di Ennio Abate
Non sono mai riuscito a condividere la cancellazione del Marx “vecchio” a favore del Marx “giovane”, quello che secondo Lea Melandri «non sembrava ancora Marx». (E potrei aggiungere – anche se il discorso per vastità si complicherebbe troppo – la cancellazione della «Dialettica dell’illuminismo» a favore dell’illuminismo. O del Freud “vecchio” di eros e thanatos dal Freud “giovane”. O del Fortini di «Il dissenso e l’autorità» a favore del Fachinelli del «desiderio dissidente». O del ’68 con il suo strascico militante e anche sanguinoso degli anni ’70 fino all’uccisione di Moro a favore del ’68 “innocente”). E non perché preferisca il “vecchio” al “giovane”, la scienza (dentro il Capitale) all’utopia. Ma perché non si deve nascondere un fatto incontrovertibile: che nel corso dei decenni successivi i «“limiti” e le inadeguatezze della politica tradizionalmente intesa» sono cresciuti. E che dopo quel “movimento-lampo” del ’68 di lampi non ce ne sono stati più e anzi siamo in tempi bui. Certo, allora «si è cominciato a ragionare e a prospettare cambiamenti su quell’area di esperienze, individuali e collettive, che è stata considerata “non politica”», ma vogliamo dircelo che non si è andati oltre l’inizio, il balbettio, l’urlo? E che la sinistra è scomparsa non perché sia rimasta ancorata al Marx “vecchio” ma perché ha scaricato il Marx “vecchio” e quello “giovane” consegnandosi al pensiero (heideggeriano) di destra o alle sue varianti (“There is no alternative”)?
Questo il post di Lea Melandri:
I “Fantasmi” di Marx
Nei “Manoscritti economico-filosofici” del 1844, gli scritti giovanili dove Marx non sembrava ancora Marx, compariva a margine della critica dell’economia politica un interrogativo radicale, indicato come l’ “enigma della storia”: che cosa spinge “originariamente” l’uomo a quel “sacrificio di sé” che è la consegna del proprio lavoro, e del prodotto del medesimo, nelle mani di un altro uomo che se ne fa in questo modo “proprietario”.
Questa domanda richiamava per me l’altra, non meno essenziale, posta da Freud come “enigma del sesso”: il sacrificio di sé che viene chiesto alla donna -espresso indirettamente nel “rifiuto del femminile”- affinché da forza attiva e centrale nel processo generativo si trasformi in “tramite” o mediazione ad una discendenza solo maschile, di padre in figlio.
Mi piaceva anche nei “Manoscritti” che si parlasse di “ritorno all’ umano”, inteso come “totalità di manifestazioni di vita umana”, quella “autorealizzazione” da parte dell’uomo che il ’68 ha creduto di prefigurare nella “tensione utopica” che permette di vedere il possibile “attualmente impossibile”, e che a Franco Fortini sembrava invece un “benefico sovrappiù”, conseguente “solo” alla trasformazione del mondo, cioè alla rivoluzione.
L’uscita dalla dimensione essenzialmente “privata” della vita mi è stata possibile quando, per l’improvviso capovolgimento di gerarchie date come “naturali”, immodificabili, si è cominciato a ragionare e a prospettare cambiamenti su quell’area di esperienze, individuali e collettive, che è stata considerata “non politica” – e di conseguenza sui “limiti” e le inadeguatezze della politica tradizionalmente intesa: un’area vastissima, estesa quanto il tempo che occupano vicende cruciali dell’essere umano, come la nascita, la morte, l’invecchiamento, il gioco, l’amore, la memoria, sulle quali si possono vedere i segni di una “disumanizzazione “ non meno violenta di quella che agisce nello sfruttamento economico.
E’ l’area che la sinistra ha sempre considerato genericamente “improduttiva”, popolata da “fantasmi” che stanno, dice Marx, “fuori dal regno della produzione”, soggetti variabili –diversamente dall’operaio, soggetto per eccellenza, che resta fisso anche quando è in via di sparizione: studenti, pensionati, disoccupati, ecc.; variabili anche nel posto che occupano nell’elencazione, come capita per le donne, sempre difficili da “collocare”.
Oggi questi orfani della politica, assegnati in epoche di gloriose lotte operaie al “territorio” circostante la fabbrica, assomigliano sempre più ai “fantasmi” descritti da Marx: “i furfanti, gli scrocconi, i mendicanti, i disoccupati, l’uomo da lavoro affamato, miserabile e delinquente”, una parte considerevole di umanità che esiste solo “per gli occhi del medico, del giudice, del poliziotto”.
Non posso accettare questo dualismo tra “l’enigma della storia” e “l’enigma del sesso” e la vita adulta in cui si aderisce bon gré mal gré a lavoro e -spesso- vita familiar/riproduttiva. Come se potesse esistere, oggi, per persone con tremila anni di storia culturale comune, un rimando alla originalità originaria! La vita associata è adattamento, e mutamento, all’interno delle condizioni date e comuni. Per questo quei “fantasmi” – giustamente secondo Lea Melandri tali solo per gli occhi del poliziotto, del giudice e del medico – sono invece, e appunto, solo quelli che la società non vuole integrare, per i quali non dispone collocazioni di sorta, perché non si allarga, perché è chiusa e normativa… e perché non operano sempre e dovunque nuove forme di lotta.
SEGNALAZIONE
Rinascimento Marx, solo in Italia è chiuso a chiave in soffitta
Michele Prospero — 3 Gennaio 2023
https://www.ilriformista.it/rinascimento-marx-solo-in-italia-e-chiuso-a-chiave-in-soffitta-337277/
P.s.
Mio commento.
D’accordo su un punto che Prospero (storico e quasi mio coetaneo perciò “vecchio”) sottolinea ma soltanto alla fine: “Eppure in Marx, più che l’enfasi sui limiti dello sviluppo, cova un’istanza di liberazione, di esaltazione delle capacità”.
Questo mi pare ancora un Marx per i ricchi (preoccupati). Può far piacere che in Germania ci siano intellettuali e politici meno ottusi, ma c’è sempre stato dall’Ottocento un “socialismo della cattedra”. Sappiamo che non è servito a molto.
Sfortunatamente in Italia non sono mai stati pubblicati integralmente gli atti della Prima Internazionale; una mia proposta di molti decenni fa a Marsilio, allora diretta da Cesare De Michelis, non venne accolta.
Così, forse anche per inerzia, il Marx di cui si parla è il teorico e/o il filosofo, dimenticando completamente il Marx politico: nella prima Internazionale ci fu uno scontro feroce tra Marx e gli altri teorici/dirigenti socialisti e anarchici, da Proudhon a Bakunin, e molti dei discorsi di Marx sulla centralità della classe operaia e sul LumpenProletariat vanno visti legati alle scelte politiche del momento. Così come la partecipazione prevalente di operai (maschi) francesi e inglesi condiziona anche il fuoco politico e teorico.
Semplificando dovremmo chiederci non solo cosa diceva Marx negli scritti giovanili o nel Capitale, ma come questo si traduceva nell’individuazione e nell’azione del soggetto rivoluzionario. E in questo senso almeno prestare più attenzione agli scritti politici già noti, dal Manifesto agli articoli per il NYTimes, come ‘il 18 Brumaio di Luigi Buonaparte’.
Anche per togliere dai commenti quella stanca patina di trine ammuffite che ormai troppo spesso li accompagna quando si parla di Marx.
Il miglior saggio sul MANIFESTO di Marx e’ stato pubblicato da Paolo Giussani e s’intitola : Il Manifesto , 150 di solitudine.
@ Maria Bonatti
Migliore perché smantella l’ipotesi comunista di Marx (ed Engels) e si adagia in una sorta di scetticismo nichilista e disincantato? No, grazie.
Questa l’impressione in gran parte negativa che mi sono fatto da una lettura veloce dello scritto suggerito. (Leggibile o scaricabile da questo link: https://www.yumpu.com/it/document/view/15833036/150-anni-di-solitudine-il-manifesto-del-partito-countdown). Non conoscevo questo studioso, Paolo Giussani,
Che mi pare fin troppo invischiato nella pesante eredità della scolastica marxisteggiante di decenni ormai trascorsi, che lui critica acidamente da posizioni abbastanza simili a quelle di Gianfranco La Grassa.