci con Draghi, e infatti Meloni prosegue le sue linee, per sopravvivere.
3 sull’immigrazione spero che si possa intendere il lungo periodo in cui gli accordi con alcuni stati africani e un’immigrazione legale si potrà istaurare. E’ però sicuro che si sta ignorando bellamente che i trafficanti di uomini libici, in accordo con mafiosi siciliani (c’è la prova) fanno il loro lavoro… chiedo anche: al servizio di chi? e per che scopo?
4 sempre perché la maggioranza del paese è di destra, o neghi questo?, Meloni vince per le sue capacità liederistiche più che per il suo programma (ammesso che si possa fare una distinzione… ma sì, si può). A destra sono sempre i leaders che ipnotizzano e spingono alla identificazione/subordinazione.
La vera questione è che una sinistra non c’è, e che l’ideologia dominante liberal globalista non ha prodotto una nuova umanità. In questo vuoto il regresso è stato ovvio. Questo ho detto, altro che fascino della vincitrice!
Temo che, se non si vuol vedere che manca una nuova idea del mondo, la conservazione occidentale abbia spazi sterminati.
Certo che, sul breve periodo la posizione corretta è questa (allego pdf).
Ho visto nel successo di Meloni un segno dei tempi: svolta conservatrice di un pezzo di mondo, quello occidentale, che è perdente.
Credo anche che non sia possibile mantenersi in una -vecchia- posizione della sinistra che fu, perché politicamente oggi non esiste. Credo che la situazione mia e anche tua sia dura, non abbiamo un terreno su cui poggiare, del resto quelle di unadimeno avanzano foto di Meloni appesa a testa in giù come Mussolini! Possibile restare alla vecchia posizione di fascismo e antifascismo? Ma l’oggi, cos’è?
ciao, e se credi rispondimi
Ennio a Cristiana
È questo “da fuori” che non mi convince (per le ragioni che velocemente ti ho scritto nella mia prima replica). Sempre con brevi note ora aggiungo le mie obiezioni alle nuove tue note:
1. Non bastano queste parole. Non basta prendere le distanze da chi oggi riesuma i «valori della tradizione» (di destra). O pizzicare su questo o su quel punto la Meloni; e però dare l’impressione che “qualcosa di buono” e di “nuovo” ( non è forse la prima Presidente donna del Consiglio anche se lei si vuol far chiare Il Presidente?) in lei c’è. Dobbiamo – come dici più avanti – far fronte a un disastro: al vuoto lasciato dalla sconfitta dell’ipotesi comunista ma anche a quello di «una sinistra che non c’è».
2. Qui siamo d’accordo e salto.
3. Non è che sull’immigrazione il punto centrale sia che «si sta ignorando bellamente che i trafficanti di uomini libici, in accordo con mafiosi siciliani (c’è la prova) fanno il loro lavoro» (attenzione: questo è uno dei cavalli di battaglia di Salvini e Meloni), per cui, affrontato con decisione questo punto, placati i malumori o l’odio degli “italiani” per gli immigrati “invasori”, possiamo star tranquilli. Il problema è epocale e nessuno dei governi vuole o può affrontarlo non dico nel rispetto dei diritti umani (Ferrajoli, Di Cesare, Bevilacqua, ecc.) ma nei termini che chiamerei per brevità di convenienza socialdemocratica funzionali ad uno “sfruttamento ragionevole” di questa indispensabile forza lavoro. Anche su questa questione si tocca per mano il disastro di cui al punto 1. Ma, se ne siamo consapevoli, perché dovremmo cedere ad un falso rimedio, ad una misura propagandistica e di facciata come quella che fu di Minniti, di Salvini e che ora sarà della Meloni? Siamo isolati e impotenti, ma perché dovremmo approvare o farci impressionare da una proposta che sappiamo antiumanitaria e che proprio nel lungo periodo risulterà inefficace? (A parte il fatto che al massimo colpiranno qualche manovale della mafia siciliana e non hanno nessuna voglia di contrastare la Mafia).
4. Non sono sicuro che «la maggioranza del paese [sia] di destra» ma è certo che la diffidenza verso gli stranieri, gli immigrati, i poveri e lo sconcerto per una gestione “caritatevole” dell’accoglienza (ma sul piano pratico approssimativa, in mano anche a clientele e cooperative corrotte o mandate allo sbaraglio) sono cresciute. E questo stato di disagio, di sofferenza in certi casi, di impossibilità di rapporto con degli estranei che rimangono ai margini o allo sbando, visto che «una sinistra non c’è» e quella “sedicente” fa la gnorri, può essere più facilmente rappresentato ( e strumentalizzato, perché soluzioni “vere” neppure loro ne hanno) da FdI e Meloni (e prima da Salvini). Con questo non nego le «capacità leaderistiche» della Meloni del tutto evidenti rispetto all’ingessato e quasi addormentato Letta. Ma puoi trascurare di chiederti leader, ipnotizzatrice, per quali scopi? E se mi sbagliassi a parlare di cedimento o di «fascino della vincitrice», resta il fatto che « manca una nuova idea del mondo» dovrebbe renderci più guardinghi nel parlare e giudicare quello che passa oggi il convento. Giusto vedere «nel successo della Meloni un segno dei tempi». Lo vedo io pure. Ma la svolta reazionaria più che conservatrice, che a me non pare solo del pezzo di mondo occidentale (e l’India ad es?, è cominciata ben prima. Io mi azzardo ancora a pensare ai suoi inizi alla fine degli anni ‘7° e poi con l’implosione dell’Urss.
Dunque, concordo: se «una sinistra non c’è» e non c’è neppure « una nuova idea del mondo», non si può « restare alla vecchia posizione di fascismo e antifascismo».
Che possiamo fare? Continuare a interrogarci, discutere se possibile con amici, semiamici, falsi amici. E raccogliere spunti. Su questo nostro “stato d’animo” di marasma ho trovato sulla pagina di Claudio Vercelli due articoli che aiutano [Appendice]
Cristiana a Ennio
[…] Per il resto:
1 “Non basta prendere le distanze da chi oggi riesuma i «valori della tradizione» (di destra)”: Allora bastonarli (a parole)? Premettere sempre e ritualmente che sono tradizionalisti? che sono di destra? Ma un po’ di realismo, questo è il governo, un altro non di destra non era possibile, anche se lo attacco chiunque mi potrebbe chiedere quale alternativa sto proponendo, a chi/cosa penso. Se la situazione è necessariamente così, se questo è il governo e non un altro, lo esamino come tale: visto poi che il suo programma è *patriottico* e quindi riguarda anche me, leggo spassionatamente che Meloni si appiglia ai piccoli e medi produttori, ha presenziato a Coldiretti e Confagricoltura, ha un progetto!, e poi -e la dico tutta- rispetto alla umili ancelle di sinistra una che piano piano, si impone e a un tratto diventa la prima PdC donna, be’ ti pare qualcosa di indifferente? Te la vedi la Serracchiani con i capelli a pagoda (che fra l’altro ha accusato la Meloni di essere al servizio dei maschi!…) che si impone quatta quatta e diventa PdC?
Senz’altro la qualità leaderistica è una *questione* oggi in Italia: quel morto in piedi di Letta, quell’arruffone imbroglione di Conte, quei fantasmi elettrizzati di Renzi e Calenda (che non a caso puntano anch’essi a un fantomatico centro… destra) Insomma: un/una leader nasce nei momenti di disordine, perché rassicura, per identificazione e per sudditanza, scrivevo, non me né te, ma chi la vota e chi continua a darle favore: il suo apprezzamento cresce nei sondaggi, lo sai o no?
3 il problema epocale dell’immigrazione non si risolve facendo arrivare un miliardo di africani e bengalesi in Europa. L’umanitarismo non serve a niente. La riorganizzazione dei continenti è il problema, degli Usa come dell’Europa. Vogliamo affrontarlo a questo livello o continuare ad avere pietà spicciola che salva molti (pochi) e non imposta nessuna soluzione? Non so se quei circoli mafiosi che si accordano con gli scafisti siano solo manovalanza… l’affare è grosso, e i soldi che i poveretti spendono per traghettare sono tanti. La questione per me è che il problema va posto e affrontato. Salvare i naufraghi sì, è fuori discussione, ma ridurre a questo il problema è folle.
[…] Certo che viviamo in un’epoca nuova, ed è difficile padroneggiarla col pensiero da parte di un occidente (in guerra fra le sponde atlantiche) nettamente in recessione di potere e popolazione. Fossi più giovane troverei la sfida eccitante, ma sono vecchia e nel bosco ci sto bene. Fin che la salute regge.
Appendice
1.
(https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=pfbid0W1mcipXHsGbXN9RoR6ww6fWkGQj86ZmhCJq839o43Uc6a9KMonGh2j8H1KGQnGmUl&id=100070172837452).
Riavvolgere il nastro della storia: la tentazione di una democrazia etnica per semplificare una realtà complessa
di Claudio Vercelli
[Storia e controstorie] Quella che stiamo vivendo è un’epoca senz’altro accompagnata da molte inquietudini. Il problema non è solo culturale, ossia legato alle mentalità e ai pensieri prevalenti. Non è neanche una questione di civiltà, posto che le società occidentali da tempo stanno vivendo un crescente disagio. Disagio dettato essenzialmente dal mutamento da economie e società industriali a organizzazioni collettive a prevalenza digitale, dove il nocciolo della produzione di valore è legato a una diffusa economia della conoscenza e dell’informazione. Così come a una minore occorrenza di lavoro e a una maggiore diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza prodotta socialmente.
L’apparente paradosso di questa situazione è che a fronte di un grande incremento dei saperi, ossia della loro numerosità e necessità per continuare a vivere insieme, un numero crescente di persone si sente posta ai margini, non avendo strumenti per intervenire in quei processi decisionali i cui effetti tuttavia ricadono su di esse. L’apparenza del paradosso, per l’appunto, sta nel fatto che più conoscenza circola nelle società, maggiori sono le concrete probabilità per le quali un numero crescente di individui non riesca a farne l’adeguato utilizzo. Scontando, in tale modo, il fatto di essere surclassati e subordinati dall’evoluzione dei fatti.
Non è vero che a una maggiore cognizione della crescente complessità delle cose corrisponda una altrettanto significativa integrazione delle persone nel sapere: per molte ragioni, tutto ciò semmai crea o rigenera diseguaglianze. Che pesano nelle scelte, nelle condotte, negli atteggiamenti e nelle stesse opzioni politiche di una parte importante della collettività. Anche per questa ragione le formazioni politiche che contrappongono a un tale stato di cose il richiamo a una qualche “identità” collettiva o comunque di gruppo, intesa come una condizione tanto indiscutibile quanto immutabile, una sorta di nucleo originario che non muta con il trascorrere del tempo, riescono a risultare più credibili rispetto a quelle che – invece – si richiamano al cambiamento come a una sorta di inesorabile orizzonte, sul quale la ragione umana può poco e la volontà ancora meno.
Il disagio, infatti, si colloca nella discrasia che intercorre tra la comprensione dei mutamenti e l’impossibilità personale di fare fronte ad essi. Le organizzazioni e i partiti identitari riescono, un po’ ovunque, a meglio rappresentare questa dicotomia, offrendo una qualche forma di rassicurazione nei riguardi di quanti si sentono altrimenti dimenticati o sottorappresentati. All’interno di questa traiettoria, nella quale si inscrivono fenomeni e manifestazioni populiste, sovraniste e nazionaliste, la vera posta in gioco è allora il conflitto tra la tutela del sistema delle regole vigenti e dei diritti garantiti dai sistemi istituzionali vigenti oppure la sua sostanziale neutralizzazione in nome di qualcosa di nuovo e inedito. La risposta che viene data dalle formazioni politiche identitarie, collocate soprattutto nella destra post-liberale – richiamando un passato collettivo perduto, che andrebbe ripristinato per ottenere il suo giusto riconoscimento nel presente – è quindi radicale: i sistemi istituzionali esistenti nell’oggi non sono più in grado di tutelare gli individui appartenenti al proprio gruppo di riferimento.
È dalla dismissione di essi, invece, che potrebbe derivare una nuova stagione di opportunità e di libertà. Peraltro, secondo questo filone di pensiero è l’idea stessa di libertà che andrebbe riformulata alla radice, non dovendo essere più vincolata a diritti uguali per tutti. L’argomentazione è sempre la medesima: se si è diversi, perché debbono valere le medesime regole? Non è invece preferibile che ognuno stia a “casa sua”, tra i propri pari o omologhi? Le differenti appartenenze, vanno riconosciute e tutelate nel medesimo modo? In realtà, un tale modo di affrontare i problemi si rivela pieno di contraddizioni. Il meccanismo logico che gli è sotteso non è difficile da identificare: l’idea di fondo è che i disagi e le paure che derivano dalla globalizzazione possano essere affrontati ponendo dei limiti di principio agli effetti negativi prodotti da quest’ultima. Tali limiti si possono meglio gestire tornando a una logica nazionale, basata tuttavia sull’appartenenza etnica.
Se la globalizzazione porta a miscelare persone e interessi, allora, visti i costi sociali che essa comporta, è meglio tornare a differenziare e separare ciò che rischia non solo di non andare d’accordo, ma anche di inquinare, appartenenze e identità che debbono invece essere ripristinate nella loro autenticità originaria. Il sovranismo rimanda a questa cornice di interpretazione. Al pari di altri profili politici, richiama la necessità di rispondere all’estrema complessità delle nostre società con una loro secca semplificazione. Che è tanto più plausibile nel momento in cui le società medesime siano costituite da persone che condividono caratteri comuni. Se l’evolversi della storia porta con sé lo sgradevole riscontro che il mutamento non ha necessariamente un segno positivo e propositivo, allora forse sarebbe preferibile riavvolgerne il nastro, tornando ad un ipotetico punto di partenza.
Tuttavia, la storia “esiste” proprio per dirci che nulla di ciò che è trascorso sia destinato a ripetersi inesorabilmente. Nel bene come nel male. Le fantasie, quand’anche coalizzino per un certo periodo di tempo una parte delle società, sono comunque condannate ad infrangersi contro il muro della realtà. Che piaccia o meno. Meglio pensare, quindi, piuttosto che lasciarsi ipnotizzare. È meno gratificante ma decisamente più premiante
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Claudio Vercelli
E niente, tanto per dire. Il mondo cambia sotto i nostri occhi. La rapidità del mutamento sopravanza la nostra capacità di inseguirlo. Infatti, spesso ci sentiamo emarginati se non soverchiati. Ci sono due modi, entrambi perdenti, di fare fronte a questo stato di cose: 1) la nostalgia irrisarcibile, che idealizza un “passato che non passa” e che, come tale, alla prova dei fatti, forse non è mai esistito; 2) l’ottimismo ingenuo, che vede l’orizzonte dei tempi a venire come foriero di “grandi novità”: sì, queste ultime si danno per davvero, come già avvenne nel passato, ma ad esse non corrispondono opportunità: non per tutti, quanto meno, poiché qualsiasi mutamento radicale (nel caso nostro, il passaggio da un capitalismo postindustriale ad uno digitale) così come include, del pari esclude. Nessun moralismo, come d’abitudine dico, ma una obbligata consapevolezza critica. Ieri mi sono recato ad un “evento formativo” dell’ordine professionale al quale sono iscritto. La divisione intergenerazionale – nonché infragenerazionale – tra “garantiti” (coloro che ancora svolgono il proprio ruolo secondo il criterio dei “diritti acquisiti”, in sé del tutto legittimi) e la parte restante, contrassegnata dal precariato e dalla fragilità ontologica – nessun diritto ma neanche un qualche preciso ruolo sociale: quindi, non solo di prestazione lavorativa ma esistenziale – era chiaramente palpabile. A partire dal rumoreggiare degli astanti. Due mondi, quelli in cui da tempo si è fratturato il mondo del lavoro, che non comunicano tra di loro. Spesso vivendosi come conflittualmente alternativi. Ciò non mi sorprende. Tuttavia, la consapevolezza non risarcisce del fatto che il lungo transito che stiamo vivendo, consegnerà una parte crescente delle classi medie, altrimenti ossature delle democrazie sociali, all’irrilevanza. E con esse, alla medesima inconsistenza della stessa prassi democratica. L’economia è sovrana, in questo lungo scorcio di tempo. Si veste come religione del presente. E ci rende, per buona parte, inutili. Non sul piano umano (quello non verrà mai meno) ma su quello civile. Credo che, forse, bisognerebbe ripartire da questo riscontro, in sé assai doloroso….
In questi due brani di Vercelli tratti da fb colgo due argomenti: il primo, che li occupa quasi del tutto, è espresso così: “mutamento da economie e società industriali a organizzazioni collettive a prevalenza digitale, dove il nocciolo della produzione di valore è legato a una diffusa economia della conoscenza e dell’informazione […] a fronte di un grande incremento dei saperi, ossia della loro numerosità e necessità per continuare a vivere insieme, un numero crescente di persone si sente posta ai margini”;
l’altro argomento è invece: “il lungo transito che stiamo vivendo, consegnerà una parte crescente delle classi medie, altrimenti ossature delle democrazie sociali, all’irrilevanza”.
Ho notato piuttosto che il governo Meloni individua proprio nelle classi medie la sua base politica: i professionisti sono favoriti con la flat tax al 15% e la PdC Meloni ha partecipato ai convegni di Coldiretti e Confagricoltura.
Lucia Annunziata nella trasmissione Omnibus di venerdì 9 dicembre ha considerato che sul ceto medio degli impiegati, insegnanti e operai viene a pesare il carico fiscale, mentre non viene colpito il ceto medio degli evasori fiscali e dei professionisti (evasori) cui anzi è concessa la flat tax del 15%.
Si aggiunga la divisione introdotta tra i poveri, da una parte quelli cui si toglie il reddito di cittadinanza, mentre gli altri non trovano più aiuto dallo stato ma si rapportano a una figura carismatica, caratteristica del populismo sudamericano.
Annunziata parla di una “legittima” riscrittura della propria base sociale da parte del governo Meloni, ma avverte che questo costituisce anche l’incitamento a una possibile grande frizione sociale.