1- il quadrato magico
Il testo di Sraffa che oggi compare, l’ultimo delle Lezioni, completa il quadro della critica dei fondamenti della teoria economica: quadro in tutti i sensi, dato che abbiamo l’articolo di Sraffa del 26, queste Lezioni, Keynes visto attraverso gli occhi di Anna Carabelli nella edizione completa delle opere, e infine Graeber col suo ‘Debito, gli ultimi 5000 anni’.
Da Sraffa vengono tre elementi di analisi della teoria marginalista: il primo (nell’articolo del 26) è che non necessariamente c’è un solo punto d’incontro tra la curve di domanda ed offerta, quindi un punto di equilibrio non è determinato con certezza, e con esso un saggio del profitto; il secondo che in generale tutte le curve che formano la parte analitica della teoria sono arbitrarie e provengono da sistemi di equazioni indeterminati; il terzo che l’ambito in cui possono avere applicazione pratica è ristretto a pochi casi marginali. Il tutto accompagnato dall’osservazione che la riscoperta della ‘economia volgare’ da parte dei marginalisti e la loro fortuna appare dovuta più alla voglia di abbandonare la teoria classica e con essa l’imbarazzante fardello del valore-lavoro, nonché lo spettro socialista che ad esso si era accompagnato, che non a meriti intrinseci.
Conviene aggiungere una nota matematica che non è sempre palese: quando si dice che in una teoria economica un sistema è sovradeterminato (come nel caso di Marx che aggiunge con l’uguaglianza somma-prezzi=somma-valori una condizione di troppo) o è indeterminato (come nel caso di Marshall- e con lui tutti i marginalisti per l’insieme delle curve di produzione) diciamo una cosa molto precisa: il sistema è sbagliato. Non è una soluzione. Se fosse uno studente che si presenta col compitino fatto gli diremmo: torna a casa e rifai da capo.
Alla stroncatura senza scampo di Sraffa, Anna Carabelli, colla sua edizione delle opere di Keynes, aggiunge altre bordate di non poco peso: il suo Keynes non rappresenta solo, come nella tradizione, un’altra tendenza di politica economica, nota per il ruolo propulsore della spesa pubblica rispetto all’individualismo ‘egoista’ dei marginalisti, ma soprattutto pone grande attenzione ai fondamenti. Se a qualcuno vien da piangere leggendo i periodici commenti sullo stato dell’economia dei paesi basandosi sull’andamento del PIL, questa grandezza del tutto avulsa non solo dai bisogni reali della gente ma anche dallo stato reale dell’economia, dalla sua struttura, dalle sue tendenze..bene, trova conforto in Keynes, che avverte, quasi invano, che il PIL è grandezza in sé priva di senso, un aggregato inomogeneo e non rappresentativo, che va preso con tre paia di pinze e solo nei momenti di sconforto. Ma il suo discorso è assai più ampio, ché avverte della difficoltà di misurare le grandezze economiche, del livello ampio di incertezza che sempre le accompagna, legato non solo e non tanto ad elementi statistici ma soprattutto alle difficoltà intrinseche di misurazione, sia della sua effettuazione sia della scelta dell’unità.
“Cos’è allora l’economia per Keynes? La risposta è lui concepisce l’economia come una scienza morale e insieme un ramo della logica. È una scienza morale in quanto riguarda valori etici e introspezione (CW XIV, 300). E nel contempo è un ramo della logica, un modo di pensare. Fondamentalmente è un metodo che serve agli economisti per ottenere risultati ‘logicamente’ corretti- per evitare di cadere in ragionamenti logicamente fallaci come l’errore dell’additività nella probabilità o l’errore della composizione in economia.
Per Keynes il punto centrale è che senza questa logica gli economisti potrebbero perdersi nel bosco empirico e matematico, come secondo lui è stato il caso di econometristi come Tinbergen e Colin Clark e di altri economisti matematici. Il problema, come lui lo vede, è che l’applicazione di linguaggi matematici e statistici-coi loro presupposti di omogeneità, atomismo, e indipendenza- a una materia economica che è essenzialmente ‘vaga’ e ‘indeterminata’ produce fallacie logiche, una delle quali è la ‘ignoratio elenchi’ (un ragionamento irrilevante rispetto all’argomento ndr) nella teoria economica classica (Carabelli 1991). La definizione di matematica come ‘imprecisa’ nella Teoria Generale di Keynes significa che l’applicazione cieca di matematica e statistica all’economia -coi suoi aspetti invece non-numerici, non-comparativi e -non-ordinali, richiede attenzione logica. (CW VII, 298; Carabelli 1995).
E qui si apre il tema dirompente dei ‘presupposti nascosti’, tema noto ai matematici e agli scienziati, meno in altri campi; ma in Matematica e nelle scienze è obbligatorio elencare tutti i postulati su cui ci si basa, tutte le affermazioni che si danno per vere e su cui il ragionamento si basa. O meglio sarebbe obbligatorio, perché spesso si danno per scontati (in geometria sono spesso sottaciuti); ma talvolta sono presupposti di cui non ci rendiamo conto, o che non sono appropriati. Se in Geometria chiedessi di formare 4 triangoli equilateri con 6 stecchini dovrei anche precisare che la risposta non è necessariamente su un piano, cioè in 2 dimensioni (dato che la soluzione esiste solo in 3 dimensioni). Finché siamo in geometria i presupposti nascosti sono innocui, al massimo procurano mal di testa, in altri campi sono assai nocivi: sono la base di molte credulità e di molti trucchi illusionistici (come di molte ‘medicine’ illusorie). E mentre nelle scienze ‘esatte’ in genere si sta attenti, e talvolta si elencano puntigliosamente tutti i presupposti di un ragionamento o di un esperimento, in Economia e Sociologia -ma spesso anche in Medicina- è prassi rara, e spesso sconsigliata; (come sarebbe in una ricerca americana sull’obesità trascurare il reddito e il colore della pelle, ovvero i fattori determinanti dell’alimentazione negli USA; o in sociologia fare interviste a campioni sbilanciati-ad esempio pagati 100$ per rispondere). Non è un caso isolato il Nobel dell’Economia del 2019, un cialtrone che derivava la propria fama dall’essere stato il primo ad avere una cattedra in Economia Ambientale, e grazie a questo dirigeva la rivista che se ne occupava, dove metteva amici e benefattori. Il cui metodo ‘scientifico’ di lavoro consisteva nel inviare questionari a un certo numero di persone, di cui poi selezionava le risposte che gli facevano comodo come significative. E così chiedeva ‘pensate che l’estrazione crescente del petrolio possa far male al pianeta e all’economia?’, selezionava tutti i no e poi vendeva lautamente le proprie consulenze ai governi interessati.
Ed è sui presupposti nascosti che interviene a gamba tesa David Graeber, che dopo aver capovolto con ‘L’alba del tutto’ le nostre conoscenze sull’organizzazione sociale dell’uomo antico con ‘Debito, i primi 5000 anni’ smantella le basi delle nostre convinzioni più radicate.
Il concetto di debito è infatti alla base non solo dell’economia ma anche di molti dei nostri rapporti sociali, fino alla religione; la sua disanima mostra la trasformazione che ha subito, man mano verrebbe da dire ma in realtà con un percorso assai poco lineare, apparendo e scomparendo e poi riaffiorando nei rapporti sociali, in opposizione o compresenza con società di cooperazione dove l’uso era assente e il concetto inutilizzato, dato che non c’era scambio né immediato né procrastinato. Fino a quando, come dice ne ‘L’alba’, rimaniamo incastrati in un vicolo cieco con una sola organizzazione sociale e il debito, stavolta più gradualmente, esce dall’ambito delle scelte ed entra in quello dei presupposti, così necessari ed ‘inevitabili’ da risultare nascosti.
“..ovviamente lei aveva letto molto a proposito di Seattle, Genova, gli scontri nelle strade e i lacrimogeni ma..bene, avevamo ottenuto qualcosa in quel modo? ‘In effetti’ risposi ‘penso sia abbastanza stupefacente tutto quello che siamo riusciti ad ottenere in un paio d’anni’ ‘Ad esempio?’ ‘Beh, ad esempio, siamo riusciti a distruggere quasi completamente il FMI’ . Come spesso succede lei non sapeva esattamente cosa fosse il Fondo Monetario Internazionale, così le accennai che il FMI agiva di fatto come l’esattore dei debiti internazionali -si potrebbe dire come l’equivalente per l’alta finanza degli energumeni che vengono a romperti le gambe- e mi lanciai nei retroterra storici spiegando come, nel corso della crisi del petrolio degli anni 70, i paesi dell’OPEC avevano finito per versare tante di quelle loro improvvise ricchezze nelle banche occidentali che queste non sapevano più come investire tutti quei soldi; come Citybank e Chase cominciarono allora a spedire agenti in giro per il mondo per convincere politici e dittatori del terzo mondo a prendere prestiti (allora questo veniva chiamato ‘banche a gògò’); come inizialmente i tasse d’interesse fossero estremamente bassi ma poi andassero alle stelle al 20% o più a causa della politica monetaria di austerità degli USA.; come, durante gli anni ’80 e ’90 questo portasse alla crisi del debito del terzo mondo e come allora il FMI intervenisse insistendo che per ottenere rifinanziamenti i paesi poveri avrebbero dovuto abbandonare il sostegno dei prezzi sui generi di prima necessità e persino le politiche di formazione di riserve strategiche di cibo e abbandonare la sanità gratuita e l’educazione gratuita; e come tutto questo abbia portato al collasso di tutti i sostegni base per alcune delle popolazioni più povere e vulnerabili del pianeta. Parlai di povertà, del sacco delle risorse pubbliche, del collasso di intere società, di violenza endemica, denutrizione, disperazione e vite infrante. ‘Lo scopo a lungo termine era l’aministia del debito. Qualcosa del tipo del Giubileo biblico.’ ‘Per quello che ci riguardava’ le dissi ‘trent’anni di denaro che fluiva dai paesi più poveri a quelli più ricchi era fin troppo’ . Ma, obiettò lei, come se fosse evidente ‘loro hanno preso in prestito i soldi! Certamente uno deve pagare i propri debiti’.
Il problema alla base di tutto stava qui: proprio l’assunzione che che I debiti devono essere pagati. In realtà quello che è notevole in questa affermazione ‘uno deve pagare i propri debiti’ è che anche secondo la teoria economica standard questo non è vero. Un prestatore deve accettare un certo grado di rischio…La cosa buffa è che non è il modo in cui dovrebbero operare I debiti; le istituzioni finanziarie avrebbero il compito di distribuire le risorse. Il fatto stesso che non sappiamo cosa sia il debito, la flessibilità del concetto, è la base del suo potere. Se la storia insegna qualcosa è che non c’è miglior modo di giustificare relazioni basate sulla violenza per farle sembrare morali che esprimerle in termini di debito; soprattutto perché questo in questo modo è la vittima che sembra subito che faccia qualcosa di sbagliato. I mafiosi lo sanno. E altrettanto i comandanti di eserciti invasori. Per migliaia di anni i violenti sono stati in grado di dire alle vittime che erano in debito con loro. Oggi ad esempio l’aggressione militare è definita un debito contro l’umanità e le corti internazionali, quando sono chiamate in causa, normalmente chiedono all’aggressore di pagare dei risarcimenti. La Germania ha dovuto pagare pesanti risarcimenti dopo la WW1, e l’Iraq sta ancora pagando il Kuwait per l’invasione del 90. Eppure il debito del terzo mondo, quello di paesi come il Madagascar, la Bolivia, e le Filippine sembra che vada esattamente nel verso opposto. Le nazioni debitrici del terzo mondo sono quasi esclusivamente paesi che a un certo punto sono state attaccate e conquistate da paesi europei- spesso proprio le stesse nazioni di cui sono ora debitrici. Ma il debito non è solo la giustizia del vincitore; è anche un modo di punire vincitori che non avrebbero dovuto vincer L’esempio più spettacolare è quello della Repubblica di Haiti- il primo paese povero a venir posto in uno stato di servitù da debito permanente. Haiti era una nazione fondata da ex-schiavi di piantagioni che hanno avuto la temerarietà non solo di ribellarsi- nel mezzo di dichiarazioni roboanti di diritti universali e libertà- ma anche di sconfiggere le armate che Napoleone aveva mandato per riportarli in schiavitù. La Francia sostenne immediatamente che che la nuova repubblica le doveva 150 milioni di franchi di danni per l’esproprio delle piantagioni, come anche le spese delle spedizioni militari, e tutte le altre nazioni, inclusi gli USA, acconsentirono a imporre un embargo sull’isola finché non venisse pagato. La somma era intenzionalmente impossibile (equivalente a circa 18 miliardi di dollari) e l’embargo risultatnte assicurò che il nome Haiti fosse sinonimo di debito, povertà e miserabilità per sempre.
A volte tuttavia debito sembra significare esattamente l’opposto. A partire dagli anni 80 gli USA, che avevano insistito per applicare termini rigorosi per il rimborso dei debiti del terzo mondo, si indebitarono essi stessi per una somma che eclissava di gran lunga quella dell’intero terzo mondo- una somma generata principalmente dalle spese militari. Il debito estero degli USA però prende la forma di buoni del tesoro detenuti investitori istituzionali di paesi (Germania, Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Tailandia, Golfo Persico) che nella maggior parte dei casi sono di fatto protettorati militari degli USA, coperti di basi militari piene di armi pagate con quelle stesse spese in debito’.…”
2- il ritorno del re
Ma ci si potrebbe chiedere: se la teoria economica è ridotta così male, a cosa affidarsi per capire l’economia?
Penso la domanda sia mal posta: il passo di Graeber citato sopra dove descrive la storia di Haiti ci dice dell’economia reale assai più di un trattato; e questo ci insegna che parlare di economia avulsa dal mondo reale è grave errore; ed è intenzionale, chè la teoria neoclassica nasce proprio con l’intento di mascherare sia l’origine del valore nello sfruttamento dei lavoratori sia la violenza necessaria a mantenerlo; ivi compresa la violenza degli stati imperialisti sugli altri.
Per chiarire meglio il mio punto di vista faccio un esempio tratto ancora una volta da un economista onesto (nonostante il Nobel) come Krugman, che rispetto ai bitcoin (e alla loro recente crisi) chiede: ‘ma in fondo, c’è un qualche uso pratico dei bitcoin che non sia il riciclare denaro sporco?’: domanda retorica ma significativa, perché quello che ci dice in realtà è che l’economia non è in grado di capire i bitcoin. Infatti alla base dei bitcoin -con tutti i loro limiti e difetti, che ne fanno sconsigliare l’uso a qualsiasi persona ‘normale’- sta proprio il tentativo di uscire dalle regole dell’economia ufficiale, dell’uso del denaro inscindibile dalla coercizione. (Valga ad esempio il fatto che nella ristretta comunità che li ha originariamente generati era sufficiente che a un certo momento qualcuno detenesse poco più della metà per appropriarsi di tutto; e nonostante questa condizione si sia verificata più di una volta nessuno ne ha mai approfittato).
Così come la sociologia non ha una teoria generale, ma un comune oggetto e tanti metodi per studiarlo, propongo quindi di abbandonare una volta per sempre la ‘teoria economica’ come oggi ci viene presentata e tenerci poche cose:
-le riflessioni di Keynes sull’incertezza e la difficoltà di misurazione come criteri fondamentali per valutare la realtà economica;
-alcune formule empiriche (anche se millantate come alta matematica) che di volta in volta ci spiegano alcune contingenze economiche,
-delle tavole delle interdipendenze settoriali alla Leontief
-e la teoria del valore-lavoro di Marx, che è il risultato più alto dell’economia classica e ci spiega come nasce il profitto; fra l’altro il sistema di Marx, anche se non è possibile mantenere la sua condizione dell’eguaglianza complessiva tra somma dei valori e somma dei prezzi, (anche se tanto Sraffa quanto altri come Pala ne recuperano la sostanza come processo storico di accumulazione) ci dice molto sui percorsi dell’economia, anche attraverso la dialettica proprio fra questi due elementi.
Val la pena di citare ancora una volta il passo dei Grundrisse sulle macchine, dove dice che il valore -e con esso il lavoro umano quindi- è ormai base ben misera per misurare la ricchezza; se questo implica la sparizione della classe operaia come centro delle contraddizioni e con questo del suo ruolo centrale come soggetto rivoluzionario non comporta però la sparizione di ogni soggetto rivoluzionario, anzi: significa più cose contemporaneamente:
-l’allargamento dell’estrazione del plusvalore a tutte le branche e livelli del percorso delle merci -dalla produzione alla distribuzione alla circolazione- come prima fase di autonomizzazione del capitale dal lavoro;
-la perdita del ruolo progressivo del capitale nel rivoluzionamento continuo dei mezzi di produzione (scienza inclusa);
-la perdita della centralità della fabbrica (processo compiuto solo in Occidente, laddove Cina e India funzionano come enormi fabbriche decentrate) comporta anche un carattere caotico delle contraddizioni e delle lotte, prive di quel riferimento unificante, di contraddizione ma anche di controllo; e questo a sua volta comporta sviluppi caotici della gestione del potere, con ruolo maggiore delle forze esterne come esercito e polizia (ruolo accentuato da una necessità di controllo a distanza di una forza lavoro decentrata, che è uno degli elementi dell’attuale guerra silenziosa tra USA e Cina: lo strangolamento delle capacità produttive nell’IA da parte degli USA non dice solo ‘non vogliamo concorrenza’ ma anche ‘dovete limitarvi a fornirci merci a basso costo da cui estrarre sovraprofitti’).
-epperò implica anche, una volta rovesciato quel potere, la possibilità di una gestione dolce -non coercitiva- di forze produttive ormai abbastanza sviluppate da poter fare a meno del socialismo e del suo controllo su un lavoro necessario ormai ridotto a termine minimo.
Ma se vogliamo aver successo su questa strada bisogna però fare prima un po’di pulizia, in primis dei paraocchi che ci hanno cucito addosso, poco a poco.