Sul libro di Andrea Graziosi

L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia

di Ennio Abate

So che la guerra in Ucraina a quasi  dieci mesi dal suo inizio (24 febbraio 2022) è allo stallo ma continua  a produrre morti e distruzione –  un temporale sul quale incombe il fantasma di un nube apocalittica. So pure che gli schieramenti contrapposti nel dibattito dei primi giorni di guerra si sono stancamente cristallizzati e vengono ripetute  le stesse accuse o gli stessi argomenti. Per lo più propagandismo piatto.  Mi sono, perciò, imposto di seguire da lontano e in silenzio i commenti o gli articoli che sull’argomento riesco a captare. Ma il libro dello storico Andrea Graziosi, segnalatomi da un amico, per scrupolo ho voluto leggerlo e commentarlo. Malgrado avessi letto con sospetto l’elogio che ne ha fatto l’”interventista” Adriano Sofri sulla sua pagina FB. Forse – mi sono detto – offre dati o argomenti che ignoro. O che potrebbero farmi rivedere o correggere la posizione che ho preso  allo scoppio della guerra e nelle riflessioni immediatamente successive (ad. es. qui e qui).

Anticipo la mia delusione. È innegabile, però, che Graziosi inquadri il conflitto in corso in un panorama storico ampio e preciso. E che documenti (anche troppo) l’ideologia di Putin e della élite che lo sostiene.  Nei suoi giudizi, però, si sente, sfacciatamente il peso dell’ideologia occidentalista e europeista. Che lo fa essere particolarmente accanito, acido e sarcastico  nei confronti di Putin – (e approverei se  misurasse  tutti gli altri capi di Stato in questa maniera) – e degli oligarchi, ma  vago e reticente sull’arresto del processo di globalizzazione a livello mondiale e sullo scontro  strategico in atto tra impero statunitense declinante (o comunque in crisi) e Russia. Con la Cina sullo sfondo.
La guerra in Ucraina non è vista come il tremendo e rischiosissimo episodio di tale scontro che è. Perché Graziosi –  vabbè che è uno storico della Russia, che la studia da decenni e che il titolo stesso del libro mette in rilievo soprattutto due termini chiave: storia e ideologia –   spiega le ragioni  dell’ascesa di Putin, della svolta antioccidentale della sua attuale politica e dell’invasione  dell’Ucraina esclusivamente come un prodotto tutto endogeno della storia russa. E questo a me pare miope.

Molti sono i temi toccati. Sono svolti però in maniera frettolosamente divulgativa e non senza ripetizioni, poiché il libro di Graziosi pare sia stato costruito in fretta, usando brani ripresi da varie sue recenti conferenze   nella prima parte  e rimandi a precedenti lavori o articoli. E questo accentua il difetto di unilateralità e il tono, sia pur non rozzo, ma nettamente filoccidentale e sottilmente propagandistico.[1]
Provo ad accennare questi temi schematicamente.
Graziosi: – si dilunga eccessivamente e con toni quasi romanzeschi[2] sulla carriera di Putin; – enfatizza il contesto culturale e ideologico  che ha incoraggiato la sua ascesa, il suo culto delle radici storiche [3] e il legame  con il patriarca ortodosso Kirill [4]; –  liquida le critiche all’Europa e all’Occidente definendole «retorica anti-Nato agitata con forza [da Putin] nel febbraio 2022»  e  ben accolte, specie in  Italia, dai populismi cresciuti in Occidente [5] o le  minimizza  o le trascura (tra quelle che ho letto, ad es., neppure cita quelle di Chomsky) [6] contrapponendovi «alcuni fatti incontrovertibili» a suo parere[7]; – minimizza pure la persecuzione della popolazione russa del Donbass [8];  – ritiene «assurda» la tesi  della «denazificazione» dell’Ucraina[9]; – non concede nessun credito ai discorsi sull’umiliazione della Russia dopo  il 1989 (una umiliazione, dunque, dettata soltanto dalla paranoia della sua classe dirigente? Ma l’Urss era scomparsa o no? E il  malessere della sua società  era dovuto soltanto a fattori endogeni?); – respinge – e su questo gli do ragione – ogni analogia tra situazione della Germania dopo la Prima Guerra Mondiale e situazione della Russia dopo  Gorbaciov;[10]  –  sostiene che,  al momento del crollo dell’Urss, ci sia stato un aiuto alla Russia da parte degli USA non indifferente e quasi disinteressato.[11]
A me pare di cogliere anche  un sottile senso di superiorità quando sottolinea una sorta di atavica “cattiveria” dei russi e quando parla di un’«emersione di un discorso apertamente genocidario» mai commisurandolo ad altre guerre occidentali.[12]
Sulla natura del conflitto in atto Graziosi non ha dubbi: nasce dalla volontà di Putin  di imporre un rapporto coloniale all’Ucraina.[13] E dal suo  sfrenato odio per ogni forma di democrazia. Il vero motivo che lo ha spinto ad invadere l’Ucraina  va cercato nelle chiare intenzioni  dell’Ucraina  di allearsi con una Europa  che si stava consolidando politicamente.[14]  E Putin ha approfittato –  ma sbagliando i suoi calcoli – di un momento ritenuto a lui favorevole (a causa del ritiro degli Usa dall’Afghanistan)[15]. Quanto alle prospettive incerte sull’esito di questa guerra, Graziosi pensa che o si formerà la Grande Russia o una nazione russa forse democratica,[16] mentre per l’Ucraina prevede uno Stato associato all’UE.[17]. 

La storia dei rapporti tra russi e ucraini che Graziosi offre è di un certo interesse ma trovo insoddisfacenti vari giudizi sul periodo della rivoluzione russa.  Graziosi  riconosce alcune eredità positive del regime socialista.[18] E sottolinea giustamente la falsa continuità tra impero zarista, Urss e Russia-nazione,[19] ma non sfugge alla ormai  consolidata liquidazione dell’esperienza del comunismo sovietico. Anzi considera – contraddittoriamente con la tesi appena riferita della non continuità tra zarismo, Urss e attuale Russia –  proprio quella rivoluzione alle origini della situazione d’oggi [20]. Dà, dunque, un giudizio negativo non solo della posizione ostile di Stalin[21]  nei confronti degli ucraini ma anche di quella di Lenin. [22]. Elogia, dunque, solo il periodo di Gorbaciov[23] e il carattere plurale e democratico dei processi in Ucraina, presentati  interamente come giusta lotta contro l’autocrazia di Putin. [24]
Concludendo. E’ un bene che ci sia una divulgazione sulla storia di tanti Paesi che in Italia viene ignorata o studiata superficialmente e in fretta solo  a ridosso di qualche tragedia. E tuttavia questo libro – per quel che dice e per quel che evita di approfondire – non mi è piaciuto per il suo unilateralismo. E mi ha dato soprattutto l’impressione che abbia voluto dare ancora un colpo al residuo  legame col mito della rivoluzione russa e dell’Urss grande potenza presente nei resti della sinistra italiana.

 

 

 

Note
I riferimenti alle pagine da cui ho tratto le citazioni mancano perché ho letto il libro in epub.

[1] Graziosi appare nettamente schierato con la posizione “interventista” filoccidentale: «la resistenza ucraina è stata inattesa quanto straordinaria, anche perché capace nelle prime settimane di tenere e vincere essenzialmente da sola (benché l’appoggio dell’intelligence americana sia stato probabilmente subito importante). Grazie a un sorprendente Biden, a un mondo anglosassone radicalmente schierato a fianco di Kyïv, e a governi europei che, malgrado la forza politica dei sovranismi e degli interessi russi in Europa, hanno alla fine, anche con convinzione, appoggiato l’Ucraina, quella resistenza ha poi trovato solide retrovie, mentre la Russia veniva colpita da sanzioni certo non perfette (nessuna sanzione pare lo sia), ma capaci di arrecare danni significativi anche alle sue catene produttive».

[2] Secondo Graziosi, a partire dal 2007, Putin ha cominciato ad insistere nei suoi discorsi su un «mondo russo» e sulla lingua russa  «come cemento dello «spazio vivo di milioni di persone», cioè di una comunità che si estendeva al di là dei confini della Russia». Egli ha poi progressivamente irrigidito il mito della «grande guerra patriottica» e della vittoria sul nazismo del 1945, «posto alla base del discorso legittimante del nuovo Stato» già presente nell’era brežneviana. Graziosi ricorda anche che nel 2020 tra le personalità raffigurate nei mosaici della nuova cattedrale delle forze armate russe, dedicata alla resurrezione di Cristo, nel grande Parco del Patriota, c’era, oltre all’immagine di Stalin, quella  (poi modificata) di un Putin che restituiva la Crimea alla Russia. E commenta con un pizzico di superiorità: «la figura di Putin, che ci ricorda la grande importanza del ruolo della personalità soprattutto quando un paese ha la sventura di cadere sotto il dominio, che non esclude elementi di fascinazione, di un solo uomo, la cui psicologia acquista così grandissimo rilievo». Ricorda pure le dichiarazioni autocelebrative di Putin, il peso avuto nella sua formazione da «un’educazione di strada violenta e prepotente» e «maschilista», i «tanti omicidi di giornalisti, oppositori interni, nemici politici e «traditori»», «le terribili storie sulla seconda guerra cecena», «il tragico destino di Groznyj», la crescente e ossessiva passione per la storia. Lo definisce «un uomo pericoloso, per il quale la violenza era un’arma lecita e anche piacevole da usare». Per Graziosi è un «presidente-zar» fondatore di una nuova Russia, o meglio rifondatore di una nuova versione della Russia eterna». Molto simile a «Stalin che scriveva e riscriveva (o faceva scrivere e riscrivere, ma sempre partecipando attivamente) la storia del partito, quella dei grandi zar, o quella del rapporto tra popoli e lingue». Ne ricorda, però,  anche il «virulento antileninismo» e l’ammirazione per Anton Denikin, e «Ivan Il’in, il principale ideologo, fascista, del movimento bianco in esilio», anche se al momento è dubbio che Putin approvi apertamente l’antisemitismo. Il ritratto psicologico di Putin si conclude così: «Già di fatto passato alla storia per i suoi venti e più anni di potere, il Putin di oggi si vuole insomma uomo solo al comando. Egli si vede come il predestinato capace di ricostruire e proteggere un suo mondo russo, il portatore di un sogno di grandezza la cui realizzazione lo renderebbe, più che personaggio storico, zar rifondatore di un universo che egli stesso è stato chiamato ad annunciare e interpretare nei suoi scritti storici e nei suoi discorso». Il che a me pare si possa dire anche per altri capi di Stato. Anche se, correggendo lievemente il suo unilateralismo, Graziosi aggiunge: «Come, ahimè, altri politici di un Occidente – o meglio di un mondo bianco – in crisi, e che con questa crisi non vuole fare i conti, egli [Putin] è quindi, forse, anche la manifestazione di una nuova ma diversa «era delle tirannie», per riprendere il titolo di un acutissimo saggio di Élie Halévy». O almeno di un ritorno «alla politica di potenza e delle grandi potenze, con le loro sfere di influenza, di cui i segni erano già chiari nel 2007».

[3]Graziosi vede nell’idea di una «grande Russia» di Alessandro III e nel nazionalismo bianco di Denikin  e più recentemente nei discorsi svolti attorno al 1990 di  Solženicyn  i possibili precedenti del Russkij mir putiniano, che – precisa «non solo per la sua dimensione imperiale o eurasiatica, non è un progetto puramente etnonazionale»: «si tratta di un nazionalismo non strettamente etnolinguistico, anche se fa un uso spesso ingenuo e semplicistico di questo elemento». E aggiunge: «Come già l’impero degli zar, e poi l’Urss di Stalin (che, come sappiamo, aveva definito la Russia un «continente»), il «mondo russo» di Putin è sì russocentrico e guidato da Mosca, ma non è solo russo. Esso è a suo modo un universo che si ritiene un mondo a parte, diverso dall’Europa ma anche da altri «mondi», o civilizzazioni, come avrebbe detto Arnold J. Toynbee inseguendo Oswald Spengler». Il progetto di Putin è al contempo un «antioccidentalismo reazionario» che risale all’Ottocento e un «anticomunismo», anche se salva lo Stalin del 1945 e coerentemente ha perseguitato con accuse infamanti Memorial, «l’organizzazione che tanto ha fatto per portare alla luce le repressioni staliniane». Per questa ambiguità nei confronti di Stalin Graziosi accosta Putin al “rossobrunismo”. E, sempre nell’ottica prevalente di una storia dell’ideologia,  si dilunga sui filoni nazionalistici e panslavisti: – il neo-eurasiatismo o «eurasiatismo post-sovietico, nutrito dal pensiero di Lev Gumilëv, a sua volta originale rielaboratore delle tesi dell’eurasiatismo nazionalista e anticomunista degli anni Venti e Trenta», e per Graziosi  contraltare dello «scontro di civiltà» di Samuel Huntington. Graziosi  propone dei ritratti concisi di  vari teorici a cui Putin avrebbe attinto per la sua dottrina. Tra cui Žiri­novskij, orientalista e di padre ebreo, fondatore, al momento del collasso dell’Urss, del Partito liberaldemocratico russo e che già alle elezioni presidenziali russe del 1991,  aveva incentrato la sua campagna elettorale sulla «questione russa», sfruttando per primo in maniera sistematica il tema dell’umiliazione di una Russia, definita «la più oltraggiata («sputata sopra») delle nazioni, riuscendo così a prendere quasi l’8% dei voti, diventati il 23% alle elezioni parlamentari del 1993». E poi Dugin, nemico della società aperta e della globalizzazione, definito da Graziosi «uno dei più volgari tra i nuovi geopolitici russi di fede eurasiatista […] diventato, forse non a caso, famoso in Italia, dove i suoi seguaci diretti hanno anche una rivista che vale quel che vale».   E poi ancora Panarin, vincitore nel 2002, poco prima di morire, del premio Solženicyn col suo La civilizzazione ortodossa in un mondo globalizzato, teorizzatore di una Russia comunque astorica «forse più arretrata economicamente ma diversa più che sottosviluppata, e comunque spiritualmente molto più avanzata di un Occidente ubriaco di tecnologia e corrotto in quanto selvaggiamente «capitalistico», responsabile dei mali della Russia e colpevole di portare l’umanità alla distruzione».

[4] Graziosi si sofferma anche sul connubio tra trono ed altare, tra Putin e il patriarca Kirill, «anche lui in passato collaboratore dei servizi sovietici». E cita il sermone, ai suoi occhi assurdo e complottista,  tenuto dal secondo il 6 marzo, in appoggio all’invasione dell’Ucraina, dove tra l’altro il patriarca  ha sostenuto che, «per vedersi ammettere nel mondo dei potenti occidentali, un «mondo di consumo eccessivo [e] di apparente libertà», andrebbe pagato uno scotto «semplice e al tempo stesso terrificante». Bisognerebbe, cioè, organizzare «una parata del Gay Pride [come] prova di lealtà a quel mondo molto potente». Graziosi denuncia anche  che «negli ultimi anni il Patriarcato di Mosca si sia impegnato, col sostegno del regime putiniano, a costruire e guidare una nuova «Internazionale» moralista e nazionalista, che proclama di voler difendere i valori cristiani in una crociata globale contro liberalismo, secolarismo, femminismo e ideologia di «genere», una crociata diretta in primo luogo contro l’Unione Europea». Ma non si capisce perché parli di «una riedizione su scala ridotta, e ispirata a valori completamente opposti, del grande internazionalismo comunista, che aveva nella Mosca bolscevica il suo centro». Se è di segno opposto, perché l’accostamento? Graziosi riporta anche le critiche  di scarso spirito cristiano a Kirill venute dall’interno del mondo ortodosso globale, e persino tra gli ucraini che riconoscevano l’autorità di Mosca: «Kirill è stato definito un eretico da centinaia di teologi ortodossi per aver esaltato una guerra che opponeva due popoli ortodossi».

[5] «Il lamento sul crollo di questa Urss-Russia storica si accompagnò alla demonizzazione degli anni Novanta, l’inferno del mercato selvaggio e del gangsterismo (che, come vedremo nella seconda parte, affondavano in realtà le loro radici nel passato sovietico) nonché dell’umiliazione nazionale. A questo inferno, che si pretese creato da un «Occidente spietato», fu contrapposta l’idealizzazione di quella Russia al tempo stesso storica ed eterna». Per Graziosi questo dell’umiliazione era ed è «un discorso falso ma potente e creduto, e che perciò diventava «vero», come i discorsi dei neopopulismi occidentali che hanno presentato una crisi oggettiva, e in larga parte causata da comportamenti collettivi, come il frutto delle macchinazioni di élite malvage. Esso ha abbagliato e abbaglia, ad esempio, i tanti che avevano psicologicamente sopportato la modernità inferiore sovietica, con le sue miserie, i suoi limiti e la sua repressione, compensandola col prestigio e la grandezza che essa aveva assicurato al paese, una grandezza e un prestigio effettivamente venuti meno tra perestrojka, crollo sovietico e difficoltà iniziali della nuova Russia. Ma non solo loro. Come ha scritto Alexis Berelowitch, la subitanea realizzazione che la Russia era molto più povera dell’Occidente si accompagnò presto, anche in parte delle élite russe, a «un profondo rancore nei confronti di un Occidente che non faceva nulla per aiutare».

[6] «Rinverdendo una vecchia tradizione filorussa e ripetendo gli argomenti usati dagli studiosi antioccidentali o filorussi per spiegare gli inizi della guerra fredda, alcuni hanno guardato a Ovest, sottolineando il contesto internazionale e un’aggressiva postura occidentale (o specificamente statunitense) che avrebbe cercato impropriamente l’egemonia militare e vantaggi di mercato, causando così l’inevitabile (e comprensibile) reazione di Mosca. Altri indicavano le difficoltà degli anni Novanta e i fallimenti del «liberalismo russo» (un concetto che trovo sbagliato e fuorviante) in quegli anni, soprattutto ma non solo in campo economico».

[7] Ecco gli argomenti, che andrebbero controllati con rigore (cosa che non sono in grado di fare) di Graziosi:

1) «nel 1990 non ci fu alcuna «promessa» formale, e men che meno alcun testo, che impegnasse la Nato a non allargarsi. Si trattò piuttosto di ragionamenti ipotetici sull’unificazione tedesca, tenuti a febbraio da James Baker e Eduard Ševardnadze, in cui il primo chiese al secondo se preferiva una Germania unita fuori dalla Nato, indipendente e senza forze americane a controllarla, o una Germania unita legata ad una Nato che non si sarebbe spostata verso Est96. Erano inoltre ragionamenti fatti con il ministro degli Esteri di uno Stato che l’anno dopo avrebbe cessato di esistere. Prima di scomparire esso avrebbe fatto in tempo a firmare a novembre la carta di Parigi, che riconosceva «la libertà degli Stati di scegliere le proprie disposizioni in materia di sicurezza», il principio generale che tutti dovrebbero rispettare per non tornare a un mondo di grandi potenze e Stati cuscinetto»;

2) «a fronte di quei ragionamenti informali sta il trattato di Budapest del dicembre del 1994, firmato da una nuova Russia che si impegnava formalmente a riconoscere e garantire l’inviolabilità dei confini ucraini in cambio della consegna a Mosca, finanziata dagli Stati Uniti, delle circa 4.000 testate nucleari ucraine. All’inizio dello stesso anno la Russia di El’cin era diventata uno dei primi membri della Partnership for Peace, tesa a costruire fiducia tra i paesi Nato e gli altri Stati europei, inclusi quelli post-sovietici»;

3) «nel maggio 1997 Nato e Russia firmarono a Parigi un atto costitutivo che stabiliva i passi verso la cooperazione, dichiarava che «la Nato e la Russia non si considerano avversarie» e riconosceva di nuovo «il diritto intrinseco» di tutti gli Stati «a scegliere i mezzi per garantire la propria sicurezza». Mosca vi accettava l’espansione dell’Alleanza atlantica (Ungheria, Polonia e Repubblica ceca furono allora invitate ad entrarvi), in cambio della rinuncia da parte di quest’ultima a dispiegare permanentemente «forze di combattimento significative» e armi nucleari in Europa orientale. L’anno successivo la Russia entrava formalmente nel G7, ribattezzato per l’occasione G8»;

4) «è vero che i bombardamenti della Nato della primavera 1999, fatti per frenare i serbi in Kossovo ma non autorizzati dalle Nazioni Unite, peggiorarono considerevolmente i rapporti tra l’Alleanza atlantica e una Mosca che guardò allora con più favore all’Unione Europea, vista come faccia pacifica dell’Occidente. Nel 2002, tuttavia, anche in conseguenza della lotta comune al terrorismo islamico, Nato e Russia costituirono un consiglio consultivo congiunto, sviluppando ulteriormente la Partnership for Peace e ponendo le basi per l’ingresso nell’Alleanza di Romania, Bulgaria, Slovacchia, Slovenia e paesi baltici»;

5) «quando a Bucarest, nell’aprile del 2008, Bush jr. auspicò l’ingresso della Georgia e dell’Ucraina nella Nato, Francia e Germania espressero grande freddezza, e si seppe presto che il «benvenuto» dato alle aspirazioni euroatlantiche dei due paesi nel comunicato finale era solo di cortesia»;

6) «soprattutto, che la Nato non costituisse una minaccia, per di più crescente, è confermato dai fatti. Per preparare l’invasione dell’Ucraina la Russia ha ammassato truppe ai suoi confini per mesi. Al contrario, i 315.000 soldati americani in Europa del 1989 erano diventati 107.000 nel 1995 e circa 60.000 nel 2006, rimanendo su questo livello fino al 2021. Il dato, da solo, basta a smentire ogni disegno aggressivo e a svelare la natura pretestuosa dell’appello alle ragioni della difesa preventiva».

[8] «Putin ha giustificato la sua «operazione militare speciale» anche con la necessità di fermare il «genocidio [antirusso] in corso da otto anni» nel Donbas. Nella regione ci sono però dal 2014 centinaia di osservatori Osce e i loro dati, non contestati, parlano chiaro: le vittime civili nel Donbas, di entrambe le parti, sono state 2.084 nel 2014, l’anno della guerra aperta; 954 nel 2015; 112 nel 2016; 117 nel 2017; 55 nel 2018; 27 nel 2019; 26 nel 2020; e 25 nel 2021. Troppe, naturalmente, ma certo non tali da poter sostenere l’accusa di genocidio».

[9] «Anche la scelta del termine «denazificazione», che sa di assurdo nei confronti di un paese che aveva appena votato a forte maggioranza per un presidente di origine ebraica, affonda le sue radici nel desiderio di conquistare consensi all’estero, dove il nazionalismo ucraino più conosciuto è stato a lungo quello integrale dei «banderisti», schieratosi come sappiamo negli anni Trenta con Italia e Germania per rovesciare il verdetto di Versailles. Ha contato però in questo caso anche la decisione di riallacciarsi alla vittoria del 1945 contro il nazismo come retorica fondante del nuovo Stato russo, capace di suscitare emozioni anche all’interno del paese. È molto significativa, e annunciatrice di lutti, anche la scelta di riallacciarsi a un discorso sovietico cominciato con la decosacchizzazione del 1919, che prevedeva la fucilazione di una significativa percentuale dei maschi cosacchi che si opponevano al potere rosso. Esso era poi continuato con la dekulachizzazione del 1930, che includeva la fucilazione dei maschi delle famiglie «kulak» (cioè contadine) classificate come di prima categoria, e aveva certo pesato anche nella «depolonizzazione» (un termine che non fu usato) attuata coi massacri degli ufficiali polacchi del 194098. Esso era poi continuato con la dekulachizzazione del 1930, che includeva la fucilazione dei maschi delle famiglie «kulak» (cioè contadine) classificate come di prima categoria, e aveva certo pesato anche nella «depolonizzazione» (un termine che non fu usato) attuata coi massacri degli ufficiali polacchi del 1940»

[10] «Il discorso resta però falso e sbagliato. La Germania di Versailles, sottoposta a vessatorie riparazioni economiche, tagli territoriali, rigidi controlli sulle forze armate e umiliazioni di ogni tipo, nonché esclusa dalle organizzazioni internazionali, aveva reali ragioni di sentirsi vittima di politiche persecutorie, che non furono affatto applicate a una Mosca che scelse liberamente, a Belaveža, di sciogliere l’Urss, la cui esistenza Washington cercò di sostenere finché fu possibile, come dimostra il famoso Chicken Kiev speech tenuto da George H.W. Bush il 1° agosto 1991. Qui invece un discorso vale come prova assoluta( mentre  prima  le promesse a Shevernaze…Diversamente dalla Germania, alla Russia non fu imposta alcuna riparazione (le furono anzi concessi aiuti consistenti, anche se non nella misura sperata) e non fu tolto alcun territorio. Essa venne inoltre presto ammessa nel club dei grandi (nel 1997 il G7, che riuniva i più grandi paesi del mondo, fu ribattezzato G8 proprio a seguito dell’ammissione della Russia), e al suo esercito non fu imposto alcun tetto. Analizzeremo poi le proteste di Putin sull’espansione della Nato, ma ho già ricordato nell’introduzione che nel 1994 la Russia ricevette, grazie al sostegno politico e finanziario americano, le circa 4.000 testate nucleari ucraine (oltre a quelle kazake), in cambio delle quali si impegnò formalmente a garantire i confini della repubblica sorella. La storia è cruciale perché indica quali fossero i sentimenti, filorussi, degli Stati Uniti negli anni Novanta, rivela la malafede della Mosca odierna, e suscita non poca amarezza in una Kyïv che si fidò allora degli impegni di russi, americani e inglesi, i garanti degli accordi di Budapest». Questa tra le argomentazioni di Graziosi mi pare la più consistente, anche se non credo che i sentimenti filorussi degli Usa c’entrino.

[11] «Anche il quadro di amaro malessere e sofferenza sociale presentato dalla Russia degli anni Novanta, senz’altro reale (ma non va dimenticato che le risorse naturali del paese lo resero meno tetro di quanto non fosse in paesi, come l’Ucraina, che di quelle risorse erano privi), non era il frutto della perversione o del «contagio» occidentali. Come vedremo meglio nella seconda parte, esso era piuttosto il prodotto del passato sovietico, certo ora aggravato dal collasso. dello Stato tanto in campo demografico quanto in materia di alcolismo. Lo stesso valeva per l’emersione e poi l’esplosione di un mercato nero e di una imprenditoria per decenni criminalizzata e abituata alla clandestinità, e quindi anche usa a comportamenti devianti, in una società priva di regole, leggi e cultura in grado di regolare il mercato».

[12] «Lo dimostrano le reazioni alle difficoltà sulla televisione russa, i cui dibattiti passeranno probabilmente alla storia. Lo dimostra soprattutto il comportamento sul campo di alcuni reparti russi, coi tanti crimini di guerra già senza dubbio accertati che rendono difficile capire se accanto ad essi non stiano in realtà già emergendo le prime evidenze di una sistematica e pianificata operazione di «denazificazione» condotta sin dal primo giorno.

Lo dimostra soprattutto la svolta genocidaria del discorso russo: gli ucraini, già fratelli costretti con la forza a guardare a Occidente da piccoli gruppi corrotti, vengono sempre più visti come corrotti essi stessi, e tanto più odiosi perché fratelli e quindi traditori. Il rischio, concreto, è la riemersione della presenza del genocidio nella storia sovietica, una presenza con cui non è stato fatto nessun conto, e che potrebbe orientare ora anche il corso della storia russa, dando alla «denazificazione» nei territori occupati un significato ancora più sinistro.».

E ancora: «L’esempio più illuminante dell’emersione di un discorso apertamente genocidario è forse costituito da un articolo apparso a inizio aprile su «Ria Novosti» e dedicato a cosa la Russia avrebbe dovuto fare con l’Ucraina103. L’autore, Timofej Sergejcev, vi teorizzava un nuovo tipo di denazificazione dell’Ucraina, reso necessario dal fatto che «una parte significativa della popolazione – molto probabilmente la sua maggioranza – era stata conquistata e attratta dal regime nazista e dalle sue politiche». In Ucraina, insomma, non si poteva più sostenere che il popolo era buono e il governo cattivo, perché quel popolo sosteneva e condivideva le politiche antirusse. Dopo la sconfitta e la massima distruzione possibile di chi si opponeva a Mosca con le armi, la denazificazione doveva quindi mirare a colpire la «massa nazificata» della popolazione attraverso una rieducazione diretta dalla Russia vincitrice senza indulgere nel liberalismo. Essa ne doveva quindi assumere il pieno controllo, rendendo a lungo impossibile la concessione di qualunque sovranità a ciò che sarebbe restato dell’Ucraina.»

[13] «Non possiamo vivere gli uni senza gli altri». Il concetto era stato poi ripreso e allargato nel «saggio storico» del luglio 2021, probabilmente davvero composto, almeno in parte, dallo stesso Putin, dove si spiegava come e perché russi e ucraini fossero parte della «stessa nazione», sottintendendo che solo se avessero accettato questa realtà gli ucraini avrebbero potuto godere di un qualche riconoscimento della loro peculiarità. Come ha osservato Timothy Snyder, queste idee non solo esplicitano il carattere anche «coloniale» del rapporto russo-ucraino nella concezione di Putin, ma aprono una finestra sulla visione potenzialmente genocidaria che essa ha in sé, visto che si basa sul negare a un altro popolo, che lo desidera, il diritto di esistere in quanto tale».

[14] Ho detto che Graziosi respinge come retorica, giustificazionista e propagandistica la tesi di una invasione dell’Ucraina per «arginare l’espansione della Nato ai confini russi». E che trova del tutto sbagliata la scelta di Putin: «ha infatti già portato al riarmo tedesco e alla richiesta di Finlandia e Svezia, intimorite dal comportamento russo, di entrare nell’Alleanza atlantica. E non è escluso che l’aggressione all’Ucraina non solo rafforzi la Nato sul breve periodo, ma le dia anche una nuova vita, basata su una nuova legittimazione la cui mancanza ne stava determinando il deperimento». A questa tesi contrappone la sua, che si riassume nel contrasto democrazia-autocrazia: «In realtà, malgrado le apparenze, credo sia fondato sostenere che quello che Mosca davvero temeva non era l’espansione di una Nato indebolita e priva di scopi (del resto, se davvero ne avesse avuto paura non avrebbe agito con tanta arroganza). Piuttosto, il pericolo era costituito dalla stessa Ucraina, che seguiva una sua via e aveva scelto di guardare a Occidente, preferendo l’Europa, con tutte le sue depravazioni, al gerarchicamente ordinato – almeno nelle illusioni dei suoi promotori – mondo russo. Da questo punto di vista il pericolo reale è quello costituito dall’Unione Europea e dalla sua cultura, contro cui la Mosca di Putin combatteva da tempo sostenendo e finanziando i movimenti «sovranisti».

[15] I calcoli (sbagliati) di Putin: «La convinzione del declino dell’«Occidente» era inoltre rafforzata dal giudizio sprezzante sulla sua corruzione, anche morale, durissimo in particolare nei confronti dell’Unione Europea, con i suoi omosessuali, i suoi giovani degenerati, il suo rifiuto degli armamenti e delle «virtù militari e patriottiche», i suoi uomini politici e alti funzionari pronti a corteggiare Mosca e persino a servire la Russia in cambio di qualche prebenda, i suoi uomini d’affari, piccoli e grandi, ansiosi di vendere qualunque cosa la Russia desiderasse ecc.».

«Nel discorso che ha accompagnato il lancio dell’invasione il 24 febbraio, Putin ha rafforzato queste considerazioni generali con tre giustificazioni specifiche del suo operato, accomunate dal presupporre l’inevitabilità e la giustezza dell’azione «preventiva», un modo di ragionare che rimanda a quello staliniano senza per questo essere identico ad esso. Si tratta della necessità di una «legittima difesa» preventiva contro una Nato che prepara il colpo alla Russia; della necessità di prevenire il «genocidio» dei russi nel Donbas, un genocidio presentato come effettivamente in corso; e del bisogno di «denazificare» l’Ucraina prima che sia troppo tardi, e l’Occidente riesca nel suo intento di rinsaldare un’anti-Russia da usare contro Mosca.»

[16]  «In altre parole, sarà l’esito della guerra con l’Ucraina a determinare quale prevarrà, e in che forma o combinazione, tra le ideologie che lo sorreggono. E se non c’è dubbio che Putin preferirebbe un’edizione aggiornata dell’idea di una «grande Russia» più che un rinnovamento del nazionalismo bianco grande-russo, la seconda resta un’opzione possibile (mentre la sconfitta frontale nel conflitto con l’Ucraina, e una a quel punto probabile caduta del nuovo zar, potrebbe riaprire le porte a un’opzione nazionale russa più moderata e sperabilmente aperta e democratica, come era quella di Egor Gajdar).».

[17] «Il destino dell’Ucraina è abbastanza chiaro, e dipende dall’esito della guerra. Vi sarà probabilmente uno Stato ucraino più o meno grande, a seconda del verdetto sul campo di battaglia, uno Stato che sarà in qualche modo associato all’Unione Europea e quindi legato, anche grazie alla retorica con cui ha combattuto contro Mosca, al discorso liberaldemocratico, uno Stato i cui abitanti avranno la libertà di scegliere la loro vita. Sarà però anche uno Stato impoverito, mutilato e comprensibilmente amareggiato. Occorrerebbe quindi un grande sforzo per aiutarlo a superare un trauma durissimo, uno sforzo che l’Unione Europea sarà capace di fare nella misura in cui supererà i suoi problemi affrontando la nuova realtà in cui è chiamata a vivere.»

[18] «ll socialismo sovietico lasciò a entrambi i paesi anche un sia pure più piccolo nucleo positivo, fatto di elementi immediatamente visibili e di altri la cui importanza è emersa col tempo e in forme diverse. Pensiamo per esempio all’«umanesimo sovietico», simbolizzato dal generale rifiuto dell’uso della violenza, che accomunò buona parte delle élite tardo-sovietiche, inclusa la maggioranza dei golpisti dell’agosto 1991. Forte è qui la differenza con la Jugoslavia e, specie alla luce degli sviluppi successivi, impressiona quanto a lungo esso abbia resistito in Russia a pressioni che furono subito molto potenti. Ma pensiamo anche alla questione, cruciale, della lingua. Come vedremo, la trasformazione del russo in lingua veicolare del mondo sovietico ha contribuito non poco, soprattutto tra i non russi, a quella sua «de-etnicizzazione» che ha tratto in inganno Putin e tanto ha contato nell’evoluzione ucraina, un fenomeno che si può in parte capire se si pensa alla storia dell’inglese in Occidente, e non solo, negli ultimi decenni.»

[19] «Questa identificazione, filologicamente e storicamente infondata, tra impero zarista, Urss e una Russia intesa come Stato-nazione è stata ed è ancora frequentissima, e non solo nel discorso comune o sui media. Ad essa contribuiscono anche i titoli, e talvolta i testi, di importanti storici e politologi, che non solo si impedirono (e si impediscono) così di capire la storia e il presente, ma contribuirono (e contribuiscono) indirettamente ad alimentarne i conflitti, sposandone inconsciamente una delle parti. Se Lenin e Stalin l’avrebbero condannata severamente, molti grandi uomini politici e militari zaristi, a partire dai baroni baltici, semplicemente non l’avrebbero capita.»

[20] Nella critica a Putin e al neo euroasiatismo Graziosi coinvolge anche la Rivoluzione d’ottobre. Parla «delle tragedie causate dal 1917», tragedie che sembrano ora ripetersi: « la realtà sembra essere quella di un disastro, di una Russia che, dopo aver «perso» per colpa del bolscevismo il XX secolo (l’espressione, ricordiamolo, è di Solženicyn), rischia ora di perdere il XXI per colpa di Putin e delle sue politiche». Graziosi sposa in pieno la tesi del retaggio comunista : «L’idea che il passato sovietico e zarista continuasse a vivere, evolversi e operare nel presente si è così gradualmente rafforzata, acquisendo un’importanza crescente in parallelo con la sgradevole evoluzione del regime russo post-sovietico. Come ha notato Stephen Hanson, «il potere duraturo dei retaggi istituzionali comunisti e persino pre-comunisti nel plasmare gli esiti post-comunisti» divenne quindi per molti «innegabile».

«Nel periodo ottimistico che si estende dalla metà degli anni Ottanta a quella degli anni Novanta, tuttavia, questo potere era stato sottovalutato. Gli studiosi occidentali «revisionisti» del quindicennio precedente ne sono almeno in parte responsabili. Uno dei loro principali obiettivi era stato infatti quello di normalizzare l’esperienza sovietica: per molti essa era semplicemente un’altra variante della modernizzazione, e alcuni arrivarono a sminuire persino il terrore stalinista e a sorvolare su argomenti come le carestie del 1931-1933, la seconda guerra mondiale sul fronte interno e le gravi repressioni del 1945-1953, dominate nella loro fase finale da una ripugnante ondata di antisemitismo omicida113. Alcuni dei tratti distintivi e degli esiti peculiari dell’esperienza sovietica sono stati quindi, e a lungo, sottovalutati.»

«Il legame tra questi esiti peculiari e i principi socialisti del gruppo dirigente bolscevico è stato invece sottolineato dall’interpretazione «neotradizionale» della storia sovietica. Nonostante le critiche di cui è stata fatta oggetto, la teoria delle «modernità multiple» di Shmuel Eisenstadt sembra quindi avere un nucleo solido, specialmente se si prendono in considerazione le due modernità, quella sovietica e quella «occidentale» – entrambe originate nel mondo bianco ma profondamente diverse tra loro –, che si sono contese la Terra durante la guerra fredda. Anche se si può simpatizzare con la posizione morale di coloro che trovano ripugnante associare la parola «socialismo» alla variante sovietica, e specialmente alla sua fase stalinista, la parola è in effetti appropriata per uno Stato che si vantava fondatamente di essere il primo Stato socialista, che si faceva chiamare Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, e che negava fermamente di aver già costruito il comunismo (spiegandone anche le ragioni). Un gruppo di veri credenti cercò inoltre di costruirvi il socialismo, riuscendo a generare un sistema sociale ed economico molto diverso da quello occidentale, che trovò per alcuni decenni, dopo il 1945, ammiratori e imitatori in tutto il mondo, facendo dell’Urss la guida di quello che si autodefiniva il campo socialista

«Purtroppo, la maggior parte degli storici non partecipò però al dibattito sull’eredità del passato sovietico, anche per l’attrazione allora esercitata dall’eccitante opportunità fornita dagli appena aperti archivi sovietici, che li stava portando a fare importanti scoperte sullo stalinismo come sulla guerra civile o il secondo dopoguerra. Tuttavia, quando si parla di eredità, e quindi di passato, i contributi degli storici sono fondamentali. In questa parte mi sono quindi proposto di attingere alle conoscenze, ai pensieri e alle riflessioni che ho accumulato scrivendo all’inizio del nuovo millennio una storia generale dell’Urss che mi ha costretto a fare i conti, per quanto ho saputo e potuto, con i risultati della migliore storiografia dei quindici anni successivi all’apertura di quegli archivi».

[21] Insiste sulla violenta russificazione dell’Ucraina ai tempi di Stalin: «In Ucraina il successo di questa russificazione «dolce» fu facilitato anche dalle precedenti politiche repressive, quelle dure dell’impero zarista così come quelle durissime di Stalin. Dopo la rivolta polacca del 1863-1864 la città di San Pietroburgo, che ne temeva l’eco in terre ucraine dove la nobiltà polacca giocava ancora un ruolo cruciale, emise a due riprese provvedimenti che ostacolarono grandemente la crescita e la maturazione dell’ucraino, vietando per esempio la stampa di libri in un «dialetto» cui non era riconosciuto lo status di lingua. Dietro c’erano anche le teorie «panrusse» di Alessandro III, su cui torneremo perché sono una delle fonti ispiratrici della Mosca di Putin: pur rinunciando ai sogni panslavi, ritenuti irrealistici, lo zar riteneva ancora possibile tenere unite, anche con la repressione e i divieti, incluso quello dell’insegnamento, le lingue e le culture slavo-orientali russa, bielorussa e «piccolo russa»».

«Nell’estate del 1932, di fronte alla paura di «perdere l’Ucraina» (come scrisse in una lettera a Lazar Kaganovič), Stalin decise di assestare alla repubblica il doppio colpo di una carestia sterminatrice e dell’eliminazione sistematica della sua élite (accusata di nuovo di essere sostanzialmente una marionetta polacca). Ciò fu accompagnato anche da interventi diretti e mirati sulla lingua, tesi ad avvicinarla al russo e a distorcerne e limitarne lo sviluppo. Sul successo di queste politiche terribili fu poi costruito quello della più moderata russificazione successiva al 1953, che produsse la situazione ereditata dalla nuova repubblica dopo l’indipendenza: un paese con una forte minoranza etnica russa e in cui la grande maggioranza degli ucraini era bilingue e comunque in grado di comprendere perfettamente un russo de-etnicizzato perché veicolare, nonché usa a passare senza problemi da una lingua all’altra e a fare ricorso al già ricordato suržik (cfr. ancora fig. 4)».

[22] «Lungi dal «creare» l’Ucraina, insomma, Lenin represse dapprima con relativo successo gli sforzi di costruire un’Ucraina indipendente, che fu poi rivitalizzata dall’invasione tedesca e dal trattato di Brest-Litovsk del marzo 1918, quando Mosca fu costretta ad accettare l’indipendenza del paese. Crollata la Germania a novembre, le truppe rosse tornarono a occupare Kyïv, ma il secondo governo bolscevico ucraino fu presto travolto da una gigantesca ondata di rivolte che univano questione nazionale e questione sociale: i contadini si sollevavano contro le requisizioni e i primi tentativi di collettivizzare la terra ma anche contro il disprezzo per le cose ucraine dimostrato dai bolscevichi e la loro politica di repressione della lingua e della cultura locali.»

«Queste grandi rivolte convinsero Lenin e Trockij che la mobilitazione popolare innescata da guerra, rivoluzione e guerra civile aveva contribuito a radicare nei villaggi il «discorso» ucraino elaborato dai gruppi intellettuali nazionalisti, socialisti e populisti nei decenni precedenti. Lenin, in particolare, si convinse che non era possibile vincere e stabilizzare la vittoria senza in qualche modo riconoscere l’identità ucraina, come scrisse con chiarezza in una lettera segreta di fine 1919 in cui raccomandava:

In questa luce, il Lenin che prima sconfigge e reprime il tentativo ucraino di creare uno Stato indipendente, e poi favorisce la costruzione di un suo surrogato manipolato da Mosca, è paradossalmente simile al primo Putin, quello che si proponeva di controllare l’Ucraina attraverso Janukovyč. E la pressione esercitata dallo stesso Lenin sui dirigenti stalinisti del Donbas (che come i bianchi preferivano parlare di «regione sud-occidentale» piuttosto che di Ucraina) perché accettassero di far parte della nuova Ucraina sovietica si spiega anche con il desiderio di avere una forte leva con cui controllarla per impedirne un nuovo possibile «traviamento», come quello poi domato da Stalin nel 1933 con l’Holodomor

[23] «Anche in Ucraina, tuttavia, l’esperienza sovietica aveva lasciato un seme positivo, incarnato dalle speranze e dai buoni e bei, ancorché ingenui, discorsi della perestrojka e dei suoi leader, rappresentati nella repubblica proprio da Kravčuk, asceso al potere dopo che Gorbačëv era riuscito a sbarazzarsi della precedente dirigenza. Questi discorsi, destinati a influire sul futuro, si affermarono già nell’ottobre 1989, quando il Soviet supremo ucraino approvò una legge sulle lingue del paese che sarebbe rimasta in vigore fino al 2012. Di impronta molto liberale, essa era orientata alla tutela del plurilinguismo e de Oggi siamo giunti a una tappa qualitativamente nuova dello sviluppo della nazione ucraina: sono in corso sia il processo pratico sia l’elaborazione ideologica per la fondazione di una statualità distinta, essenzialmente, dalla formazione di una nuova nazione statuale nel senso ampio del termine. In essa confluiranno i principali gruppi etnici che vivono in Ucraina e tutti i gruppi sociali senza eccezione. Questo è un processo ricco, diversificato e multifunzionale, che porterà alla nascita di un nuovo organismo».

[24] «una forte e ben organizzata diaspora. Al contrario di quella russa, anch’essa molto forte e combattiva nei decenni successivi alla guerra civile ma via via logorata dal naturale attrito del tempo, quella ucraina era nel 1991 ancora molto attiva e attenta a quanto succedeva in Ucraina, soprattutto in Canada e negli Stati Uniti. Si trattava e si tratta di una diaspora composta da molti strati temporali e politico-culturali: quello dell’emigrazione contadina precedente la prima guerra mondiale; quello dell’emigrazione politica seguita alle sconfitte del primo dopoguerra contro bolscevichi e polacchi; e soprattutto quello, fortemente politicizzato e organizzato, generato dalla seconda guerra mondiale. Quest’ultimo assunse presto una relativa egemonia sui due primi gruppi, trasmettendo la sua esperienza alle generazioni nate nei nuovi paesi di immigrazione. Era un gruppo unito dalla provenienza «regionale» (l’Ucraina occidentale già polacca) e nutrito dall’esperienza della guerra, anche partigiana, contro l’Unione Sovietica nonché da quella dei campi profughi, spesso gestiti dalle organizzazioni nazionaliste, che ne aveva rafforzato la compattezza come stava per succedere anche ai palestinesi.»

«L’ideologia dominante, ma non unica, di questo terzo strato era quella del nazionalismo integrale. Essa però aveva già cominciato ad evolvere nella lotta contro il «totalitarismo» sovietico e aveva continuato a farlo integrandosi nelle grandi democrazie occidentali e usando il discorso del «mondo libero» caratteristico della guerra fredda. I suoi figli erano inoltre cresciuti col mito della dissidenza e della lotta per la libertà, e avevano subito l’impatto dei grandi movimenti giovanili degli anni Sessanta e Settanta senza perdere il fortissimo attaccamento all’Ucraina. Nel 1991 c’erano quindi, sia in Canada che negli Stati Uniti, comunità attive e organizzate, con più di un milione di aderenti in ciascuno dei due paesi, pronte ad aiutare il paese di origine. Benché non mancassero nuclei ancora legati al precedente nazionalismo integrale, esse erano ormai in genere portatrici di valori liberaldemocratici, nutriti anche dalla lotta per il riconoscimento dell’Holodomor. Non stupisce quindi che l’influenza esercitata da queste diaspore sia stata in generale favorevole all’evoluzione «occidentale» dell’Ucraina, sostenendo la costruzione di nuove università, la formazione di élite culturali, politiche e burocratiche, la nascita di riviste e giornali».

«Putin vi ha visto invece, con malcelato disprezzo, la conferma di un’Ucraina per sua natura «periferia» e quindi incapace, per definizione, di ambire a costruire uno Stato, cioè ad essere un «centro». Un’Ucraina che può però diventare la creatura e lo strumento di stranieri malvagi che vogliono indebolire il «naturale» centro russo, chiamato a impedire che ciò accada».

«Se si guarda più da vicino alla costruzione ucraina in epoca sovietica, la falsità del discorso putiniano, ma anche la grande fragilità di quello dei tanti che hanno sottovalutato l’importanza dell’Ucraina in epoca moderna, risalta con chiarezza. Nel 1917 convivevano nella futura Ucraina tre progetti «ucraini»: quello nazionale a base etnolinguistica ma largamente dominato da intellettuali e organizzazioni socialiste, ancorché non sempre marxiste (non mancavano naturalmente correnti di altro tipo); quello «piccolo russo», presente tanto nei territori dell’impero russo quanto in Galizia, che accettava l’idea di una nazione russa politicamente unita, ma che era conscio di una differenza che andava difesa; e uno nazionalista russo, sostenuto anche da alcuni intellettuali e dirigenti di origine ucraina, sul modello di quanto succedeva con alcuni slavi italianizzati nelle regioni poi contese tra Italia e Jugoslavia.»

2 pensieri su “Sul libro di Andrea Graziosi

  1. ”le due modernità, quella sovietica e quella «occidentale» – entrambe originate nel *mondo bianco* ma profondamente diverse tra loro –, che si sono contese la Terra durante la guerra fredda”, scrive Graziosi in una nota.
    “Mondo bianco” mica tanto, con i pellerossa, i neri e le minoranze cinesi… Oppure Graziosi si riferiva alle élites bianche dell’occidente… ma: Obama e il primo ministro britannico?
    Interessante, invece, che i due mondi bianchi cerchino di rifondarsi alle radici: Putin in un identità extrastorica del mondo russo, l’occidente sulle costanti storico/antropologiche con studi sull’impero romano e Machiavelli.
    Intanto la maggior parte del pianeta un po’ meno bianca studia sì la nostra cultura, ma anche no, e Graziosi tratta forse una guerra inter-occidentale che, se interessa per esempio la Cina -ahi, la sua via della seta terrestre incontra degli ostacoli allo sbocco!-, non è però il conflitto planetario che forse si sarebbe tenuti a credere.

  2. SEGNALAZIONE

    L’età delle catastrofi – di Roberto Finelli
    16 Gennaio 2023
    https://www.altraparolarivista.it/2023/01/16/eta-catastrofi-finelli/

    Stralcio:

    Un passaggio egemonico è certamente sempre ed anche di natura culturale, quanto ad affermazione di nuove idee e di nuovi valori, ma è soprattutto istituito su una maggiore potenza di natura economico-militare. Ed appunto nel quadro di un confronto geopolitico di forze economiche e militari che va iscritta la guerra appena accesasi in Europa tra Federazione Russa ed Ucraina. Essa è un episodio, guardando assai in avanti, del confronto futuro tra la decadenza progressiva dell’impero americano e l’accrescimento sempre più esteso della potenza cinese. Ma è contemporaneamente l’esito, guardando all’indietro, di una politica dell’egemonia basata appunto sulla sconfitta economico-militare dell’avversario in questione e sulla sua riduzione a una condizione di impotenza. Come è avvenuto con l’implosione e la caduta dell’Unione Sovietica alla fine degli anni ‘80, quando, a conferma in primo luogo di un confronto duro tra forze e potenze, non c’è stata tolleranza e pietà alcuna per i vinti. Nel senso che non v’è stata alcuna intenzione da parte della potenza americana, uscita vincitrice della guerra fredda, di includere in un progetto di evoluzione democratica e di integrazione europea la popolazione russa, preferendola lasciare in balia di un capitalismo selvaggio e autoritario. Basti pensare al bombardamento da parte di Boris Jeltsin del parlamento russo, con i 180 morti che ne sono seguiti e subito messi da parte, e al consenso di fondo del mondo occidentale con cui quell’operazione bonapartista è stata accettata.

    La guerra in Ucraina è parte di questo gioco drammatico di colpi e controcolpi, secondo un’ottica di mera potenza, della cui cruda realtà il richiamo alla democrazia è solo apparenza e propaganda. In questo contesto è quindi verosimile pensare che una condizione permanente di guerre, più o meno dichiarate, caratterizzerà gli anni futuri, nella lotta durissima che segnerà lo spostamento dell’asse mondiale dall’Atlantico al Pacifico.

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